Dal 1962 al 1965 una squadra di architetti del paesaggio progettò i piani e i contorni di un nuovo parco della Cristianità. Essi volevano un parco con degli alberi e degli arbusti dalle essenze piuttosto esotiche; e suggerirono degli esemplari di taglia indifferentemente grande o piccola, purché sempre gradevoli al tatto. Immaginarono, naturalmente, un giardino cosparso di prati scintillanti, arricchiti da massicci dalle tinte bizzarre cosparsi di sacche di sabbia dalle forme inedite. In più progettarono uno spazio con tanti ruscelli che partendo dagli stagni illuminassero la notte, abbagliando gli occhi del visitatore.
Paolo VI, secondo i piani predisposti dagli architetti, seminò i primi prati, piantò i primi alberi e scavò i primi bacini. Piantati poi un po’ di arbusti, fece entrare i primi visitatori.
Giovanni Paolo I non ebbe il tempo di proseguire il lavoro del suo predecessore.
Giovanni Paolo II, giovane e aitante, ma fantasioso alla sua maniera, proseguì il lavoro con un vigore incessante. Seguì i percorsi previsti dai piani, ma eresse dei massicci a suo piacimento, moltiplicò i bacini e le passeggiate, piantò alberi ed arbusti ovunque in ogni direzione. Mescolò le specie, introdusse delle voliere per poter ascoltare i canti di piccoli uccelli. Si spese così tanto e così lontano che non ebbe la forza di mantenere compatto tutto l’insieme. Ed esaurì il suo compito.
Benedetto XVI, già avanti negli anni, e che aveva già fatto parte della squadra degli architetti del paesaggio, ebbe difficoltà a muoversi nel groviglio di stagni e massicci predisposti dal giardiniere polacco. Si perse tra le macchie impiantate dal suo predecessore e si limitò a tagliare qualche ramo o a sistemare la forma di qualche arbusto. Penò per diserbare le erbacce cresciute sui sentieri e finì per limitarsi alla manutenzione; tanto che di fronte alla vastità dell’impresa, già affaticato per il lavoro svolto, decise di abbandonare l’incarico.
Francesco, oggi, stanco di seguire e di perfezionare il lavoro elaborato dai suoi predecessori, taglia nel vivo. Certo, egli rende omaggio a questi ultimi, li canonizza anche, cosa più che giusta; ma cercando di muoversi nell’immenso bazar ricevuto in eredità, mette mano all’ascia e taglia tutti i rami, a partire dagli alberi che lo disturbano, e cioè i più meritevoli; procedendo a naso. Egli abbatte, taglia, trancia. Riempie gli stagni di rane, per sentirle cantare al crepuscolo. Si mette a nutrire delle bestie strane, semicarnivore e semivegetariane, tutte derivate da altre bestie strane, mezze maschio e mezze femmine, fatte nascere con degli accoppiamenti impossibili. E si spinge ancora più lontano, oltre il piano iniziale degli architetti del paesaggio, che considera superato. Si sbarazza di tutti i giuochi d’ombra, di tutti i giuochi di luce, di tutto quello che si riteneva potesse fornire prospettiva a questo bizzarro paesaggio… zigzagando come un bambino tra arbusti e cespugli. Giuoca a nascondino nel parco, se la spassa e fa passare i guai ai suoi visitatori. Nessuno riesce a capire cosa verrà dopo. Buio totale. Dopo di lui, forse, il diluvio. E tuttavia, una cosa è certa: ormai niente sarà più come prima e, soprattutto, le cose fatte saranno irreversibili.
Ma, come tutti sappiamo, l’avvenire appartiene a Dio. Non pensiamo allora ai sogni del giardiniere e lasciamo il giardiniere ai suoi sogni.
di Gilles Colroy
Pubblicato sul sito francese Media Presse Info
PADRE GHEDDO: «IL '68 E LA CRISI DELL’IDEALE MISSIONARIO DELL’OCCIDENTE DOPO IL VATICANO II»
Il Concilio Vaticano II, terminato nel 1965, aveva suscitato grandi speranze per la Missione alle Genti. La storia è poi andata in altro modo. I testi conciliari sono ancor oggi ottimi per promuovere lo spirito missionario, ma non sono riusciti a dare quella spinta verso il primo annunzio di Cristo ai tre quarti dell’umanità, come Giovanni XXIII aveva previsto: “Il Concilio sarà per la Chiesa una nuova Pentecoste”.
Il terremoto che ha sconvolto l’OccidenteDopo il 1965, i documenti conciliari si diffondono e discutono, spesso interpretati in modi diversi e non secondo le norme di Paolo VI per l’applicazione del Concilio (Motu proprio “Ecclesiae Sanctae”, 6 agosto 1966). Ad esempio la S. Messa in lingua italiana, autorizzata nel 1965 su un testo sperimentale (“ad experimentum”), aveva generato tante S. Messe l’una diversa dalle altre, secondo la “liturgia creativa” di moda a quel tempo. Fra noi, giovani sacerdoti, correva la voce di chiedere alcuni anni di “esclaustrazione”, per sperimentare nuove forme di vita sacerdotale vicine al modo di vivere del Popolo di Dio. Le diocesi italiane, gli istituti e congregazioni maschili e femminili, sperimentavano una continua uscita di preti, fratelli e suore. La grande maggioranza dei quali non tornavano più.
Il post-Concilio ha poi incrociato il terremoto che ha sconvolto le società dei paesi occidentali, il “Sessantotto”, la contestazione della società e delle autorità. Tutte le autorità, governo, imprenditori, insegnanti, Polizia e Carabinieri, preti, genitori, ecc. Un fenomeno nato negli Stati Uniti e in Italia nel novembre 1967 con l’occupazione dell’Università cattolica di Milano da parte di un gruppo di studenti, che subito infiammava altre università e dilagava in tutto il paese. Nei primi studenti della Cattolica, la contestazione aveva un certo profumo cristiano (pace, amore, giustizia per i poveri) che faceva prevedere qualcosa di buono in senso evangelico. Invece il movimento giovanile era subito dominato dai capipopolo più tonanti e violenti, e orientato non verso la rivoluzione del Vangelo, ma quella di Karl Marx, socialista e comunista, e quella radicale, laicista, “marcusiana” (del filosofo Marcuse) e anti-cristiana.
Per la Chiesa italiana, quello era il momento di scendere in campo proclamando che solo Gesù Cristo porta la vera pace (perdonare le offese), il vero amore (dare la vita per i fratelli), la giustizia per i poveri (cfr. 2 Pt 3, 13-14)! Invece, associazioni e personalità cattoliche si sono intruppate nel “pensiero unico” del Sessantotto. Il dissenso nella Chiesa lo sperimentava Paolo VI già nel 1968, con le contestazioni anche da parte di teologi e personaggi cattolici alla “Humanae Vitae”, mentre nel 1967 il Papa era esaltato per la “Populorum Progressio”! L’enciclica “Humanae Vitae” richiamava il Vangelo e la dottrina cristiana sulla sacralità della vita umana. Ma allora si parlava di “bomba atomica demografica” e l’autorevole “Club di Roma” (formato da una decina di premi Nobel) nel 1970 prevedeva che nell’anno 2000 la terra avrebbe avuto dai nove ai dieci miliardi di esseri umani e quasi tutta la stampa italiana proclamava: “La terra scoppia, fate meno figli!”. La storia è giudice infallibile, perché la storia è Dio e ha dimostrato che Paolo VI aveva ragione! Quarant’anni dopo, il presidente della Repubblica italiana, Carlo Azeglio Ciampi, nel messaggio per la festa della donna dell’8 marzo 2004 ha detto agli italiani: “Il problema numero uno dell’Italia sono le culle vuote”. Ma dopo di lui, il presidente Giorgio Napolitano non ha più denunziato, non si capisce perché, questa auto-distruzione dell’Italia.
Il Sessantotto disastroso per la fede e la vita cristianaDifficile, per chi non c’era in quegli anni di passione, capire il clima culturale e sociale creato dal Sessantotto, che ha dissestato la scuola italiana (sono 50 anni che si va avanti con la continua Riforma della Scuola!), la famiglia naturale (le “culle vuote” e l’infinita schiera di coniugi separati, divorziati, in Tribunale, con bambini sballottati dall’uno all’altra), ecc. Certo, nei piani di Dio il tempo elettrizzante del “Sessantotto” ha avuto anche qualche funzione positiva per la Chiesa: oggi il trionfalismo, il formalismo, il clericalismo non hanno più senso; i vescovi, i parroci e i preti si sono avvicinati alla gente comune; i fedeli non sono più solo esecutori di ordini che vengono dall’alto, sono anch’essi protagonisti, evangelizzatori. Ma nella grande svolta epocale del post-Concilio si può essere d’accordo con Benedetto XVI, che nell’estate 2005, mentre era in vacanza ad Introd (Valle d’Aosta), affermava che nel tempo della «grande crisi scatenata dalla lotta culturale del ’68, realmente sembrava tramontata l’epoca storica del cristianesimo»; il Papa leggeva il Sessantotto come «un conflitto fra visione religiosa e opzione secolarista della vita dell’uomo. Per tale movimento culturale, il tempo della Chiesa e della fede in Cristo era considerato finito». Infatti, andare controcorrente in quei tempi era oltremodo pericoloso, come hanno sperimentato i giovani di CL (Comunione e Liberazione), che avevano una presenza cristiana attiva nelle scuole e università ed erano ospitati nel Centro missionario del Pime a Milano (con due auto della Polizia sulla strada quando c’erano conferenze importanti).
Difficile anche capire come gli assurdi ideali e modelli dal Sessantotto possano aver affascinato associazioni e ambienti cattolici (cfr. Roberto Beretta, Il lungo autunno – Controstoria del Sessantotto cattolico, Rizzoli 1998, pp. 370). In quel tempo, invitato a parlare in un seminario di teologia del Nord Italia, entro nella grande sala dove ci sono i giornali e la Tv, con i muri tappezzati di manifesti di Che Guevara, Mao Tze Tung, Fidel Castro, il “Vietnam libero” (quello governato dai comunisti!). Dico al rettore che non mi sembrano manifesti per futuri sacerdoti. Risponde: “Cosa vuole, sono giovani e bisogna lasciarli esprimere. Poi cambieranno parere…”. Nel novembre 1989, una importante rivista cattolica scriveva: «Si festeggia il crollo del Muro di Berlino, ma adesso chi difenderà i diritti dei poveri?».
In quegli anni si sono affermate le ideologie più nefaste, che generavano le “Brigate rosse” e il terrorismo e allontanavano il popolo italiano da Dio e da Gesù Cristo. Le indagini di sociologia religiosa indicavano una continua diminuzione della pratica religiosa e una perdita progressiva dell’identità cristiana, fino all’estremo di un movimento (l’ho visto nascere in Cile nel 1972), i “Cristiani per il Socialismo”: due termini inconciliabili, secondo i documenti papali, dalla “Rerum Novarun” di Leone XIII (1891) alla “Octogesima adveniens” di Paolo VI (1971, nn. 26, 28, 30). Allora si diceva che la Chiesa non ha bisogno di una “Dottrina sociale cristiana”, non è suo compito dare orientamenti politici ed economici. Per capire e migliorare la società, anche i cristiani debbono ricorrere alla lettura “scientifica” del marxismo e alla prassi del socialismo. Chi ha rimesso in vigore la “Dottrina sociale della Chiesa” è stato Giovanni Paolo II a Puebla (Messico) nel gennaio 1979. Paolo VI (il Papa martire del sec. XX) non usava più quel termine che suscitava rifiuto anche in campo cattolico.
La crisi dell’ideale missionario in OccidenteIn Europa e Nord America, una certa teologia disincarnata dalla realtà proclamava come verità ipotesi del tutto false (o anche vere, ma solo in particolari situazioni), che poi entravano nel sentire comune. Alcuni esempi: La Chiesa è fondata in tutto il mondo, sono le giovani Chiese che debbono annunziare Cristo ai loro non cristiani. Perché mandare missionari in Africa e Asia? Lasciamo che le giovani Chiese si sviluppino in piena libertà, secondo le loro culture e religioni. Allora avremo le Chiese locali adatte per i loro popoli. Manchiamo di sacerdoti in Italia, perché voi missionari andate a portare Cristo in altri continenti, quando lo stiamo perdendo noi italiani? Ogni religione ha i suoi valori e tutte portano a Dio, che senso ha il “proselitismo” missionario verso altri popoli?
La crisi dell’ideale missionario ha diviso profondamente le forze missionarie (istituti missionari, riviste, animazione missionaria, ecc.). Nell’estate 1968 ho partecipato alla Settimana di Studi missionari a Lovanio, sul tema “Liberté des Jeunes Eglises”, organizzata e diretta dall’indimenticabile amico gesuita padre Joseph Masson (“perito” e membro della Commissione per l’Ad Gentes del Vaticano II). Diverse voci di studiosi, teologi, missiologi esprimevano forti dubbi sul mandare missionari europei in altri continenti: lasciamo che le giovani Chiese raggiungano una loro maturità senza influssi e imposizioni esterne. Pensavo: ma solo tre anni fa la totalità dei vescovi delle missioni si sono espressi in modo radicalmente opposto, chiedendo nuovi missionari.
La crisi della “Missione alle Genti” si è manifestata nella chiusura delle tre “Settimane di studi missionari” che si tenevano all’Università cattolica a Milano (esperienza chiusa nel 1969), a Burgos in Spagna (1970) e a Lovanio in Belgio (1975, nata negli anni venti!). Questi incontri religioso-culturali di buon livello culturale avevano manifestato un malessere e forti contrasti nel campo missionario, rimbalzati sulla stampa laica dei singoli paesi, e per questo s’è creduto bene di non continuare, per non approfondire le divisioni. Il dissenso cattolico era influenzato dall’ideologia marxista-leninista-maoista, che trionfava in quegli anni e che ispirava anche la lotta contro la fame nel mondo: il cosiddetto “Terzomondismo”. Oggi l’ideale missionario, come le vocazioni missionarie, sono quasi scomparsi. Il fuoco della passione missionaria, di annunziare Gesù Cristo alle infinite schiere dei popoli non cristiani, non infiamma più i giovani d’oggi, non se ne parla più.
“La Chiesa in uscita” di Francesco è un ottimo slogan, e il Capitolo I° della “Evangelii Gaudium”, “La trasformazione missionaria della Chiesa”, delinea il programma del suo pontificato: tutta la Chiesa, diocesi e parrocchie e ogni altro ente ecclesiale, debbono convertirsi ad una pastorale missionaria: “Voglio una Chiesa tutta missionaria”. “Se la Chiesa intera assume questo dinamismo missionario, deve arrivare a tutti senza eccezione” (n. 48 della E.G.). Ma quando tutti sono missionari, la missione incomincia e spesso finisce a casa nostra. Il caro e provvidenziale papa Francesco non parla più della “Missione alle Genti”, che è diversa dalla “Nuova Evangelizzazione”.
La Redemptoris Missio dedica il Capitolo IV per spiegare che “la Missione alle Genti conserva tutto il suo valore” (n. 33) ed è “ancora agli inizi” (n. 40), le difficoltà interne ed esterne, gli ambiti in cui si svolge. “Le genti che non hanno ancora ricevuto il primo annunzio di Cristo sono la maggioranza dell’umanità” (n 40); “Gli uomini che attendono Cristo sono ancora un numero immenso” (n. 86). Possibile che 27 anni dopo il mondo è così cambiato, che la Chiesa rischia di perdere il fantastico patrimonio storico e attuale della “Missione alle Genti”, i martiri che offrono la loro vita per testimoniare Gesù Cristo, i prodigiosi e miracolosi interventi della Spirito Santo là dove ancor oggi nasce la Chiesa, gli eroismi dei pionieri e dei fondatori di Chiese, la poesia di andare fino agli estremi confini della terra e nelle isole più lontane per portare Gesù Cristo alle genti più povere e abbandonate?
Si dirà che esagero. Ma quando non si parla più di un problema, di una realtà esistente, quel problema e quella realtà interessano sempre meno, problemi e realtà più vicini e più urgenti prendono il loro posto. Questo il destino della “Missione alle Genti”. Gli Istituti missionari, le Pontificie opere missionarie e i Centri diocesani missionari reagiscono con “Il Festival della Missione – Mission is possible – Brescia, 12-15 ottobre 2017”. Spettacoli, concerti, conferenze, incontri con i missionari, mostre fotografiche, momenti di preghiera e molto altro. Per la prima volta il mondo missionario italiano unisce le forze per raccontarsi a tutti con i linguaggi nuovi e testimoniare nelle piazze la gioia del Vangelo. Perché la Missione alle Genti è possibile.
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