LA "NEO" CHIESA DELLE PERIFERIE
La totale inconsistenza teologica della neochiesa del gesuita Bergoglio: ma che cos’è questa "Chiesa delle periferie"? forse esiste una "Chiesa del centro"? Come nel caso dei "Preti di strada" la neolingua tradisce la neochiesa
di Francesco Lamendola
Francesco, il papa delle periferie: è lo slogan più amato, o uno dei più amati, dai fan di questo papa. È già abbastanza triste che un papa abbia dei fan, come una qualsiasi popstar; che i cattolici abbiano voglia di essere fan del papa, piuttosto che cercar di essere dei veri seguaci di Gesù Cristo; che la figura del papa venga oltremodo spettacolarizzata, mentre della dimensione trascendente delle fede non si parla quasi più. Ma non basta: bisognava anche inventarsi la retorica sulla Chiesa delle periferie. Siamo sulla stessa lunghezza d’onda dei preti di strada: la neolingua tradisce la neochiesa.
L’espressione preti di strada non è solamente brutta, è quasi blasfema.
Le uniche persone “di strada” conosciute dalla nostra lingua sono le donne di strada, cioè le prostitute. Ora, i preti e anche i vescovi che amano essere appellati “di strada” sottintendono questo accostamento: si gloriano di essere mentalmente associati alle prostitute. Oh, ma per “andare verso di loro”, si capisce: mica per fare il loro mestiere. E sia. Ma “andare verso di loro”, per fare cosa? Certo: anche Gesù s’intratteneva con i peccatori, i pubblicani e le prostitute: verissimo. Non risulta, dal Vangelo, che “andare verso di loro” fosse il cuore della sua azione; tuttavia, ammettiamolo: è chiaro che lo faceva al solo ed unico scopo di convertirle. Basta leggere l’episodio della donna adultera, che gli scribi volevano far lapidare: Gesù riesce a sottrarla alle loro grinfie con la celebre frase: Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra; ma poi, alla donna miracolosamente salvata, non dice: Vai, e continua a tradire tuo marito; bensì le dice: Vai, e d’ora in poi non peccare più. Non è altrettanto chiaro se i preti di strada vadano verso le periferie con la medesima intenzione. E non è chiaro se la Chiesa delle periferie sottintende questo concetto: la conversione. Le periferie, nel vocabolario di papa Bergoglio, sono i luoghi lontani, emarginati, dimenticati, in cui vive la gente più abbandonata e derelitta. È già brutto che si parli di una Chiesa delle periferie come per contrapporla a una Chiesa del centro: il concetto sotteso a questa implicita contrapposizione è un concetto marxista, la lotta di classe, e, almeno idealmente, la guerra civile: quella dei poveri contro i ricchi. Non ci si spaventi per le parole e badiamo al sodo: l’incitamento affinché la Chiesa sia la Chiesa dei poveri è l’equivalente ideologico dell’incitamento del proletariato alla guerra civile contro la borghesia. Ma la Chiesa è la Chiesa, punto e basta. Non c’è una Chiesa del centro e una Chiesa delle periferie: c’è la Chiesa fondata da Nostro Signore Gesù Cristo, una, santa, cattolica e apostolica; e nient’altro. Sottolineare la parte contro il tutto non è cattolico, non è in linea con il Magistero due volte millenario della Chiesa stessa. Mai il Magistero ha parlato in questi termini; mai i dottori della Chiesa hanno adoperato questo linguaggio; e non l’hanno mai usato neppure gli Apostoli. Si rileggano le lettere di san Paolo: non si troverà nessuna espressione equivalente a quella di “Chiesa delle periferie”. Eppure, papa Francesco l’adopera spesso e volentieri; i suoi fan, ancora di più, sottolineando che lui ne è la vera espressione, che lui è il Papa che viene dalle periferie. Benissimo, Ma che significa? Cerchiamo di capirlo dalle parole stesse di questi cattolici “di strada”.
Per esempio Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, scriveva su Famiglia Cristiana del 15/12/2016:
Il tema delle periferie è stato centrale nel Conclave del 2013, da cui è stato eletto papa Francesco. Ne sono stato felice, perché – da anni – credo che il cristianesimo debba misurarsi in modo rinnovato con la città e con l’”homo urbanus”: quindi con il mondo periferico che cresce ai margini della città che conta. Questa la grande domanda che il Novecento lascia alla Chiesa del secolo XXI.
Nel 1943, due preti parigini, Henri Godin e Yves Daniel, portarono un testo provocatorio, ”La France, pays de mission?”, all’arcivescovo di Parigi, il cardinale Suhard. Questo così annotò: “L’insieme delle nostre popolazioni non pensa più in modo cristiano. C’è fra esse e le comunità cristiane un abisso. Bisogna uscire da casa nostra, andare in mezzo a loro”. A leggere queste righe, si resta colpiti dalle analogie con Begoglio: “uscire” è la parola chiave nell’”Evangelii gaudium”. Il mondo delle periferie chiama la Chiesa a uscire.
Questo è veramente un concentrato della neolingua catto-progressista, della retorica demagogica, della totale inconsistenza teologica della neochiesa di Bergoglio; neochiesa che nasce, però, molto prima del Conclave del 2013, perché i suoi esordi “ufficiali” risalgono al Concilio Vaticano II, o anche prima: al pontificato di Giovanni XXIII, il “papa buono” (ineffabili progressisti, quasi disarmanti nel “candore” della loro presunzione buonista e autoreferenziale: si vede che prima c’erano stati diversi papi cattivi).
Prendiamo il concetto secondo cui il cristianesimo deve misurarsi in modo rinnovato con la città e con l’”homo urbanus”, perché, come spiega più avanti l’autore, ormai la maggioranza della popolazione vive in città, e così anche i cattolici. È come dire che la Chiesa della città “che conta” (per usare la sua espressione), cioè del “centro”, si era distratta, rivolgendo tutte le sue attenzioni alle campagne, mentre avrebbe dovuto accorgersi che era in atto l’urbanizzazione del pianeta. Fin qui, tutto chiaro, anche se si tratta di pura sociologia e non di pastorale: perché non dovrebbe essere così importante se i cattolici vivono in paese o in città, in centro o in periferia; la cosa importante dovrebbe essere trasmettere loro intatto, da parte della Chiesa, il Deposito delle fede. Se, invece, si vuol suggerire che il Vangelo va predicato, nelle città e nelle periferie, in maniera diversa che nelle campagne o nel centro delle città, allora s’incorre in un errore non soltanto pastorale, ma anche teologico, assai grave: lo stesso, mutatis mutandis, nel quale incorsero i gesuiti (sempre loro!) al tempo della questione dei riti cinesi e dei riti malabarici (cioè indiani): nella pretesa di predicare un “altro” Vangelo a seconda delle popolazioni e delle condizioni culturali dei diversi luoghi. Il Vangelo, invece, è sempre lo stesso e non cambia; possono cambiare alcune forme esteriori, alcuni aspetti marginali della liturgia o della pastorale, non certo la dottrina, non i concetti teologici, i quali sono quelli e non cambiano. Lo sanno bene i missionari che umilmente, silenziosamente, da secoli hanno portato e continuano a portare il Vangelo nei luoghi più sperduti, presso i popoli più lontani, perfino fra le tribù di cannibali della Nuova Guinea: e mai uno solo di loro ebbe la pretesa di cambiare la dottrina, d’insegnare un Vangelo sulla misura dei cannibali; nossignori, tutti – tranne i gesuiti, in certi momento storici; o meglio, alcuni gesuiti – hanno insegnato sempre e solo l’unico Vangelo di Gesù Cristo, così come la Chiesa lo ha ricevuto dal divino Maestro e dagli Apostoli, e lo ha trasmesso, di generazione in generazione, attraverso l’opera del sacro Magistero, sulle due basi incrollabili della Scrittura e della Tradizione. Poi, in anni a noi vicini, è arrivata la teologia della liberazione in America latina, e la teologia della negritudine in Africa nera; e il discorso dell’adattamento del Vangelo alle condizioni locali è stato ripreso, non solo, è stato impostato in un’ottica di forte rivendicazione sociale e sindacale, identificando la Chiesa delle periferie con la Chiesa dei poveri, e contrapponendola, implicitamente o anche esplicitamente, alla Chiesa dei ricchi, alla Chiesa “ricca”. Mentalità neomarxista e da guerra civile, appunto.
Andrea Riccardi dice che la Chiesa deve “misurarsi” con le periferie urbane, è la grande domanda che il Novecento lascia alla Chiesa del secolo XXI. Lasciamo perdere che il Novecento non lascia proprio nulla, non fa domande e non attende risposte: il Novecento è un secolo della storia umana, e i secoli non vivono di vita propria, ma delle vita degli uomini; se poi egli intendeva dire che gli uomini del Novecento lasciano la grande domanda, eccetera, allora avrebbe dovuto precisare “quali” uomini. È troppo comodo far passare i propri desideri per le “necessità” della Storia, magari con la “s” maiuscola: questo non è cristianesimo, ma storicismo, o hegelismo, o idealismo, o attualismo. Per il cristiano, la storia non è altro che lo scenario dell’azione salvifica di Dio in mezzo agli uomini; non ha alcun senso, per il cristiano, se considerata in maniera immanente, umanistica. La storia degli uomini non dice niente, non domanda niente, vive di auto-glorificazione, vorrebbe mettere l’uomo sul trono al posto di Dio, incoronarlo signore e padrone dell’universo; lo ha sempre fatto, dalla Torre di Babele al Terzo Reich, e continuerà a farlo, testardamente, nonostante i diluvi, le ammonizioni, le piogge di fuoco su Sodoma e Gomorra (checché ne dica monsignor Galantino, che nega tale episodio), nonostante i profeti e le profezie che annunciano la sventura agli empi (con buona pace del “papa buono”, il quale non li poteva soffrire). Ma veniamo al cuore del discorso: al cardinale Shuard, capofila del clero progressista e neomodernista, e ai suoi celebri preti operai della periferia parigina. Il concetto da lui espresso è pienamente condiviso da tutte le comunità di Sant’Egidio di questo mondo, il cui programma implicito è trascinare la Chiesa sulle posizioni di sinistra, immanentiste e rivendicazioniste, alle quali è effettivamente giunta sotto questo pontificato, con un Papa che parla di politica più che di cose celesti e che si permette di entrare a gamba tesa nella politica degli Stati (dagli USA, con la campagna presidenziale del 2016, all’Italia, sulla legge dello ius soli), ma si “dimentica” di parlare di Dio, della vita eterna, della grazia e del peccato, del paradiso e dell’inferno, perché vorrebbe che il Regno di Dio fosse di questo mondo, capovolgendo le parole di Gesù Cristo a Pilato: il mio Regno non è di questo mondo. I progressisti e i modernisti, infatti, dicono di voler “cambiare” la Chiesa – il che è già un’eresia e un atto di arroganza, perché la Chiesa è una e indivisibile, e non è di proprietà di alcuno; non è come un appartamento che il proprietario di turno può ristrutturare a suo piacere, abbattendo muri, aprendo nuove finestre, chiudendone altre, installando ascensori), ma il loro vero obiettivo è un altro: quello di rovesciare come un guanto la dottrina cattolica, capovolgere il Vangelo e trasformare Gesù Cristo in uno dei tanti predicatori di riforme sociali, giustizia ed eguaglianza.
Ma che cos’è questa Chiesa delle periferie?
di Francesco Lamendola Del 17 Settembre 2017
ccontinua su:
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