AUTORITA' E OBBEDIENZA
È giusto obbedire, ma alla vera autorità. Oggi parliamo dell’autorità e del suo naturale corollario, l’obbedienza. Mettiamo subito le carte in tavola punto primo: l’autorità è necessaria, punto secondo: l’obbedienza è una virtù di Francesco Lamendola
Oggi vogliamo parlare dell’autorità e del suo naturale corollario, l’obbedienza. E mettiamo subito le carte in tavola.
Punto primo: l’autorità è necessaria.
Punto secondo: l’obbedienza è una virtù.
Chi non è d’accordo, è un nemico della società ordinata e del vivere civile; che lo sappia o no, che lo voglia o no, è un irresponsabile e, forse un malvagio, o forse, semplicemente, uno sciocco; e, se per caso detiene una qualche sia pur minima forma di potere – anche un padre o una madre dispongono di un ceto potere sui figli, specie quando sono piccoli – è un seminatore di distruzione, una mina vagante che può esplodere e provocare gravi danni in qualsiasi momento, anche a scoppio ritardato, magari a distanza di anni.
Alla sfrenata demagogia democraticista, buonista e permissivista, questo discorso non piace, non può piacere e non piacerà mai; nondimeno, qualcuno lo deve fare, per quanto ingrato e impopolare ciò posa risultare: una società non si regge senza il principio di autorità e senza la sua naturale conseguenza, la virtù dell’obbedienza. Perché l’obbedienza, checché ne dicano e ne abbiano detto tanti cattivi e pessimi maestri, compreso don Lorenzo Milani, oggi ingiustamente rivalutato dal papa Francesco (ma non illogicamente, considerati i suoi obiettivi), era e rimane una virtù, anzi, una di quelle virtù fondamentali, senza le quali non funzionano né le famiglie, né le comunità, né le aziende, né i tribunali, né gli eserciti, né le scuole, né gli stati, né le chiese, né i sistemi di trasporto, né niente di niente. Se non ci fosse l’obbedienza, ogni forma di vita sociale andrebbe in frantumi, ogni relazione umana sarebbe in forse, ogni senso di fiducia nel prossimo svanirebbe, e il mondo tornerebbe ad essere una foresta di belve, un bellum omnium contra omnes, cioè, in una sola parola, l’inferno sulla terra. È certo, tuttavia, che l’obbedienza non è sempre una virtù; non lo è quando viene prestata, in modo cieco e servile, a qualsiasi autorità, anche quando essa ordina delle cose ingiuste e malvagie: ma da qui a demolire il concetto stesso di obbedienza, o la legittimità di qualunque autorità, ce ne corre. Eppure, proprio questo è stato fatto dalla cultura moderna, e, in particolare, dalla cultura progressista degli ultimi cinquant’anni. I genitori, i professori, i giudici, i sacerdoti di oggi hanno ricevuto la loro formazione nel clima anarcoide e demagogico degli anni seguenti il Concilio Vaticano II e la contestazione studentesca del 1968: i due eventi capitali e devastanti, che hanno segnato l’inizio dell’aberrazione modernista. Anche se non tutti, per fortuna, da giovani hanno aderito a quel delirio, tutti ne hanno, però, assorbito i miasmi: in pratica, la pestilenza del nichilismo, del relativismo e dell’edonismo sfrenato ha contaminato tutti, e, se qualcuno ora ne è immune, è perché, dopo essersi ammalato, ha sviluppato gli anticorpi ed è guarito, magari conservando qualche vistosa cicatrice sulla pelle. La cultura protestataria degli anni ’60 si basava su due principi essenziali: l’uno antipedagogico, sintetizzato nel demenziale motto Proibito proibire, e l’altro pseudo rivoluzionario, la bellezza è nella strada (cioè nei sampietrini da scagliare contro la polizia). I sedicenti preti di strada dei nostri giorni sono figli o nipoti, più o meno legittimi, di quella cultura; e certi loro slogan, sul tipo di Chi ha paura delle mele marce?, di don Luigi Ciotti, vengono dal proibito proibire, il quale poi, a sua volta, viene dal mito del buon selvaggio e dalle farneticazioni di Rousseau sull’uomo naturalmente buono, purché si tenga lontano dalla società cattiva e corruttrice. La verità è che la società ha funzionato fin quando gli individui sono stati capaci di obbedire, e ha cominciato a implodere quando hanno disimparato.
L’obbedienza è una qualità importante anche dal punto di vista religioso e rientra nel famoso trinomio Dio, Patria, Famiglia, tanto disprezzato e vituperato dalla contestazione sessantottesca. Scriveva Fosco Vandelli nel testo di religione per i ragazzi della Scuola media Gesù amico (Libreria Editrice Fiorentina, 1963, vol. II, pp. 97-98; 101):
L’amore e il rispetto […] rimarrebbero qualcosa d’inconsistente e di vuoto, se non si esprimessero specialmente attraverso l’obbedienza.
Obbedire vuol dire prima di tutto accettare quanto ci viene comandato, mettendo da parte altri nostri modi di vedere, per seguire quello del superiore che ci comanda.
Perciò l’obbedienza, per essere veramente tale, deve avere CINQUE QUALITÀ: cioè deve essere:
- a) SOPRANNATURALE, intendendo obbedire a Dio;
- b) PRONTA, senza rimandarla a dopo, senza indugiare; bensì attuando subito la volontà del superiore;
- c) COMPLETA ED ESATTA, obbedendo in tutto, non solo parzialmente od in quello soltanto che ci fa piacere, o che ci costa meno sacrificio;
- d) COSTANTE, non contentarci di obbedire e poi stancarci e smettere, ma portando a termine, con impegno quanto ci viene comandato;
- e) GIOIOSA, senza assumere l’aspetto di un sacrificato, senza brontolare, senza fare il cosiddetto muro o broncio, senza far pesare il sacrificio che l’obbedienza richiede; ma eseguendo il comando proprio di cuore, con aspetto sereno, con vero impegno. […]
Applica ora i principi generali, che abbiamo esaminato, alla dolce società della famiglia: è l’amore che l’ha formata, è l’amore che la mantiene e la fa funzionare, è l’amore il primo e fondamentale dovere di tutti i suoi componenti. Amore non fatto solo di parole o di espressioni esterne (anche queste ci vogliono, e farebbero male quei figli che non manifestassero mai il loro amore ai genitori), ma anche e soprattutto di opere. […]
Tale amore deve manifestarsi pure nel RISPETTO verso di loro, sapendo sopportare con amorevole pazienza anche i loro eventuali difetti.
L’amore ed il rispetto, se sono veri, sono certamente accompagnati dall’OBBEDIENZA, con quelle cinque qualità di cui abbiamo parlato. Essa allora diventa la prova più sicura dell’attaccamento, della riconoscenza e dell’affetto dei figli versoi genitori.
Particolare dovere dei figli è il prestare l’opera loro; per collaborare, prima, docilmente coi genitori alla propria educazione e formazione; poi al benessere di tutta la famiglia, se necessario anche con qualche sacrifico: per es. aiutarli nel lavoro, nel disimpegno delle faccende domestiche, contribuire col proprio guadagno, sottoporsi a qualche necessaria privazione ecc.
Tale dovere, che prende il nome di ASSISTENZA, è l’espressione dell’amore effettivo che i figli portano loro e non ha perciò limiti di tempo; vale quindi anche quando il figlio ha formato una famiglia per conto suo. […]
Quel che abbiamo detto della più piccola espressione della società, la famiglia, vale anche – in misura adatta e conveniente alle loro funzioni - per le altre due più grandi famiglie: la patria e la Chiesa. è un dover quindi l’amore, il rispetto,l’obbedienza, l’assistenza (cioè il prestare l’opera propria, collaborando cin esse) dei cittadini verso le autorità civili e dei fedeli verso le autorità ecclesiastiche.
Se i genitori, gli insegnanti e i sacerdoti si fondassero, anche oggi, su questi principi educativi, siamo certi che le cose, nella nostra società, andrebbero un po’ meglio; e i giovani, non che sentirsi frustrati e schiacciati dal ritorno al principio di autorità e alla pratica dell’obbedienza, riceverebbero le basi formative per sviluppare la loro personalità in maniera sana ed armonica: perché un bambino viziato, che non ha mai rispettato nessuno e non ha mai prestato obbedienza, nemmeno ai genitori, è un futuro disadattato, un futuro infelice e, forse, anche una futura minaccia per la sicurezza e l’incolumità altrui. In fondo, si tratta di principi educativi estremamente semplici, di puro buon senso; ed è significativo il fatto che oggi, abituati a ben altri libri di testo e a ben altri sistemi pedagogici, abbiamo smarrito la capacità di apprezzare una tale semplicità, una tale chiarezza e una tale capacità di scendere alla concretezza delle cose.
Due cose, in particolare, ci paiono emergere da questa pagina di prosa: la prima, che esiste, e deve esistere, il concetto di superiore ed inferiore, cioè deve esistere una gerarchia; e nessuna chiacchiera libertaria o pseudo egualitaria potrà mai cancellare questo fatto, tanto naturale quanto necessario. Se non ci fosse una gerarchia, i bambini comanderebbero agli adulti, anche e soprattutto nei loro capricci: il che, effettivamente, è proprio quello che si sta verificando all’interno di moltissime famiglie, e, di riflesso, anche nei confronti della scuola e della Chiesa. Chi non sa che certi bambini comandano implacabilmente i loro genitori, e che questi sono ridotti al rango di vili servitori, i quali, a loro volta, vanno a protestare dalla maestra o dalla catechista ogni qualvolta il loro viziato pargoletto si lamenta di aver subito qualche torto, vero o immaginario? La seconda cosa degna di nota è che l’obbedienza, nella quale si manifestano l’amore, il rispetto, la sollecitudine di chi obbedisce verso colui che comanda, consiste in un sacrificio della volontà propria a favore della volontà altrui. È, pertanto, un atto energico, che esige uno sforzo della volontà su se stessa, anche nel caso in cui venga compiuto con convinzione, prontezza e perfino con gioia, perché in ciascun essere umano è forte l’istinto dell’io, e qui si tratta, invece, di sacrificarlo, per dire solamente tu. Dunque, al contrario di ciò che generalmente si pensa, l’obbedienza è la virtù dei forti, non dei deboli; beninteso se si tratta di un’obbedienza perfettamente volontaria, prestata non al primo che passa, solo perché costui sa imporsi, ma ad un’autorità legittima, che si tratti di una persona o di una istituzione, verso la quale si nutrono sentimenti di stima, rispetto e affezione.
Abbiamo detto che l’obbedienza è una virtù importantissima, indispensabile al buon funzionamento della società e anche alla vita della Chiesa; abbiamo però precisato che l’obbedienza va prestata ad un’autorità che sia legittima, la quale ordini cose buone e oneste, anche se, talvolta, possano risultare ingrate o estremamente faticose, anche in senso morale. Sorge però un grave problema quando l’autorità non sia legittima e, soprattutto, quando ordini, o prescriva, o anche solo suggerisca, cose intrinsecamente sbagliate, fuorvianti, cattive. Prendiamo il caso di una nave. Se il comandante viene catturato o eliminato mediante un ammutinamento, e il suo posto viene preso dal capo dei ribelli, evidentemente la sua autorità non è legittima, dunque non vige il dovere dell’obbedienza nei suoi confronti.
È giusto obbedire, ma alla vera autorità
di Francesco Lamendola
Del 13 Settembre 2017
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