Marcel Lefebvre nacque nel 1905, terzo di otto figli, in una famiglia tradizionalmente e profondamente cattolica, venne ordinato sacerdote nel 1929 e consacrato vescovo nel 1947.
La sua formazione cattolica, basata sulla profonda religiosità familiare, fu totalmente fondata sulla centralità di Roma e del Papa: entrambi fattori portanti della vera cattolicità. Impensabile, per Mons. Lefebvre, essere cattolici prescindendo dal Papa e dalla Città Eterna; secondo la volontà di Dio: il primo Vicario di Cristo, la seconda centro della Cristianità e della cattolicità.
Quando, in occasione del concilio Vaticano II, Mons. Lefebvre si rese conto che la cattolicità correva il rischio di subire una deviazione modernista e protestante, si adoperò per cercare di correggere le tendenze devianti, insieme ad altri Padri conciliari, senza tuttavia riuscire ad ottenere i risultati sperati. La chiusura del Concilio e le riforme che ne seguirono lo indussero ad assumere delle iniziative per la salvaguardia della dottrina e della liturgia cattoliche.
Con l’approvazione preventiva del vescovo del luogo, ratificata dalle autorità romane, fondò in Svizzera un seminario che fosse in grado di mantenere vivo il vero sacerdozio cattolico e perpetuare l’insegnamento della Chiesa di sempre.
Il contrasto tra la volontà innovatrice delle autorità romane e il suo convincimento tradizionale, non tardarono a porre Mons. Lefebvre in una situazione di estremo disagio. Richiesto di porre fine alla formazione e all’ordinazione di sacerdoti cattolici non in linea con le innovazioni, egli si vide costretto a disobbedire a quella Roma e a quel Papa che per lui costituivano un imprescindibile riferimento di principio.
Inevitabilmente si giunse alla revoca dell’approvazione del seminario, che secondo le intenzioni di Roma doveva coincidere con la fine delle iniziative del prelato non allineato. Ma Mons. Lefebvre operò una nuova rottura con l’autorità innovatrice romana: non solo considerò nulla la revoca sopraggiunta, ma incrementò ulteriormente la sua iniziativa, ampliando per quanto poteva, con l’aiuto di vaste schiere di fedeli laici, la congregazione religiosa che aveva fondata intitolandola a quel Papa marcatamente antimodernista che fu San Pio X.
Non desistette dalla disubbidienza a Roma neanche di fronte alle sanzioni canoniche – la sospensione a divinis – che colpirono lui, i suoi sacerdoti e i suoi seminaristi; e continuò ad amministrare i sacramenti, compreso l’Ordine.
La divergenza tra i tradizionali insegnamenti della Chiesa cattolica e l’azione innovatrice delle autorità romane, divenne sempre più accentuata, e di conseguenza la disubbidienza di Mons. Lefebvre divenne sempre più motivata e giustificata. Una disubbidienza che contrastava fortemente con l’attaccamento del vescovo cattolico a Roma e al Papa. Tale contrasto, doloroso per Mons. Lefebvre, lo indusse a non tralasciare alcun tentativo per risanare i rapporti con l’autorità romana.
Come per avviare il suo seminario e la sua congregazione si era premurato di ottenere l’approvazione dell’Ordinario del luogo, così per continuare la sua opera di salvaguardia della Tradizione cattolica, Mons. Lefebvre si adoperò per ottenere l’approvazione del Papa.
I tentativi furono continui e diversificati, fino a quando non si giunse ad un documento che ratificava l’esistenza e la continuazione del seminario e della congregazione. Ma ancora una volta Mons. Lefebvre si vide costretto ad operare una nuova rottura con l’autorità romana.
Nonostante il documento, del maggio 1988, prevedesse la consacrazione di almeno un nuovo vescovo scelto da Mons. Lefebvre tra i sacerdoti della Fraternità San Pio X (consacrazione da effettuarsi abitualmente nella festa dei Santi Pietro e Paolo, il 29 giugno), l’autorità romana tergiversò sulla modalità (adesso Mons. Lefebvre avrebbe dovuto presentare una terna di nomi da sottoporre alla verifica di idoneità e lasciare al Papa la designazione del candidato) e sulla scelta del momento (postergato nei mesi a venire in maniera imprecisa e impropria).
Da notare che la presentazione della terna e la verifica dell’idoneità, comportava la possibilità che il Papa potesse scegliere eventualmente un nome diverso dai tre proposti, un nome che corrispondesse alle impostazioni vaticane invece che a quelle della Fraternità, il che, di fatto, si configurava come una pratica vanificazione della teorica autonomia concessa alla Fraternità stessa. Del pari, l’abbandono della data vincolante del 29 giugno, apriva la possibilità di rimandare sine die la data della consacrazione, fino a profilare l’eventualità di una consacrazione non più effettuata da Mons. Lefebvre, per il sopraggiungere della sua indisponibilità fisica e perfino della sua morte.
Tali nuove difficoltà, accompagnate da informazioni confidenziali provenienti dallo stesso Vaticano, fecero capire a Mons. Lefebvre che l’autorità romana si muoveva non per facilitare la soluzione della questione, ma per imporre vincoli e limiti che in definitiva avrebbero portato al danneggiamento della Fraternità, spogliandola di quella autonomia di cui avrebbe dovuto godere sulla base delle assicurazioni verbali da lui ricevute. Così, non vedendo assicurata la reale continuazione della sua opera, Mons. Lefebvre revocò la firma che aveva già apposta al documento e ne denunciò il contenuto.
Tuttavia, la continuazione della sua opera, ormai diffusasi nel mondo intero, necessitava di nuovi vescovi, i soli in grado di assicurare la continuazione del sacerdozio e dell’insegnamento cattolici. Tale necessità era sentita particolarmente urgente dal presule anche per l’avanzare della sua età e per il complicarsi del suo stato di salute. Preoccupato di essere chiamato a Dio prima che avesse assicurato alla sua opera i mezzi necessari per continuare ad esistere, Mons. Lefebvre decise di portare la sua disubbidienza fino al punto estremo e risolse di consacrare dei vescovi senza il mandato pontificio, atto che lui era cosciente che avrebbe comportato la scomunica ipso facto.
La consacrazione avvenne il 30 giugno 1988 e la scomunica per i due vescovi consacratori e i quattro vescovi consacrati giunse due giorni dopo.
Mons. Lefebvre morì nel 1991.
Questa complessa vicenda, qui richiamata per sommi capi, è tutta centrata sulla contraddizione che abbiamo segnalato all’inizio: Mons. Lefebvre era un vescovo cattolico che viveva la sua cattolicità, come di dovere, sul fondamento della Chiesa romana con a capo il Vicario di Cristo, così come voluti da Nostro Signore. Essere cattolico ed essere sottomesso a Roma e al Papa, per lui costituivano un tutt’uno.
Com’è possibile che un tale cattolico, per ben 16 anni (1975 – prima condanna – 1991 – morte) agì in nome proprio e di migliaia di fedeli, chierici e laici, in aperta contrapposizione con Roma e col Papa?
Ancora oggi si dibatte la questione da punti di vista diversi, e sono innumerevoli i distinguo e le precisazioni, tra cui prevalgono: a) Mons. Lefebvre intese ubbidire alla Chiesa di sempre, perseguendo il bene della Chiesa anche contro la deviata volontà delle coeve autorità romane; b) Mons. Lefebvre diede priorità al suo convincimento circa la necessità di salvaguardare a suo modo il sacerdozio e la dottrina cattolica, rispetto al dovere di ubbidienza a Roma e al Papa.
In entrambe queste posizioni è presente un fattore contraddittorio: il bene della Chiesa in contrasto con l’autorità della Chiesa.
Ora, tenuto conto, teoricamente, dei tradizionali criteri di cattolicità, questa contraddizione appare insanabile, con la conseguenza che Mons. Lefebvre avrebbe portato avanti un comportamento scismatico. Tenendo presente, però, il dato indiscutibile della profonda cattolicità del presule, mai da alcuno contestata, si è costretti a considerare che, praticamente, l’elemento contraddittorio scaturisce non dalla volontà di Mons. Lefebvre, ma dall’impostazione e della condotta nell’autorità romana.
Se Mons. Lefebvre perseguiva il bene della Chiesa, l’autorità romana non avrebbe dovuto contrastarlo, tranne che l’idea di bene della Chiesa non fosse diversa per l’uno o per l’altra.
Per Mons. Lefebvre, il bene della Chiesa consisteva nel guardare alla Chiesa stessa con lo sguardo volto alla sua origine: Nostro Signore Gesù Cristo; per l’autorità romana, a partire dal Vaticano II, il bene della Chiesa consisteva nel guardare alla Chiesa stessa con lo sguardo rivolto in senso inverso.
Ora, non v’è dubbio che, si guardi alle origini o al momento ultimo della vita della Chiesa, il riferimento è sempre e solo Nostro Signore. Ma, mentre lo sguardo rivolto all’origine comporta il permanere della continua presenza di Nostro Signore, lo sguardo rivolto al momento ultimo della vita della Chiesa può perdersi nell’orizzonte indeterminato di un futuro sempre difficile da definire, dove la presenza “originaria” di Nostro Signore può assumere connotazioni sempre più sfocate.
Vero è che Nostro Signore ha promesso che sarebbe stato presente fino alla fine del tempo, ma è ancora più vero che, umanamente, questo è possibile viverlo se il fedele non perde mai di vista l’insegnamento e la volontà originarie di Cristo. Uno sguardo volto al momento ultimo della vita della Chiesa, che consideri genericamente scontate e appartenenti al passato l’insegnamento e la volontà originarie di Cristo, finisce col rimanere prigioniero dell’intermezzo terreno e umano che intercorre tra il presente e tale momento ultimo.
Senza il sostegno trascendente della reale presenza di Cristo, che si realizza attraverso la fedeltà ai Suoi insegnamenti, dati all’origine e una volta per tutte, il fedele scivola nella sua umanità e guarda al futuro della Chiesa solo attraverso tale umanità.
E’ quello che è accaduto col Vaticano II, è quello che Mons. Lefebvre poteva cattolicamente solo respingere, è quello che ha determinato la diversità di visione del bene della Chiesa: per il cattolico fedele tale bene sta nel passato della Chiesa, che si proietta per sua natura, vivo e presente, fino alla Parusia: è la Tradizione; per il cattolico che crede di essere ancora fedele, pur guardando al bene della Chiesa attraverso il mondo e l’uomo, tale bene sta nel futuro indefinito, dove la percezione sempre più sfocata della presenza “originaria” di Cristo lo porta a perdere ogni elemento di certezza e ogni vero fondamento: è la tradizione svuotata della Tradizione… è la cosiddetta tradizione vivente, progrediente, intesa cioè in evoluzione e mutante; ben diversa dalla Tradizione viva e presente, la quale per ciò stesso non può essere e non è soggetta né ad evoluzione progressiva né a mutazione.
E’ curioso come non si colga l’importanza del punto originario di ogni elemento vivente: senza di esso ogni vita evolve suppostamente per se stessa, avulsa dalla sua origine, fino a vivere di una vita propria senza origine e quindi senza destino: senza verità.
Ciò posto, Mons. Lefebvre intese rimanere fedele al vero bene della Chiesa, come lo abbiamo sinteticamente abbozzato prima e come era stato sempre inteso nei due millenni precedenti, e perciò stesso dovette venir meno al rispetto della sua formazione cattolica che imponeva l’ubbidienza al Papa: date le circostanze, non poteva assolvere il suo dovere di ubbidienza al Papa senza venire meno al suo dovere di perseguire il bene della Chiesa.
La contraddizione è tale solo se si prescinde dal fatto che era il Papa che era venuto meno al suo dovere di assicurare la trasmissione della Tradizione integra e totale; e questa situazione, mai verificatasi nella vita della Chiesa, impediva che si potesse tenere conto dei criteri di cattolicità fino allora vigenti e praticati.
La fedeltà di Mons. Lefebvre a Roma e al Papa, paradossalmente, ma realmente, gli imponeva di disobbedire e di assicurare solo la continuità della sua opera.
Non v’è dubbio che, ad una considerazione superficiale, Mons. Lefebvre corrispose all’esistenza della sua opera più che all’ubbidienza al Papa, innescando una nuova contraddizione, ma, ad una considerazione più approfondita e reale, costretto dalla situazione oggettiva che si era venuta a creare col Vaticano II, egli venne indotto ad identificare la sua opera con la Tradizione, e dovendo salvaguardare la Tradizione non ebbe altra scelta che assicurare la vita e la continuità della sua opera.
Se si trasferisce tutto questo ai giorni nostri, e si considera l’accentuazione odierna della deviazione dell’autorità romana e del Papa in senso antitradizionale o, se si vuole, nel senso della nuova concezione della cosiddetta “tradizione vivente”, o della tradizione svuotata dalla Tradizione, salta all’occhio che la sopravvivenza dell’opera di Mons. Lefebvre, da assicurarsi nonostante le intenzioni di Roma e del Papa, è oggi più impellente di quando lo fosse al tempo di Mons. Lefebvre.
Anzi, più che al tempo di Mons. Lefebvre, se si intende proseguire realmente la sua opera, e salvaguardare la Tradizione, l’odierna situazione oggettiva di Roma e del Papa costringe a dare la priorità al bene della Chiesa nonostante la Roma e il Papa attuali, poiché diversamente si avallerebbe la deviazione: si abbandonerebbe la Tradizione viva a favore della moderna “tradizione vivente”, la tradizione svuotata della Tradizione, e si finirebbe col non perseguire più il bene della Chiesa.
In qualunque modo si volessero oggi tenere fermi i criteri di cattolicità della sottomissione a Roma e al Papa, non solo si contraddirebbe la ponderata determinazione di Mons. Lefebvre a non curarsi più di essi per forza maggiore, ma si innescherebbe un processo di svuotamento della sua opera: facendo venire meno la perpetuazione del sacerdozio cattolico e il mantenimento della dottrina cattolica.
Fino a quando Roma e il Papa guarderanno al bene della Chiesa prescindendo dalla Tradizione, e fino a quando l’inversione di questa tendenza non sarà talmente manifesta da saltare all’occhio, soprattutto per la più o meno completa cassazione di quanto fissato da dopo il Vaticano II, i fedeli cattolici devono sentirsi vincolati a seguire l’esempio di Mons. Lefebvre, mantenendosi teoricamente fedeli all’autorità e tuttavia prescindendo praticamente da essa, fino alle estreme conseguenze, quando tale autorità traligna.Mons. Lefebvre preferì morire scomunicato piuttosto che essere connivente con l’autorità romana che aveva abbandonato la Tradizione.
D’altronde, come diceva lo stesso Mons. Lefebvre, una scomunica comminata in circostanze tanto eccezionali, presenti allora, e persistenti più tragicamente fino ad oggi, non solo non comporta per sua natura una qualche reale esclusione dalla Chiesa di Cristo, ma è praticamente svuotata di ogni valenza reale, canonica e morale, in quanto emanata da un’autorità che ha voluto coscientemente privarsi di ogni legittimazione tradizionale e quindi di ogni reale valenza cattolica.
Oggi più di ieri, chi intende richiamarsi all’opera di Mons. Lefebvre, perfino considerandosi suo continuatore, non ha altra scelta che accettare, se è il caso, di subire la scomunica romana, ormai illegittima e inefficace, piuttosto che scendere al compromesso sulla Tradizione. Il contrario è umanamente comprensibile, ma è cattolicamente inammissibile, perché sarebbe come ammettere la menzogna del Vaticano II che la Tradizione non è essenzialmente quella di Nostro Signore Gesù Cristo, trasmessaci dagli Apostoli, ma quella predicata e praticata in maniera evolutiva e mutante dai papi moderni, liberali e modernisti, cioè dai papi che non servono più Cristo, ma il mondo.
Per ultimo, e affinché il lettore non si lasci tentare dal fin troppo corrente giuoco sottile del richiamo alle complessità teologiche implicate nella vicenda, sottovalutando il valore dei “fatti”, precisiamo che questa nostra riflessione, nel suo essere schematica, ha voluto prescindere a ragion veduta da ogni implicazione teologica, poiché, se è vero che la disquisizione teologica aiuta a spiegare la concatenazione dei “fatti”, è ancora più vero che il punto di partenza è comunque costituito da quegli stessi “fatti” dei quali si è sempre detto che “contra factum non valet argumentum”.
D’altronde, sia agli occhi del teologo, sia agli occhi del semplice fedele, la vicenda che abbiamo richiamato, unita a quanto è accaduto e continua ad accadere nella vita di questi ultimi cinquant’anni della Chiesa cattolica, ciò che conta realmente per la pratica quotidiana della Fede sono proprio i “fatti” nella loro nudità e crudità, soprattutto per ciò che essi comportano in termini di “magistero” pratico ed esemplare. Sia il teologo, infatti, sia il semplice fedele, in ultima analisi non possono che tenere sempre presente l’insegnamento di Nostro Signore: «Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete (Mt. 7, 15-16)»; sul quale si regoleranno attenendosi al semplice, esauriente ed edificante comando di Nostro Signore: “il vostro parlare sia sì, sì, no, no, il di più viene dal maligno” (Mt. 5, 37).
di Giovanni Servodio
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