ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 11 agosto 2017

A.A.A (ambiguo,atematico e apatico)

L'EQUIVOCO POST-CONCILIARE DEL «DIALOGO»: LECTIO MAGISTRALIS DEL CARDINALE BIFFI IN TRE MINUTI

Intervento a braccio del cardinale Giacomo Biffi a Bassano del Grappa (Vi), l'8 ottobre 1993, in occasione del conferimento del Premio Cultura Cattolica.
Quando il «colloquium» diventa un vocabolo a-patico

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Il dialogo si è arenato in uno sterile ed evidente convergere su convinzioni comuni e i collocutori sono sempre stati, in epoca postconciliare, più concentrati alla custodia della simpatia reciproca che alla ricerca del vero. Tutto cominciò con l’enciclica “Ecclesiam Suam” (1964) di Paolo VI. Poi ci si mise di mezzo il postconcilio e nonostante i vari tentativi di precisazione, come quello di De Lubac o di Ratzinger, il termine “dialogo” continua ad essere ambiguo, inteso come atematico e apatico.

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Con questo intervento Silvio Brachetta continua l’approfondimento del tema del dialogo già iniziato su queste pagina da lui stesso (leggi) e sviluppato da Stefano Fontana (leggi)
È noto che la «svolta dialogica» in teologia ha una data precisa e un autore: Paolo VI promulga, il 6 agosto 1964, l’enciclica Ecclesiam Suam. Il sostantivo «colloquium», nella stesura ufficiale in latino, vi compare settantatre volte ed è tradotto in italiano con «dialogo».
L’Ecclesiam Suam è indicata dal teologo Piero Coda, in un suo studio, come «il vero manifesto del dialogo». E il card. Agostino Casaroli ribattezza Paolo VI come «uomo del dialogo», in un’opera postuma. Il Concilio Vaticano II, dunque, recepì le indicazioni di Papa Montini e raccomandò il «colloquium», altresì detto «dialogus» (i termini compaiono come sinonimi).
Forse è un po’ ingenerosa la conclusione di Romano Amerio che, in Iota Unum, interpreta l’enciclica come il tentativo di un’«equazione» del tutto incoerente «tra il dovere che incombe alla Chiesa di evangelizzare il mondo e il suo dovere di dialogare col mondo». In effetti, al n. 70 di Ecclesiam Suam, il Papa pone un unico fine al «dialogo» della Chiesa con il mondo: il dialogo serve «per convertirlo». Forse Paolo VI ha voluto riassumere nella parola «colloquium» tutti i generi letterari dell’apostolato e dell’evangelizzazione? Forse, cioè, nel «colloquium» è sintetizzato il dibattito, l’esortazione, l’insegnamento, la predicazione, l’omiletica, il rimprovero e quant’altro? O forse, invece, egli volle inserire l’indicazione di Giovanni XXIII, nel senso di proporre un nuovo e unico linguaggio all’uomo moderno, maggiormente rispettoso, ma lontano dal pathos e dal rigore?
Joseph Ratzinger contro l’«ideologia del dialogo»
È altrettanto noto come le indicazioni del Papa e del Concilio si realizzarono nella storia: il dialogo fu ritenuto dai più un colloquio, laddove l’etimologia di «colloquium» è «cum loqui» (parlare con), che rimanda alla semplice conversazione. Non che i fatti siano stati corrispondenti alle intenzioni di Paolo VI, che in Ecclesiam Suam rigetta il relativismo religioso e parla estesamente di un «annuncio da diffondere», di un «dovere dell’evangelizzazione», di un «mandato missionario» e di un «ufficio apostolico» per «istruire tutte le genti». E tuttavia il dialogo si è arenato in uno sterile ed evidente convergere su convinzioni comuni e i collocutori sono sempre stati, in epoca postconciliare, più concentrati alla custodia della simpatia reciproca che alla ricerca del vero.
Va pure apprezzato l’intervento del card. Joseph Ratzinger che, nella nota di presentazione della Dominus Iesus (2000), denuncia una definizione di “dialogo” «radicalmente diverso da quello inteso nel Concilio Vaticano II» (e da Paolo VI). Ratzinger, infatti, descrive una «ideologia del dialogo», che «si sostituisce alla missione e all’urgenza dell’appello alla conversione». Il dialogo, cioè, «nelle nuove concezioni ideologiche, penetrate purtroppo anche all’interno del mondo cattolico e di certi ambienti teologici e culturali, è invece l’essenza del “dogma” relativista e l’opposto della “conversione” e della “missione”».
Al di là dei pronunciamenti magisteriali, si è invece introdotto il tipo di dialogo descritto da Stefano Fontana: atematico (sulle suggestioni rahneriane), fine a se stesso, di matrice protestante, relativista. Il relativismo ha ingoiato gran parte del tessuto della Chiesa, per cui dialogo significa oggi per molti «porre sullo stesso piano la propria posizione o la propria fede e le convinzioni degli altri». In tal modo «tutto si riduce ad uno scambio tra posizioni fondamentalmente paritetiche e perciò tra loro relative, con lo scopo superiore di raggiungere il massimo di collaborazione e di integrazione tra le diverse concezioni religiose» (sempre dalla nota di Ratzinger).
Che fine ha fatto il pathos?
Uno dei più convinti sostenitori della necessità della «svolta dialogica» potrebbe essere Henri de Lubac (1896-1991), pur mantenendosi su posizioni ortodosse. Se il Concilio – scrive in Athéisme et sens de l’homme (1968) – «ha evitato l’asprezza di un’arroccata e sorda condanna per l’umanità atea, sforzandosi di porsi in atteggiamento di ascolto […], ciò non significa che la fede debba essere messa tra parentesi o, peggio ancora, in discussione in ciò che vi è in essa di essenziale». A qualcuno potrebbe venire il dubbio – come in effetti è venuto a molti – sull’opportunità di togliere asprezza alla dialettica umana, visto il pericolo di ridurre la tradizione scritta e orale in verbosità senza pathos alcuno.
Almeno comunque, secondo de Lubac, il dialogo o il colloquio con il prossimo dev’essere condotto «in modo da svegliarlo e da convincerlo». Rimane un enigma, in ogni caso, come si possa svegliare o convincere qualcuno, se la parola non contiene passione, estasi, emozione, angoscia, fascino, delirio, sublimità, impeto: tutto quello, cioè, che fa parte dell’umano sentimento e della forma di millenni di letteratura sacra o profana. È proprio tutta colpa dei fedeli laici o chierici non aver compreso come tutto possa venire espresso dal vocabolo «colloquium», forse opportuno e riassuntivo, ma estremamente generico e a-patico (senza pathos)? Perché mai il 6 agosto 1964 compare di colpo nei pronunciamenti del magistero un vocabolo pressoché inesistente nei documenti petrini e conciliari anteriori? Quale necessità aveva la Chiesa di fare esondare il dialogo, come se nei secoli precedenti avesse regnato il mutismo?
È consolante, di certo, sentire Henri de Lubac che afferma: «L’invito al dialogo non è un invito ad abdicare alla nostra razionalità e l’era del dialogo non è l’era della rinuncia alla ragione». Fa bene udire il teologo che dice: «Per quanto complesse siano le sue manifestazioni, la Verità è una». E non solo una, ma «santa» e perciò «merita che la si cerchi seriamente, che le siamo fedeli cercandola ancora, e che all’occasione la sappiamo professare apertamente e che ci sforziamo, se occorre, di giustificarla» (in Athéisme, cit.).
È però meno consolante sentire il teologo Inos Biffi quando dice che l’ideologia del dialogo «ha contagiato un po’ tutti: persino i maestri della fede, presso i quali le parole ‘dialogo’ e ‘aggiornamento’ ricorrono con monotonia affliggente» (in Verità cristiane nella nebbia della fede).
di Silvio Brachetta.


Lorenza Perfori11 agosto 2017

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