ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 6 luglio 2017

Vocazione cercavan, la trovarono?

Due vocazioni

Le storie incrociate di Papa Francesco e Don Milani.

Come è noto, lo scorso 20 giugno, in occasione dell’approssimarsi del quarantesimo anniversario della scomparsa di Don Lorenzo Milani, avvenuta il 26 giugno 1967, Jorge Mario Bergoglio si è recato in visita a Barbiana, vetusto popolo – oggi più che allora – di poche anime, situato in Mugello, ampia plaga dal mutevole paesaggio (ora gentile, ora assai aspro) che chiude a settentrione la vasta arcidiocesi fiorentina, e dove il celebre priore appunto mise in piedi la sua celebre scuola e terminò i suoi giorni su questa valle di lacrime. Sembra proseguire a tappe forzate il programma – che peraltro trova precise e solide fondamenta in quanto accaduto sul colle Vaticano dal 1963 a oggi – che Bergoglio si è proposto fin dalla sua elezione: sorrisi e semplicità distribuiti a destra e a mancina, ma profonda Riforma (in senso quasi luterano, vista anche la recente visita a Lund) della Chiesa, anche rispetto alle posizioni di Ratzinger, evidentemente sentite come troppo conservatrici e ostacolanti il dialogo con i fedeli (o meno fedeli, si veda alla voce Eugenio Scalfari) da parte dell’argentino. In questa cornice dunque il senso della preghiera sulla tomba del priore di Barbiana e il tenore del discorso tenuto nel piccolo paesino toscano, pieno di elogi e comportante una piena riabilitazione dell’operato educativo di Don Lorenzo Milani – che all’epoca trovò perplesso il pur riformatore Angelo Roncalli – tanto che per i corridoi vaticani non sono mancate voci su una possibile prossima beatificazione del sacerdote fiorentino.



       Don Milani con i suoi scolari a Barbiana.


La figura di Lorenzo Carlo Domenico Milani Comparetti, in religione Don Milani, è certo di grande complessità. Tanto per cominciare, se fosse vissuto nella Spagna di Filippo II, gli sarebbe stata affibbiata l’etichetta di cristiano nuevo (che, come si sa, dava adito a molti sospetti e verifiche soprattutto per chi tentava la carriera religiosa, visto il pericolo di apostasia): aveva infatti origini ebraiche sia per parte di madre, l’ebrea triestina di origini boeme Alice Weiß, che della bisnonna paterna, la pedagogista ebrea russa Elena Raffalovich. Egli crebbe in un ambiente familiare agnostico, anticlericale e socialisteggiante, che vide la madre studiare e approfondire anche la psicanalisi freudiana. I genitori decisero più tardi di sposarsi con rito cattolico e di battezzare successivamente anche i figli. Nei primi anni quaranta, il Nostro mostrò un profondo interesse per la pittura, e frequentò a Firenze lo studio del tedesco Hans Joachim Staude, studioso anche del buddhismo e dell’induismo, nonché padre di Angela Staude, futura moglie del celebre giornalista fiorentino Tiziano Terzani. Sotto questa influenza, pare che il futuro Don Milani si sia dato allo studio della liturgia cattolica comparato alle tradizioni orientali. In ogni caso, di questa fase per così dire guénoniana del sacerdote fiorentino nulla ci resta, in quanto egli stesso ne distrusse in seguito i manoscritti.




                    I genitori di Don Milani.

Nel 1943, nel quadro della guerra civile, in Don Milani matura la vocazione sacerdotale, ed egli entra in seminario, di cui però sembra non apprezzare la tradizonalità dell’insegnamento e l’uso della lingua latina. Gli fu assegnata la parrocchia di S. Donato a Calenzano, una maestosa chiesa di impronta barocca – cosa rara in Toscana – che domina dall’alto di un colle coperto di ulivi il paese dei dintorni di Firenze. Già qui, in un contesto di fede contadina molto attaccata al rito anche esteriore, in quanto in ciò si vedeva un legame con i progenitori e con il ciclo della natura – atteggiamento che Don Lorenzo pare non comprendesse e addirittura, luteranamente quasi, considerasse con dileggio – si preoccupò dell’educare i parrocchiani. Di per se, nulla di strano: i parroci hanno per secoli, se non per millenni, impartito – oltre ai rudimenti della fede cattolica ovviamente – anche l’istruzione elementare nelle campagne, contrastati solo dall’illuminismo in poi dallo Stato che sempre più voleva farsi padrone delle coscienze dei propri sudditiMa poteva dirsicattolica l’istruzione di Don Milani? Sembra piuttosto che le idee respirate nel milieu familiare in gioventù si siano fatte sentire. Lo spazio era per una presa di coscienza sociale più che per la catechesi, sull’istruzione (ma un’istruzione del tutto aconfessionale e dunque nemmeno spirituale) del popolo come emancipazione – un afflato per certi versi analogo a quello della successiva Teologia della liberazione –anticipando in questo senso anche gli esiti del Concilio Vaticano II.



Su tale impostazione ebbe chiaramente una sua influenza la pedagogia della bisnonna ebrea Elena Raffalovich. Ella, rifacendosi alle teorie del romantico Froebel, vi introduceva però una rigida aconfessionalità: si doveva vietare ai bambini l’accesso al catechismo in orario scolastico. Tale concezione, rivoluzionaria (proprio nel senso giacobino del termine) ma anche in certa misura atlantista – si pensi alla Costituzione degli Stati Uniti – è tuttora considerata validissima in molti ambiti educativi. Ironicamente – ed evangelicamente – dell’albero si vedono quotidianamente i frutti. Per tornare al Nostro, egli anche in campo dottrinale si discostò assai dalla Tradizione, sorvolando sul catechismo, adottando il metodo storicista per l’interpretazione del Vangelo, il tutto accompagnato da deduzioni del tutto personali a supporto della sua Weltanschauung. Ciò è assai rimarchevole in un sacerdote cattolico, essendo il Cattolicesimo forse la più tradizionale in senso etimologico delle confessioni: Tradidi quod et accepi. Quanto al suo disprezzo per i riti e le consuetudini della fede semplice, forse se ne può trovare un lontano prodromo in Scipione de’ Ricci, vescovo di Prato e Pistoia, avversario della messa in latino e dei riti troppo esteriorizzati: tanto è vero che nel 1787 scatenò in Prato gravi tumulti volendo limitare la tradizionale processione della Sacra Cintola. All’epoca fu cacciato dalla sua diocesi e spedito in Chianti a meditare, il Bergoglio lo avrebbe forse fatto cardinale. A Don Lorenzo non andò meglio e – suo malgrado, come in un film di Don Camillo – fu mandato a prendersi cura delle anime del paesino montano di Barbiana.


 Veduta del villaggio di Barbiana.

E’ il 1954: è qui che il celebre parroco continua imperterrito nella sua opera profondamente modernista. Qui vede la luce la celebre Lettera a una professoressama soprattutto qui Don Lorenzo intreccia una fitta corrispondenza con vari personaggi della cultura dell’epoca, specialmente toscani. Il linguaggio che adopera non è propriamente quello che si attribuirebbe a un sant’uomo, ma neppure a un semplice e onesto pretonzolo di campagna: egli, per esempio, si dice convinto di essere stato confinato a Barbiana,e purtuttavia di aver accettato di malavoglia l’incarico nonostante fosse palese a chiunque che vi ero confinato come finocchio e demagogo ereticheggiante e forse anche confesso visto che non avevo reagito. Del 1959 è anche la ormai celebre lettera al giornalista de L’Europeo Giorgio Pecorini che getta un’ombra un po’ inquietante sul rapporto che il sacerdote intratteneva con i suoi scolari (leggi qui). Se poi si trattasse di metafore spinte e iconoclaste o di vere pulsioni omosessuali o pedofile, forse non lo si saprà mai. Fatto si è che lo scrittore omosessuale Walter Siti proprio a Don Lorenzo ha voluto dedicare il suo ultimo romanzo Bruciare tutto. Alla sovrana riflessione di chi legge stabilire se sia tutta una volgare calunnia o se si tratti di una deduzione nata dalla frequentazione di scritti come quelli citati. Persino Sandro Magister, sul non sospetto Espresso, insinua nella sua rubrica che Rodolfo Fiesoli, fondatore del purtroppo tristemente noto Forteto, un cattivo scolaro di Don Milani. Affermazione invero sibillina: ma che insinua un tremendo sospetto laddove si ripeta, con il Vangelo che dai frutti li riconoscerete. E forse, Jorge Mario Bergoglio e Don Lorenzo Milani, un comune impeto clastico nei confronti della Tradizione ce l’hanno davvero. Se ne contenti, ancora una volta, chi vuole.
di Lorenzo Sarri - 5 luglio 2017
http://www.lintellettualedissidente.it/italia-2/bergoglio-largentino-e-don-lorenzo-il-fiorentino/


Il vero volto di don Lorenzo Milani
(di Cristina Siccardi) «Mi piacerebbe», ha dichiarato Papa Francesco ai partecipanti alla presentazione dell’Opera omnia di don Lorenzo Milani alla Fiera dell’Editoria italiana di Milano lo scorso aprile, «che lo ricordassimo soprattutto come credente, innamorato della Chiesa anche se ferito, ed educatore appassionato con una visione della scuola che mi sembra risposta alla esigenza del cuore e dell’intelligenza dei nostri ragazzi e dei giovani».
Le lodi di Bergoglio a questo sacerdote («Servo esemplare del Vangelo, lo dico da Papa» e «Ringrazio il Signore per averci dato sacerdoti come don Milani»), sulla cui tomba di Barbiana è andato in preghiera il 20 giugno scorso, hanno creato malumori non certo infondati. Chi era don Milani?
Come spesso accade ai rivoluzionari di impronta marxista, anche l’intellettuale e politicante impegnato don Lorenzo Milani Comparetti (27 maggio 1923-26 giugno 1967) nacque e crebbe in una ricca famiglia ebrea. Il padre Albano era un chimico con forti interessi letterari, che si occupò dei suoi molti poderi intorno a Montespertoli, egli era figlio di Luigi Adriano Milani, archeologo e numismatico, coniugato a Laura Comparetti, figlia del filologo Domenico e della pedagogista Elena Raffalovich, ebrea ucraino-francese, fondatrice in Italia dei giardini d’infanzia del pedagogista tedesco August Fröbel. Perno della Raffalovich era l’aconfessionalità e laicità delle scuole.
Ella, che lasciò il marito, il senatore Domenico Comparetti, importante filologo, grecista e latinista, per seguire i corsi e le scuole froebeliana attive in Germania, era convinta che le donne del popolo avrebbero condotto una lotta di progresso per il bisogno pratico e dinamico dell’educazione dei propri figli, a differenza delle donne borghesi, che lei considerava legate a «false ideologie preconcette» (Cfr. carteggio con Adolfo Pick).
Dopo la morte nel 1927 del senatore, la famiglia Milani ne acquisì il cognome. Il nonno materno, Emilio Weiss, discendeva da una famiglia ebrea boema trasferitasi a Trieste, dove lavorò come commerciante, coltivando le sue passioni letterarie e l’amicizia con Italo Svevo. Proprio a Trieste nacque Alice, che qui fu allieva dell’amico di famiglia James Joyce e, contemporaneamente, fu affascinata dalle nuove teorie dell’ebreo Sigmund Freud. Agnostici e anticlericali, i genitori di Lorenzo si sposarono nel 1919 con il solo rito civile.
La famiglia viveva tra Firenze, le sue tenute e la residenza di Castiglioncello, luogo di amene e intellettuali vacanze; fra le loro frequentazioni: le famiglie Olschki, Valori, Pavolini, Castelnuovo Tedesco, Spadolini.
A causa delle posizioni areligiose della famiglia, le scuole frequentate a Milano dal secondogenito Lorenzo, dal fratello Adriano e dalla sorella Elena creavano loro disagio e per tale ragione i genitori decisero di sposarsi con rito religioso il 29 giugno 1933. Lorenzo, dopo le scuole dei Barnabiti,frequentò il liceo classico milanese Berchet. Studente di scarsa resa, intrecciò rapporti di amicizia con i compagni di classe Oreste Del Buono, Saverio Tutino, Enrico Baj.
In disaccordo con il padre, non si iscrisse all’Università e frequentò a Firenze, invece, lo studio del pittore Hans Joachim Staude, sensibile alla cultura orientale e al buddismo. Fu in questo periodo che Lorenzo fece delle ricerche sul senso dei riti liturgici, studiandoli con l’occhio del pittore e del filologo: egli stesso distruggerà i cartoni dei disegni e i manoscritti inerenti a tali interessi.
Fu nel 1943 che decise di convertirsi al cattolicesimo. Il 12 giugno di quell’anno ricevette la cresima dall’Arcivescovo di Firenze, il cardinale Elia Dalla Costa, il quale aprì alle istanze del cattolicesimo sociale di Giorgio La Pira. Il 9 novembre entrò quindi nel Seminario arcivescovile fiorentino di Cestello, sancendo la sua scelta con la rinuncia alla propria quota di eredità familiare. Tuttavia il ribelle Milani visse male in Seminario, che definirà «una immensa frode» (lettera a Bruno Brandani, in N. Fallaci, La vita del prete Lorenzo Milani. Dalla parte dell’ultimo, Milano 2005, p. 86): da subito manifestò la sua indisponibilità ad accogliere insegnamenti e ritualità della Chiesa: «si ha sempre l’impressione di essere in un manicomio […] non c’è più nessun indizio che possa far pensare in che secolo siamo, né in che paese. Difatti stiamo zitti in latino» (Lettere alla mamma, a cura di A. Milani Comparetti, Milano 1973, n. 2).
 La soggettività imperava nella sua religiosità sociale: gli atti rituali esteriori gli erano nemici; era l’interiorità protestantizzante che doveva prevalere sulla forma cattolica, scriveva infatti a sua madre, che fu sempre sua fedele confidente: «che ognuno pensi da sé a rettificare la sua intenzione e che se anche per caso si siede senza essersi fatto il segno della croce, può darsi che la croce che ha dentro sia più austera e più grande e più umiliante che quella che s’è dimenticato di tracciare per l’aria» (ibidem).
In occasione del referendum istituzionale del 1946, nonostante la posizione filomonarchica del cardinale Dalla Costa, don Milani espresse il suo favor per la Repubblica insieme a don Raffaele Bensi (1896- 1985), sacerdote che fu guida sua, dalla conversione alla morte. Ma Bensi fu confessore e consigliere anche di Giorgio La Pira, David Maria Turoldo, Ernesto Balducci, Nicola Pistelli. Questo formatore di più generazioni di liberali e comunisti ammantati di religiosità cattolica, definirà il priore di Barbiana: «l’immagine più eroica del cristiano e del sacerdote» da lui conosciuta, e distruggerà, dopo la morte di Milani, tutto il carteggio intercorso con lui.
Ordinato sacerdote il 13 luglio 1947, fu inviato l’8 ottobre come cappellano nella parrocchia di San Donato a Calenzano (Prato), abitata da circa 1200 persone, gente prevalentemente povera. Fin dal principio non condivise la religiosità dei parrocchiani, la considerava azione passiva, artefatta, consuetudine necessaria per essere riconosciuti nella comunità. Questa è la classica tracotanza dei progressisti: considerare gli altri degli imbecilli nelle mani del potere.
Il pensiero comunista era parte integrante delle sue fibra e il credo era per lui confessione politica: teologia della liberazione. Le sue non erano mai catechesi, ma presa di coscienza sociale. Su tutto doveva imperare la dignità umana, quella che sarà esaltata dal Concilio Vaticano II in poi. Strumento di dignità era la capacità di espressione linguistica, presupposto di libertà.
La cultura avrebbe restituito dignità al povero. Fondò la sua scuola come alternativa a quello che considerava proselitismo delle parrocchie e alternativa alle sezioni comuniste. Per Milani la scuola era il bene della classe operaia, la ricreazione era invece la sua rovina. Suo obiettivo era quello di far scoprire ai giovani le gioie della cultura e del pensiero e smisi«di far la corte ai giovani che non venivano. Non perdevo anzi occasione di umiliarli e offenderli» (Esperienze pastorali, pp. 128 s.).
Il buonista don Lorenzo Milani non era buono, né come uomo, né tantomeno come sacerdote. Abbandonò con disprezzo il catechismo tradizionale: lui, il rivoluzionario, indottrinava con autorità il cristianesimo attraverso lo storicismo e il Vangelo personalmente interpretato. La dottrina della Chiesa e i suoi riti erano favole per ingenui e sciocchi. Vedeva la scuola come la palestra del riscatto dei poveri e non come luogo confessionale (alla stregua della sua parente Elena Raffalovich), perciò i simboli cristiani e le immagini sacre dovevano essere tolte ed anche il crocifisso poteva legittimamente scomparire dalle aule, al modo dell’Abate Ferrante Aporti cento anni prima, smascherato dal pedagogo per eccellenza, san Giovanni Bosco.
Gli studenti non erano da Milani considerati degli scolari, bensì dei pari agli altri e, dunque, dovevano confrontarsi con gli intellettuali. Non a caso la concezione milaniana verrà presa a modello dal pensiero sessantottino: ogni settimana il prete classista invitava a tenere conferenze oratori come i magistrati Gian Paolo Meucci e Marco Ramat, il direttore del Giornale del mattino Ettore Bernabei, lo storico Gaetano Arfé.
Don Milani venne poi trasferito a Barbiana, una parrocchia in via di soppressione nei pressi di Vicchio nel Mugello, alle pendici del Monte Giovi, dove vi giunse il 6 dicembre 1954. Vi abitavano circa 100 persone. Si trattava, dunque, di una punizione. Con il suo linguaggio diretto e di strada, il parroco scrisse di aver accolto il nuovo incarico «nonostante fosse palese a chiunque che vi ero confinato come finocchio e demagogo ereticheggiante e forse anche confesso visto che non avevo reagito» (Lettere alla mamma 1973, n. 84). Nei suoi carteggi i riferimenti all’omosessualità e addirittura alla pedofila non sono rari. Don Lorenzo Milani non può essere portato a modello non solo nell’educazione cristiana, ma neppure in quella laica, a meno che quella laica sposi, come sta accadendo grazie alle politiche omosessualiste attuali, le teorie LGBT.
Alberto Melloni, direttore dell’opera omnia del priore di Barbiana (conservata, nel Fondo Lorenzo Milani, custodito dalla madre e poi affidato nel 1974 all’Istituto per le scienze religiose Giovanni XXIII a Bologna),cerca di difendere don Milani dalle accuse di pedofilia (d’altro canto è lo stesso autore che parla della sua attrazione fisica per i suoi ragazzi, per esempio in quella terribile lettera del 10 novembre 1959 che egli indirizzò a Giorgio Pecorini, giornalista de «L’Europeo» e che circola da tempo anche sul web), ma non di omosessualità. 
Giunse il tempo del libro dirompente che egli volle redigere pensando soprattutto ai preti. Voleva fare colpo e ci riuscì. Predispose con cura la pubblicazione a partire dal 1955, cercando sostegni fuori dalla diocesi dell’Arcivescovo Florit, che lo contrastava, e si appoggiò a Dalla Costa, dal quale ottenne il nihilobstat.
Per l’introduzione al testo fu in primo luogo coinvolto, tramite don Bensi, l’Arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini, che declinò l’invito; la richiesta fu invece accolta dall’Arcivescovo di Camerino Giuseppe D’Avack. Uscì così, dopo le elezioni politiche del 25 maggio 1958, Esperienze pastoraliper i tipi della Libreria Editrice Fiorentina. Si tratta della sua opera principale, in cui emerge in compiutezza pensiero e azione. Polemico e critico nei confronti della predicazione, «il frutto della stupidità del sei e settecento» (p. 84), Milani esamina il rapporto, sia dei fedeli sia dei non credenti, con la liturgia, deformandone e profanandone il significato.
Era necessaria per Milani un’educazione finalizzata a trasmettere gli strumenti per decidere se sovvertire il modello di valori della civiltà in via di sviluppo e non di progresso, idea alla quale si rifarà più tardi il depravato intellettuale Pier Paolo Pasolini. Con Esperienze pastorali il priore di Barbianasi trovò al centro di un acceso dibattito nazionale, spalleggiato da La Pira e da Primo Mazzolari, ma contrastato da La Civiltà cattolica (20 sett. 1958), dove Angelo Perego commentò in termini negativi l’opera, ritenuta carica di ossessioni e di contraddizioni.
La Congregazione del Santo Uffizio il 10 dicembre 1958 ordinò il ritiro del testo, proibendone ristampe e traduzioni. David Maria Turoldo, che aveva discusso con l’amico del libro in corso d’opera, fece in seguito riferimento alle eretiche questioni teologiche poste da Esperienze pastorali, sostenendo che l’autore: «era di origine ebrea […], sebbene fosse illuminato grazie alla grande cultura sua personale e della famiglia da cui proveniva […] ma al fondo era un convertito con radici ancestrali ebraiche. Quel tanto di Nuovo Testamento che compare nel libro è venuto fuori dalle nostre discussioni» (D.M. Turoldo, Il mio amico don Milani, Bergamo 1997, p. 53). Interessante notare come dapprima il cardinale Roncalli fu critico nei confronti di Esperienze pastorali, ma una volta eletto Papa molte di quelle riflessioni divennero traccia dello spirito del Concilio Vaticano II, contribuendo al successo mediatico della scuola di Barbiana e del «prete rosso» (Lo Specchio, 21 marzo 1965).
Accolta da Avvenire d’Italia come un’opera «più simile a una fucilata che ad un saggio» (11 giugno 1967), la famosa Lettera a una professoressa ebbe ampia eco negli anni della rivoluzione culturale, tanto da divenire manifesto della contestazione studentesca. Più di venti milioni di copie furono vendute nel mondo e l’esito positivo venne legato al rinnovamento della scuola in Europa.
Negli ultimi anni, però, si sta capovolgendo l’ordine dei fattori: a fronte di una crisi educativa e scolastica di impressionanti proporzioni, le critiche vengono dirette anche a don Milani, politicamente implicabile nella responsabilità della attuale situazione pedagogica (Cfr. R. Berardi, Lettera a una professoressa. Un mito degli anni Sessanta, s.l. 1992); mentre La Civiltà cattolica( ottobre del 2007) ha recuperato la figura del prete di Barbiana.
Di sé scriveva: «io al mio popolo gli ho tolto la pace. Non ho seminato che contrasti, discussioni, contrapposti schieramenti di pensiero. Ho sempre affrontato le anime e le situazioni con la durezza che si addice al maestro. Non ho avuto né educazione, né riguardo, né tatto […] avrò seminato zizzania, ma insegno anche a chi mi darebbe fuoco» (Esperienze pastorali, p. 146). Uomo tribolato e sacerdote non realizzato, questo maestro eversivo, nei suoi 44 anni di vita, non ebbe mai pace e mai ne trasmise. (Cristina Siccardi)
https://www.corrispondenzaromana.it/il-vero-volto-di-don-lorenzo-milani/

Pedro Arrupe: alle fonti del pensiero di Francesco

Dall’esistenzialismo filosofico al magistero esistenzialista




di Marco Sambruna 

PROLOGO: L’ESISTENZIALISMO FILOSOFICO
 
L’esistenzialismo è la corrente filosofica che ha maggiormente caratterizzato la modernità a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso. Secondo Sartre la condizione umana tipica consiste nella necessità della scelta davanti alle possibilità che la vita offre: tale necessità è inamovibile dal punto di vista sociale se non nel caso in cui la società stessa si configuri secondo i crismi di uno dei tanti “ismi” contemporanei dal carattere totalitario in cui si istituisce una forma di schiavitù, ossia la sola condizione esistenziale che liberi dall’angoscia della scelta, ma chiedendo in cambio l’inaccettabile rinuncia alla libertà.
A fronte della molteplicità delle aspirazioni si erge la finitudine delle possibilità determinate da limiti monetari, intellettuali, fisici, psicologici, sociali: il senso del limite e specialmente il limite supremo della morte sancisce una netta cesura fra ciò che si vorrebbe essere e ciò che si è.
Diventare ciò che si è contro la heideggeriana “dittatura della chiacchiera” o “rumore sociale”, cioè contro il conformismo e l’autorità che ne delinea le norme diventa il principale obiettivo della cultura esistenzialista. E’ questo il nucleo dell’esistenzialismo sartriano fondato sull’esperienza anziché sulla conoscenza: l’ esistenzialismo fondato sull’esperienza di Sartre apre l’uomo al progetto di se stesso a partire dalle sue scelte incuranti del “già dato” o del precostituito. L’uomo può compiere scelte autentiche cioè caratterizzate da spontaneità e originalità autodirette oppure può compiere scelte inautentiche assumendo uno degli scenari precostituiti dalla realtà sociale eterodiretta caratterizzate da conformismo, omologazione, standardizzazione del pensiero.

LA DISSOLUZIONE DELL’AUTORITA’
L’autenticità della scelta indica quindi la possibilità di diventare se stessi nella situazione concreta in cui ci si accinge a scegliere: nei bivi dell’esistenza occorre prescindere da suggestioni preesistenti ossia dai condizionamenti agiti dall’autorità e amplificati dal rumore sociale o chiacchiera collettiva. Non è un caso che la filosofia esistenzialista che anima il maggio parigino sessantottesco si riassume in slogan quali “l’immaginazione al potere” e “vietato vietare” ossia in parole d’ordine in cui a essere posta in discussione è la competenza dell’autorità rea di comprimere energie che altrimenti potrebbero esprimersi.
Lo sforzo dunque vale ad emanciparsi, nel compimento delle proprie scelte, dalle strutture e massime dalle architetture metafisiche religiose. Ciò equivale a dire che bisogna essere soli davanti alle scelte dirimenti dell’esistenza. Il “situazionismo” esistenzialista implica perciò sia l’opacità della decisione che la densità dell’angoscia come inevitabile dato psicologico di chiunque debba scegliere fra una possibilità autentica e una inautentica. Dal “situazionismo” scaturisce dunque anche l’inquietudine angosciosa tipica di chi si espone al rischio dell’errore davanti alla molteplicità di possibilità che gli si offrono. L’alternativa consiste nell’ incamminarsi lungo uno dei sentieri già tracciati dalla contingenza sociale che assegna ruoli liberando dall’angoscia della scelta, ma in cambio della rinuncia all’autenticità. Nulla sfugge alla decisione dell’uomo qualora si emancipi dalle strutture metafisiche che lo eccedono e lo condizionano inautenticamente: diventa perfino possibile scegliere la propria identità sessuale come sostiene Simone de Beauvoir affermando che “donne non si nasce, ma si diventa”. Sappiamo bene a quale deriva ha condotto questo clima culturale o atmosfera che dalla filosofia è tracimata nell’arte, nella letteratura e perfino nella teologia.
Ciò che importa è che l’emancipazione dall’ethos delle metafisiche tradizionali in nome dell’autenticità situazionale non poteva che implicare la decostruzione della visione del mondo e dell’uomo sviluppata dalla religione nel corso dei secoli.
L’esistenzialista quindi “intenziona” le situazioni dotandole di senso prettamente individuale prescindendo non solo dal determinismo del comportamentismo psicologico e allo strutturalismo filosofico con cui entra in polemica ma, soprattutto, della metafisica tradizionale cioè religiosa con i suoi dogmi, i suoi precetti, la sua dottrina. In una parola col suo magistero.

IL MAGISTERO ESISTENZIALISTA
In ambito gesuitico padre Pedro Arrupe è il principale portavoce dell’esistenzialismo teologico mutuato da quello filosofico in un inedito capovolgimento della scala gerarchica tradizionale che ha sempre considerato la filosofia ancilla theologiae.
Nel clima contestatario post conciliare è la teologia a essere ancella della filosofia prima che questa a propria volta, di degrado in degrado, si trasformi in sociologia prima e statistica poi.
L’esistenzialismo teologico come quello filosofico consiste dunque nel credere nel primato dell’esperienza operativa e intellettuale sulla conoscenza appresa da un’autorità supposta competente ossia il magistero cattolico in ordine all’intellezione della pedagogia divina. Il magistero nelle facoltà teologiche e nei seminari è ora riguardato con sospetto in quanto affetto da presunto nozionismo, astratta inconsistenza laddove l’esperienza è apprendimento diretto grazie all’immersioni nelle situazioni storiche secondo le proprie scelte autodirette prima intenzionate e quindi personalizzate e poi agite. L’uomo e la società si auto formano guidati dall’ immanenza della sapienza divina che conduce direttamente le coscienze senza alcuna necessità di metafisiche, maestri, insegnanti, pedagoghi e magisteri.
D’altra parte il privilegio concesso all’esperienza quale mezzo di conoscenza comporta non solo l’indebolimento dell’ ethos autoritario cioè il ridimensionamento dell’autorevolezza che deriva dalla scienza, ma anche l’ascesa della mera opinione che deriva da una conoscenza approssimativa; è inoltre facile immaginare come a partire dal primato dell’esperienza autodidattica che prescinde dall’autorevolezza si apre la via al soggettivismo e al relativismo.
Dobbiamo infine sottolineare come l’esistenzialismo gesuitico fondato sull’esperienza che ha avuto in padre Pedro Arrupe il suo massimo promotore nulla ha a che fare col casuismo quale metodo di discernimento elaborato storicamente dalla Compagnia di Gesù. Il casuismo infatti ha lo scopo di confrontare con il magistero una serie di questioni concernenti le scelte morali al fine di individuare una risposta il più possibile coerente con l’insegnamento della Chiesa.
Dunque il magistero esistenzialista di padre Arrupe non solo tende ad affrancarsi dal magistero, ma anche dalla tradizione gesuitica per fondare una sorta di esistenzialismo gesuitico quale modello di riferimento per il credente contemporaneo.

CAOS ORGANIZZATO
Il primo passo operato dai vertici gesuiti dunque è consistito nel promuovere il primato dell’esperienza autodidattica sull’insegnamento autorevole.
Il secondo passo ha riguardato invece l’erezione di una sorta di caos organizzato secondo il principio cardine per cui il Potere, un qualsiasi potere, quando vuole cambiare una visione del mondo inserisce nelle sue costituzioni le istanze più disparate in una commistione intricata di elementi tradizionali e innovativi al fine di mascherare il più possibile il processo di cambiamento ai suoi esordi.
In questa prospettiva di ridimensionamento dell’elemento autorevole e autoritario è stato possibile inserire e promuovere fra i gesuiti della gestione Arrupe alcuni concetti inediti nella storia della Chiesa che hanno opacizzato la chiarezza del magistero ordinario agendo quali elementi di caotizzazione o disarticolazione della visione univoca che la Chiesa ha sempre avuto sull’uomo e sulla società.
Il metodo del caos organizzato quale strategia di rinnovamento privilegiato dai gesuiti ha avuto in Pedro Arrupe uno dei suoi principali artefici tramite il ricorso al meticciamento lessicale o ibridazione linguistica a partire da alcuni concetti chiave i quali, senza smentire esplicitamente l’insegnamento tradizionale della chiesa anzi in alcuni casi ribadendolo, tuttavia introducono delle sfumature le quali sembrano costituire degli avamposti del pensiero progressista attorno a cui aggregare la formazione di una nuova dottrina.
E’ sufficiente esaminare tali concetti chiave per avere contezza del loro potenziale eversivo per quanto essi siano quasi sempre intricati con istanze che tradizionalmente appartengono al patrimonio del pensiero cattolico. Essi si riassumono nelle proposizioni più volte reiterate da padre Arrupe diinculturazione, dialogo con la cultura moderna, impegno politico, servizio all’uomo, rinnovo della vita religiosa. 
Ad esempio al sinodo dei vescovi tenutosi nel novembre 1977 ( qui ) possiamo leggere fra le dichiarazioni di padre Arrupe molte proposizioni in cui l’elemento ortodosso è incrinato e opacizzato da elementi spuri, evidenziati in grassetto, che intorbidiscono la cristallina trasparenza del pensiero tradizionale della chiesa sul tema dell’inculturazione. Si osservi che dal concetto cattolico di inculturazione si transita successivamente a quello di pluralismo per addivenire infine al vero obiettivo che consiste nell’accondiscendenza verso la cultura marxista:
“(l’inculturazione) è il corollario pratico di quel principio teologico che afferma che Cristo è l’unico Salvatore e che niente si salva fuori di lui. Di qui la conseguenza che Cristo deve assumere nel suo Corpo – che è la Chiesa – tutte le culture, purificandole, ed è scontato, da tutto ciò che in queste è contrario al suo Spirito e salvandole così senza distruggerle. E’ la penetrazione della fede nei meandri più profondi della vita dell’uomo, arrivando fino a colpire la sua maniera di pensare, di sentire e di agire sotto l’ispirazione dello Spirito di Dio.
E’ offrire a tutti i valori culturali una stessa possibilità di mettersi al servizio del Vangelo (…) il pluralismo che attenterebbe all’unità della Chiesa, mentre il vero pluralismo ci porta ad una unità molto più profonda. La crisi dell’unità deve essere attribuita in molti casi a un pluralismo insufficiente che non permette ad alcuni una normale possibilità per tradurre e vivere la propria fede in accordo con la loro cultura particolare. (…) L’assenza di riflessione oggettiva e serena sulla cultura moderna, apparentemente secolarizzata, irreligiosa atea; senza pensare che questa cultura può presentarsi così perché la fede è stata insegnata e praticata in un modo concettualistico, disincarnato, al margine della cultura. 
In questa proposizione la prima parte ribadisce la dottrina di sempre mentre la seconda sembra smentire l’idea secondo cui non tutte le culture sono compatibili col Vangelo. Al contrario sembra affermare che anche le visioni del mondo più aliene da una concezione cristiana possono concorrere alla diffusione della Parola di Dio. Vi è contraddizione logica affermando che un maggior pluralismo garantisce maggior unità, e subito dopo si definisce come apparente l’ateismo della cultura contemporanea, mentre come ormai abbondantemente acclarato, la cultura di quegli anni (1977) era dominata dal materialismo dialettico marxista programmaticamente ateo o dal liberalismo capitalista fondamentalmente agnostico. Infine, pare suggerire Arrupe, anche le culture moderne come il marxismo cui si allude senza scaltramente nominarlo esplicitamente sono state in qualche modo costrette all’ateismo militante – e relativa lotta armata - a causa di una fede tradizionalmente insegnata, ossia troppo astratta e sganciata dalla realtà e quindi incapace di dare risposte concrete ai problemi dell’uomo contemporaneo che tali risposte dunque ha dovuto cercarle altrove. Di qui facile suggerire l’idea secondo cui è ora di accantonare definitivamente il Magistero di sempre barattandolo con la valorizzazione delle esperienze che storicamente sono nate extra ecclesia in quanto più conformi a soddisfare i bisogni della società moderna.
In quest’ altra proposizione relativa all’ impegno politico del cristiano lo schema volto ad alternare dichiarazione ortodossa a dichiarazione spuria risulta particolarmente evidente. In questo caso è la proposizione spuria a precedere quella ortodossa.
 Proprio in un periodo in cui la catechesi include, e ben a ragione, la dimensione politica degli obblighi del cristiano e dell’esistenza cristiana, è impossibile che faccia astrazione dal marxismo. (…) Bisognerà talora distinguere, là dove tale distinzione fosse fondata, quello che è programma sociopolitico limitato e quello che è concetto della società nel suo rapporto col destino dell’uomo. Ci si poggerà allora sulle distinzioni messe in rilievo dalla “Octogesima Adveniens ” (n.33).
Senza omettere naturalmente di far notare che, secondo la medesima “Octogesima Adveniens”, nella vita concreta queste distinzioni sono raramente e difficilmente mantenute fino agli estremi: “Se attraverso il marxismo, come è concretamente vissuto, si possono distinguere questi diversi aspetti (…) sarebbe illusorio e pericoloso giungere a dimenticare il legame intimo che li unisce alla radice, accettare gli elementi dell’analisi marxista senza riconoscere i loro rapporti con l’ideologia, entrare nella pratica della lotta di classe e della sua interpretazione marxista trascurando di cogliere il tipo di società totalitaria e violenta alla quale questo processo conduce (n.34).”
Nella prima parte padre Arrupe pare alludere alla legittimità del “programma socio politico” marxista - programma che include la pratica rivoluzionaria - in vista della giustizia sociale purché tale programma sia separato dal “concetto di società” vale a dire dalla teoresi marxista protesa alla massificazione dell’individuo coartato da un regime totalitario addirittura invocando i rilievi della “Octogesima Adveniens”.
E’ evidente che non è possibile separare la prassi rivoluzionaria dalla teoria marxista perché, se è vero che la prassi rivoluzionaria precede l’elaborazione del costrutto marxista come dimostra ad esempio Correa de Oliveira, tuttavia nell’ambito del discorso in questione ci si riferisce non alla rivoluzione come dinamica storica sempre presente, ma proprio e specificamente all’ evento della rivoluzione marxista. Così essendo è chiaro che non può inverarsi il “programma socio politico marxista” di cui la prassi rivoluzionaria è momento decisivo, se non fosse stato proiettato sulla storia dal marxismo ideologico così come non poteva esistere il cristianesimo se Cristo non si fosse incarnato nella storia. Oltre a ciò la manipolazione cui è sottoposta lettera dell’enciclica è evidente se si considera che prima è stata utilizzata per incrinare il magistero riguardo l’atteggiamento che il cristiano deve avere verso i marxismo e poi è stata richiamata per ribadire l’inconciliabilità fra due visioni dell’uomo così differenti.
Tuttavia col il metodo del meticciamento lessicale o ibridazione linguistica è stato possibile adombrare l’ipotesi che la prassi – rivoluzionaria - marxista possa essere apprezzata anche da un cristiano.
Più avanti nel corso dello stesso intervento sul tema dei rapporti fra cristianesimo e marxismo padre Arrupe ricorre alla medesima ibridazione, ma stavolta senza separare nettamente gli asserti ortodossi da quelli spuri intricandoli in una maggior commistione quando sostiene che
il cristiano da parte sua non escluderà qualsiasi violenza (che talvolta si presenta come necessari nell’ambiguità dell’azione), ma escluderà questa fiducia nel processo di violenza.
Bisogna rendere sensibili (i cristiani) anche a certe evoluzioni che si verificano nel mondo marxista. Rendere capaci di apprezzare sinceramente ciò che di grande c’è in questo movimento che ha conquistato una parte così importante dell’umanità , e nello stesso tempo valutare con chiarezza e lealtà cosa ci farebbe deviare da Cristo e dall’uomo cristiano. Rendere il cristiano libero e non pavido di fronte al marxismo. Renderlo capace di una franca e chiara collaborazione nella misura in cui questa collaborazione si impone in ordine al bene comune , ma anche non meno capace di criticare e prendere le distanze quando lo impone la coscienza cristiana.

OLTRE IL MAGISTERO
"Se parliamo esplicitamente di comunione ai divorziati risposati, questi non sai che casino ci combinano. Allora non parliamone in modo diretto, tu fai in modo che ci siano le premesse, poi le conclusioni le trarrò io". 
Jorge Mario Bergoglio citato da Bruno Forte )
Bergoglio pare avere mutuato dal suo mentore giovanile padre Arrupe l’idea che il mezzo privilegiato per pervenire alla conoscenza sia l’esperienza e non l’obbedienza all’autorevolezza di chi quella conoscenza già la possiede sia esso uomo di scienza teologica o lo stesso magistero della Chiesa. In definitiva sembra che ogni decisione di ordine morale debba svolgersi quasi esclusivamente in foro interno sulla scorta dell’esperienza vissuta. Anch’egli del resto per trasmettere questo messaggio ricorre al metodo del meticciato linguistico o ibridazione lessicale per incrinare il magistero della Chiesa e penetrarlo con istanze spurie orientate verso l’indicazione del primato della coscienza soggettiva quale misura di valutazione.
Naturalmente ci sono molti esempi di testi bergogliani intrisi di analogia col metodo dell’ibridazione linguistica di padre Arrupe al fine di introdurre elementi innovativi senza dichiararli esplicitamente. Qui ci limitiamo a osservare brevemente uno dei più significativi esempi di ambivalenza lessicale di padre Bergoglio il quale, sollecitato da una domanda, nella risposta inserisce elementi spuri soggettivisti e relativisti quali segni distintivi di una ricognizione sul tema della comunione interconfessionale, cioè da concedere durante un rito cattolico anche ai protestanti.
“D. – Mi chiamo Anke de Bernardinis e, come molte persone della nostra comunità, sono sposata con un italiano, che è un cristiano cattolico romano. Viviamo felicemente insieme da molti anni, condividendo gioie e dolori. E quindi ci duole assai l’essere divisi nella fede e non poter partecipare insieme alla Cena del Signore. Che cosa possiamo fare per raggiungere, finalmente, la comunione su questo punto?
R. – Grazie, Signora. Alla domanda sul condividere la Cena del Signore non è facile per me risponderLe, soprattutto davanti a un teologo come il cardinale Kasper! Ho paura! Io penso che il Signore ci ha detto quando ha dato questo mandato: “Fate questo in memoria di me”. E quando condividiamo la Cena del Signore, ricordiamo e imitiamo, facciamo la stessa cosa che ha fatto il Signore Gesù. E la Cena del Signore ci sarà, il banchetto finale nella Nuova Gerusalemme ci sarà, ma questa sarà l’ultima. Invece nel cammino, mi domando – e non so come rispondere, ma la sua domanda la faccio mia – io mi domando: condividere la Cena del Signore è il fine di un cammino o è il viatico per camminare insieme? Lascio la domanda ai teologi, a quelli che capiscono. È vero che in un certo senso condividere è dire che non ci sono differenze fra noi, che abbiamo la stessa dottrina – sottolineo la parola, parola difficile da capire – ma io mi domando: ma non abbiamo lo stesso Battesimo? E se abbiamo lo stesso Battesimo dobbiamo camminare insieme. Lei è una testimonianza di un cammino anche profondo perché è un cammino coniugale, un cammino proprio di famiglia, di amore umano e di fede condivisa. Abbiamo lo stesso Battesimo. Quando Lei si sente peccatrice – anche io mi sento tanto peccatore – quando suo marito si sente peccatore, Lei va davanti al Signore e chiede perdono; Suo marito fa lo stesso e va dal sacerdote e chiede l’assoluzione. Sono rimedi per mantenere vivo il Battesimo. Quando voi pregate insieme, quel Battesimo cresce, diventa forte; quando voi insegnate ai vostri figli chi è Gesù, perché è venuto Gesù, cosa ci ha fatto Gesù, fate lo stesso, sia in lingua luterana che in lingua cattolica, ma è lo stesso. La domanda: e la Cena? Ci sono domande alle quali soltanto se uno è sincero con sé stesso e con le poche “luci” teologiche che io ho, si deve rispondere lo stesso, vedete voi. “Questo è il mio Corpo, questo è il mio sangue”, ha detto il Signore, “fate questo in memoria di me”, e questo è un viatico che ci aiuta a camminare. Io ho avuto una grande amicizia con un vescovo episcopaliano, 48enne, sposato, due figli e lui aveva questa inquietudine: la moglie cattolica, i figli cattolici, lui vescovo. Lui accompagnava la domenica sua moglie e i suoi figli alla Messa e poi andava a fare il culto con la sua comunità. Era un passo di partecipazione alla Cena del Signore. Poi lui è andato avanti, il Signore lo ha chiamato, un uomo giusto. Alla sua domanda Le rispondo soltanto con una domanda: come posso fare con mio marito, perché la Cena del Signore mi accompagni nella mia strada? È un problema a cui ognuno deve rispondere. Ma mi diceva un pastore amico: “Noi crediamo che il Signore è presente lì. È presente. Voi credete che il Signore è presente. E qual è la differenza?” – “Eh, sono le spiegazioni, le interpretazioni…”. La vita è più grande delle spiegazioni e interpretazioni.Sempre fate riferimento al Battesimo: “Una fede, un battesimo, un Signore”, così ci dice Paolo, e di là prendete le conseguenze. Io non oserò mai dare permesso di fare questo perché non è mia competenza. Un Battesimo, un Signore, una fede. Parlate col Signore e andate avanti. Non oso dire di più.”
E’ interessante notare come i numerosi richiami a discernere in base a criteri soggettivi contenuti nelle affermazioni spurie frammiste a quelle che sembrano ortodosse inducano il lettore a credere si possa bypassare ciò che dice il magistero, cui non si fa riferimento nemmeno una volta, circa l’intercomunione: l’invito è quello di rivolgersi direttamente al Signore, secondo uno dei capisaldi del pensiero protestante che non accetta intermediazioni, e decidere tramite discernimento interiore dunque senza ricorrere all’autorevolezza del magistero cattolico. Bergoglio indica nelle interpretazioni, ossia nello stesso magistero, l’origine delle differenze che separano la dottrina cattolica da quella protestante che altrimenti, cioè senza interpretazione alcuna, finirebbero per coincidere in una per lui desiderabile unità.
D’altra parte prescindere dal magistero e rivolgersi direttamente a Dio quale strategia per progredire nel cammino di perfezione come pare indicare Bergoglio nelle espressioni “la vita è più grande delle spiegazioni e interpretazioni” e “Parlate col Signore andate avanti” non può che riferirsi al valore dell’esperienza quale mezzo conoscitivo nell’accezione esistenzialista per cui è bene che l’individuo sia solo con la propria angoscia di fronte alle scelte decisive onde evitare condizionamenti sovrastrutturali o metafisici che potrebbero sviare verso scelte inautentiche.
Infine il reiterato riconoscimento dei propri limiti riguardo la conoscenza della teologia cattolica provoca ulteriormente a credere non necessaria la scienza di Dio che l’autorità detiene, ma a ritenere sufficiente un dialogo diretto col divino ossia l’ascolto della voce della propria coscienza. La quale, facciamo osservare a latere, come molti maestri spirituali e alcuni esponenti della psicologia meno omologata hanno sagacemente fatto notare, se non guidata è sempre pericolosamente predisposta a trovare argomentazioni atte a giustificare comportamenti errati o, se si preferisce, disfunzionali.
Dunque l’insieme della proposizione bergogliana percorsa da meticciato lessicale tende a delegittimare il magistero cattolico; esso infatti è fondato proprio su quella interpretazione della Parola di Dio che alimenterebbe, secondo Bergoglio, la divisione oltre ad essere incapace di offrire risposte che non siano standardizzate e quindi drammaticamente inadeguate a includere la complessità dell’esistenza. In realtà è proprio l’interpretazione a cura dei necessari “dottori della lettera” spesso esecrati da Bergoglio ad evitare qualsiasi fruizione letterale della Bibbia che trasformerebbe il cattolicesimo in una religione del libro così come lo è il protestantesimo o l’islam mineralizzandola in una sorta di collettivismo religioso dalle sentenze categoriche inadatte a cogliere le innumerevoli occasioni di dubbio o incertezza che l’esistenza presenta e che solo un accurata e competente interpretazione può dirimere.

COSA DICE IL MAGISTERO 
Che il decorso gesuitico durante la gestione di padre Arrupe avendo mutuato alcune istanze esistenzialiste e particolarmente l’affrancamento dall’autorità – e quindi dal magistero – in nome di un richiamo all’esperienza quale strategia autodidattica suscitasse le preoccupazioni papali del resto è dimostrato da alcuni documenti in cui, significativamente, il linguaggio curiale sempre caratterizzato da estrema prudenza e accorta cautela, è abbandonato e sostituito da chiare reprimende.
Paolo VI nella omelia alla Cappella Sistina, del 15 novembre 1966 ( qui ) si rivolge alla Compagnia di Gesù denunciandone le derive soggettiviste e autodirette sempre più svincolate dal magistero e sempre più legate all’azione e dunque all’esperienza di prassi che privilegiano il commercio con dinamiche profane.
“Volete voi, figli di Ignazio, militi della Compagnia di Gesù, essere ancor oggi, e domani, e sempre, ciò che siete stati dalla vostra fondazione fino a questo giorno per la santa Chiesa cattolica e per questa apostolica Sede? Questa Nostra domanda non avrebbe ragion d’essere, se al Nostro orecchio non fossero giunte notizie e voci, riguardanti la vostra Compagnia - e del resto anche altre Famiglie Religiose - di cui non possiamo nascondere il Nostro stupore e, per alcune di esse, il Nostro dolore.
Forse invalse in alcune menti anche dei vostri il criterio dell’assoluta storicità delle cose umane, generate dal tempo e dal tempo inesorabilmente divorate, quasi non fosse nel cattolicesimo un carisma di verità permanente e di stabilità invincibile, di cui questa pietra della Sede apostolica è simbolo e fondamento? Forse parve all’ardore apostolico, di cui tutta la Compagnia è animata, che per dare maggiore efficacia alla vostra attività occorreva abdicare a tante venerabili consuetudini spirituali, ascetiche, disciplinari, non più aiuto, ma freno a più libera e più personale espressione del vostro zelo? E allora sembrò che l’austera e virile obbedienza, che ha sempre caratterizzato la vostra Compagnia, che sempre anzi ha reso evangelica, esemplare e formidabile la sua struttura, dovesse essere allentata, come nemica della personalità e ostacolo alla vivacità dell’azione , dimenticando quanto Cristo, la Chiesa, la vostra stessa scuola spirituale hanno magnificamente insegnato circa tale virtù. Così vi fu forse chi credette non essere più necessario imporre alla propria anima l’«esercizio spirituale», la pratica cioè assidua e intensa dell’orazione, l’umile, ardente disciplina della vita interiore, dell’esame di coscienza, dell’intimo colloquio con Cristo, quasi che l’azione esteriore bastasse a mantenere e illuminato e forte e puro lo spirito, e fosse valida di per sé all’unione con Dio; e quasi che questa ricchezza di arti spirituali solo al monaco si addicesse, e non fosse piuttosto per il soldato di Cristo l’armatura indispensabile. E forse ancora fu di alcuni l’illusione che per diffondere il Vangelo di Cristo fosse necessario far proprie le abitudini del mondo, la sua mentalità, la sua profanità, indulgendo alla valutazione naturalistica del costume moderno, anche in questo caso dimenticando che l’accostamento doveroso e apostolico dell’araldo di Cristo agli uomini, a cui si vuole recare il messaggio di Lui, non può essere una assimilazione tale che faccia perdere al sale il suo bruciante sapore, all’apostolo la sua originale virtù.”
Anche Giovanni Paolo II a distanza di ben 13 anni deve reiterare gli inviti espliciti di “ritorno all’ordine” durante il discorso rivolto ai gesuiti nel corso della XXXI Congregazione generale della Compagnia di Gesù il 21 settembre 1979 ( qui ).
“Certamente non ignoro – e così rilevo anche da non poche altre informazioni – che la crisi, la quale in questi ultimi tempi ha travagliato e travaglia la vita religiosa, non ha risparmiato la vostra Compagnia, causando disorientamento nel popolo cristiano, e preoccupazioni alla Chiesa, alla Gerarchia ed anche personalmente al Papa che vi parla. 
(…) desidero vivamente raccomandarvi di promuovere con ogni impegno quanto di bene si compie nella Compagnia e dalla Compagnia, ed insieme di procurare, con la dovuta fermezza, rimedio alle deplorate deficienze, in modo che tutta la Compagnia viva e operi, sempre animata dal genuino spirito ignaziano.
Siate parimente fedeli alle leggi del vostro Istituto, che Paolo VI e più recentemente Giovanni Paolo I, nell’allocuzione preparata, poco prima di morire, per la vostra Congregazione dei Procuratori, aveva indicato; specialmente per quanto riguarda l’austerità della vita religiosa e comunitaria, senza cedere a tendenze secolarizzatrici; un senso profondo di disciplina interiore ed esteriore; l’ortodossia della dottrina, nella piena fedeltà al supremo magistero della Chiesa e del Romano Pontefice , fortemente voluta da Sant’Ignazio, come tutti ben sapete (…)”
Il metodo dell’ibridazione linguistica teso a sfumare di affermazioni ambigue asserti apparentemente in linea col magistero in vista di un rinnovo delle dottrina cattolica ormai appare oggi scoperto, denudato a mostrare le vere finalità cui tende. Finalmente i capisaldi intellettuali fondati da padre Arrupe tratteggiano ora i contorni evidenti di un’ambiguità che la caotizzazione discorsiva non è più in grado di mascherare.
E questa volta senza davvero alcuna necessità di ricorrere alla competenza del magistero chiunque disposto a valutare obiettivamente può osservare gli effetti sfociati dall’esistenzialismo filosofico applicato alla visione cristiana del mondo:
l’inculturazione destinata prima al pluralismo poi al disordine liturgico; il dialogo con la cultura moderna destinato alla secolarizzazione del pensiero; l’impegno politico destinato alla desacralizzazione e spesso anche alla derisione del sacro; il servizio all’uomo destinato alla mera erogazione di servizi sociali come farebbe una ONG qualsiasi; il rinnovo della vita religiosa destinata alla resa ai costumi laicisti.
Istanze tutte che a loro volta convergono verso un unico e immane risultato finale: liquidazione della civiltà occidentale plasmata dal cristianesimo. 
http://www.campariedemaistre.com/2017/07/pedro-arrupe-alle-fonti-del-pensiero-di.html

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