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Le parole di Pietro
Le numerose e sempre vivaci reazioni a quanto Francesco dice durante le conferenze stampa sui voli di rientro dai viaggi apostolici internazionali (l’ultimo, quello dalla Colombia), spingono ad alcune riflessioni sul modo di comunicare del papa e sulla portata delle sue opinioni personali. Indagine che si lega da un lato alla questione del rilievo assunto dalla figura papale nella sfera pubblica, dall’altro a un’analisi degli autentici compiti del successore di Pietro.
Per secoli il vicario di Cristo sulla terra ha vissuto nella riservatezza, ha parlato poco e pochi erano al corrente di ciò che diceva, tanto che si poteva benissimo essere cattolici senza neppure conoscere il suo nome. Anche quando aveva un peso politico decisivo, il suo modo di esprimersi era codificato e avveniva attraverso documenti ufficiali. L’uso delle lingue correnti al posto del latino e, ancor di più, la diffusione dei mezzi di comunicazione sociale (il primo radiomessaggio di Pio XI è del febbraio 1931) hanno modificato completamente il quadro, facendo del papa una figura di rilievo mondiale, spesso al centro delle cronache. Contemporaneamente, in modo inversamente proporzionale, la sua reale capacità di incidenza è diminuita (ai tempi di Giovanni Paolo II la battuta era «applaudono il cantante ma non la canzone»), ma sta di fatto che il papa, di sua iniziativa o perché sollecitato, ha allargato enormemente la sfera di intervento, e da alcuni decenni, specie a partire dal Concilio Vaticano II, non si occupa più soltanto di fede, dottrina, morale e governo della Chiesa, ma veramente di ogni questione riguardante la vita dei singoli e della società. Con il pontificato di Francesco, poi, si è accentuata la tendenza a intervenire mediante modalità comunicative, come la conferenza stampa e l’intervista, che si prestano non soltanto ad allargare il campo degli argomenti, ma anche a sollecitare l’opinione personale del papa.
Parlare di tutto?
Ora è evidente che quando parla un po’ di tutto, e specialmente se lo fa durante interviste o conferenze stampa, senza un testo preparato in precedenza e meditato, il papa, come qualunque altro uomo, può benissimo essere superficiale o cadere in errore. Per l’osservatore avveduto, poco male. Chi conosce le prerogative e i compiti del papa sa che quando non è espresso «ex cathedra», o per lo meno non attraverso documenti ufficiali, elaborati con particolare cura, il pensiero papale, perfino se si occupa di fede e vita religiosa, vale come opinione personale. Il problema è che il «media system», pur imbevuto di laicismo, al cospetto di un papa come Francesco, il cui pensiero sotto molti aspetti si dimostra in linea con quello dominante, per proprio tornaconto diventa così clericale da «sacralizzare» ogni espressione papale. Così, anche quando si tratta di una semplice opinione personale, e anche quando l’uomo-papa dimostra di non essere sufficientemente preparato sulla specifica questione, «l’ha detto il papa» diventa una sorta di sigillo veritativo.
Un po’ di buon senso
Come rimettere, almeno un po’, le cose a posto? Non sono un teologo e non mi avventuro (a proposito di competenza) in un campo non mio. Osservo soltanto che, forse, si potrebbe applicare semplicemente il buon senso. Per esempio, intervenire solo su questioni che sono state studiate e approfondite, lasciando perdere le altre e riconoscendo che in proposito non si ha nulla da dire. Si fornirebbe così, oltretutto, un esempio di serietà e umiltà in un mondo che soffre a causa della verbosità dilagante e della pretesa di intervenire sempre e comunque, anche quando non si sa letteralmente di che cosa si sta parlando. Credo che se un’autorità come il papa, di fronte a una domanda rispetto alla quale sente di non essere preparato, rispondesse «non so», non ne risulterebbe sminuito. Anzi, darebbe un contributo di onestà e integrità superiore a quello che può dare avventurandosi in risposte che spesso ottengono soltanto il risultato di accrescere il tasso, già molto elevato, di confusione.
Un questione di prudenza
Il discorso sulla comunicazione papale si lega a questo punto a quello dei reali compiti del successore di Pietro, che oggi rischiano di essere persi di vista. In proposito mi sembra il caso di riflettere su alcune parole che Benedetto XVI pronunciò in un’udienza del mercoledì (catechesi del 7 giugno 2006) dedicata a «Pietro, la roccia su cui Cristo ha fondato la sua Chiesa».
Sottolineato che il mandato di Gesù nei confronti di Pietro arriva solo dopo che l’apostolo ha fatto la sua confessione di fede (un aspetto che non andrebbe mai trascurato), Benedetto XVI osserva che le prerogative di Pietro già in quel momento sono fissate in modo chiaro: «Pietro sarà il fondamento roccioso su cui poggerà l’edificio della Chiesa; egli avrà le chiavi del Regno dei cieli per aprire o chiudere a chi gli sembrerà giusto; infine, egli potrà legare o sciogliere nel senso che potrà stabilire o proibire ciò che riterrà necessario per la vita della Chiesa, che è e resta di Cristo. È sempre Chiesa di Cristo e non di Pietro».
«È sempre Chiesa di Cristo e non di Pietro». Questa consapevolezza, di per sé, dovrebbe spingere Pietro a esprimersi esclusivamente sui temi collegati ai suoi compiti istituzionali (ripetiamo: essere il fondamento roccioso, amministrare l’uso delle chiavi del Regno, legare e sciogliere), evitando di occuparsi d’altro e di mettere in primo piano le opinioni personali. Si tratta di esercitare la virtù della prudenza. Che non vuol dire paura, autocensura o fuga. Significa avere coscienza del fatto che tu, Pietro, sei il custode di un tesoro grande, che va ben al di là della tua persona, e non ti è dunque consentita una banalizzazione del tuo ruolo.
Ascoltiamo ancora Benedetto XVI: «Il fatto, poi, che diversi dei testi chiave riferiti a Pietro possano essere ricondotti al contesto dell’Ultima Cena, in cui Cristo conferisce a Pietro il ministero di confermare i fratelli (cfr Lc22,31 s.), mostra come la Chiesa che nasce dal memoriale pasquale celebrato nell’Eucaristia abbia nel ministero affidato a Pietro uno dei suoi elementi costitutivi».
Sono puntualizzazioni da non considerare scontate. Primo: il ministero di Pietro è uno degli elementi costitutivi della Chiesa, ma non certo il solo. Secondo: la missione affidata a Pietro è confermare i fratelli nella fede.
Annota poi Benedetto XVI: «Questa contestualizzazione del Primato di Pietro nell’Ultima Cena, nel momento istitutivo dell’Eucaristia, Pasqua del Signore, indica anche il senso ultimo di questo Primato: Pietro, per tutti i tempi, dev’essere il custode della comunione con Cristo; deve guidare alla comunione con Cristo; deve preoccuparsi che la rete non si rompa e possa così perdurare la comunione universale. Solo insieme possiamo essere con Cristo, che è il Signore di tutti. Responsabilità di Pietro è di garantire così la comunione con Cristo con la carità di Cristo, guidando alla realizzazione di questa carità nella vita di ogni giorno».
Dopo di che papa Ratzinger chiede di pregare perché «il Primato di Pietro, affidato a povere persone umane, possa sempre essere esercitato in questo senso originario voluto dal Signore».
Il papa? Un custode
Custode della fede e custode della comunione con Cristo e con i fratelli. La «povera persona umana» che diventa papa sa di non essere altro. E le sue scelte devono essere conseguenti. Anche nel modo di comunicare. Può il compito della custodia sposarsi con l’interventismo, con il protagonismo, con la tendenza a parlare di tutto manifestando le proprie opinioni personali? Certamente no.
L’esempio di Giuseppe
A proposito del concetto di custodia, papa Francesco pronunciò parole molto belle nell’omelia per la messa di inizio pontificato (19 marzo 2013), quando, prendendo spunto dalla figura di Giuseppe, custode di Maria e di Gesù, disse: «Come esercita Giuseppe questa custodia? Con discrezione, con umiltà, nel silenzio, ma con una presenza costante e una fedeltà totale, anche quando non comprende […]. Come vive Giuseppe la sua vocazione di custode di Maria, di Gesù, della Chiesa? Nella costante attenzione a Dio, aperto ai suoi segni, disponibile al suo progetto, non tanto al proprio […] e Giuseppe è “custode” perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge. In lui, cari amici, vediamo come si risponde alla vocazione di Dio, con disponibilità, con prontezza, ma vediamo anche qual è il centro della vocazione cristiana: Cristo!».
Sappiamo quanto papa Francesco sia devoto a san Giuseppe e crediamo che ispirarsi a lui, come figura di custode, sia un ottimo proposito, anche per quanto riguarda la sfera della comunicazione.
La comunione infranta
Infine, con un aggancio alla realtà ecclesiale che stiamo vivendo, qualche considerazione sulla comunione che Pietro è chiamato a garantire.
Come forse sapete, un autorevole filosofo cattolico, Josef Seifert, amico di san Giovanni Paolo II e già membro della Pontificia accademia per la vita, è stato allontanato dalla sede spagnola dell’Accademia internazionale di filosofia, da lui stesso fondata, per aver espresso valutazioni critiche nei confronti di «Amoris laetitia» e in particolare sul paragrafo 303 del capitolo ottavo, dove, secondo Seifert, il papa arriva a sostenere che, a rigor di logica, Dio può chiedere, in talune circostanze, ogni tipo di azione cattiva, come l’adulterio, contraddicendo i suoi stessi comandamenti.
La decisione di allontanare il filosofo è stata presa dall’arcivescovo di Granada, Francisco Javier Martínez Fernández, secondo il quale Seifert «danneggia la comunione della Chiesa, confonde la fede dei fedeli e suscita sfiducia nel successore di Pietro, il che, alla fine, non serve alla verità della fede, ma agli interessi del mondo».
Mi permetto di osservare che non le lucide e rispettose valutazioni del professor Seifert (le quali avrebbero bisogno di essere discusse, non punite), ma proprio provvedimenti come quelli dell’arcivescovo spagnolo danneggiano veramente la comunione della Chiesa. E sarebbe stupendo se da Santa Marta arrivasse un segnale in senso contrario, nel nome di quella «parresia» sempre invocata.
Ma sulla questione della comunione, in relazione al caso Seifert, c’è un’altra riflessione da fare. Se n’è incaricato il professor Claudio Pierantoni, docente di filosofia all’Universidad de Chile, che in un recente saggio intitolato « Josef Seifert, Pure Logic, anche the Biginning of the Official Persecution of Orthodoxy within the Church» (http://www.aemaet.de/index.php/aemaet/article/view/46) a un certo punto scrive: «Innanzitutto, per affermare che qualcuno “danneggia la comunione della Chiesa” in qualche materia, si deve in precedenza supporre che una qualche comunione, riguardo al soggetto che stiamo discutendo, esista effettivamente nella Chiesa. Ora, quale vescovo, quale sacerdote, quale persona istruita e informata nella Chiesa cattolica oggi non sa che non esiste un soggetto attualmente più controverso e più impelagato in una così terribile confusione come questo? In quale altra materia, chiedo, “la fede dei fedeli” è più confusa dalle più contrastanti voci in conseguenza della pubblicazione di “Amoris laetitia”?».
Prosegue Pierantoni: «Qualcuno potrebbe obiettare che la confusione già esisteva prima di AL: sì, ma l’enorme problema con AL è che le correnti di pensiero relativistiche e di “etica della situazione”, che i tre papi precedenti avevano tentato di arginare, sono ora entrate surrettiziamente nelle pagine di un documento ufficiale del papa. Si è arrivati al punto che uno dei più importanti e lucidi difensori del precedente magistero durante più di tre decenni, personalmente sostenuto e incoraggiato nella sua attività filosofica da san Giovanni Paolo II come uno dei suoi alleati più preziosi nella difesa della dottrina morale infallibile della Chiesa, Josef Seifert, è ora licenziato e trattato come un nemico della comunione della stessa Chiesa».
Conseguenze disastrose
«Altrettanto ingiustificato e ingenuo, credo, è l’affermare che Seifert “semina sfiducia verso il successore di Pietro”. L’arcivescovo Martínez sembra ignaro di ciò che è altrettanto evidente di quanto abbiamo detto prima: includendo in un documento ufficiale affermazioni che contraddicono punti essenziali del precedente magistero e della dottrina millenaria della Chiesa, papa Francesco ha direttamente rivolto su di sé la profonda diffidenza di un numero immenso di fedeli cattolici. La conseguenza disastrosa è che questa sfiducia finisce col colpire, nella mente di molti, il papato stesso».
«E qual è la vera causa di questa diffidenza? Può davvero essere il forte e costante impegno di Josef Seifert di opporsi all’errore dell’etica della situazione, un impegno a cui ha dedicato quasi tutta la sua vita e quella dell’istituzione che ha fondato, in servizio fedele alla Chiesa e alla Parola di Dio? O non sarà piuttosto il fatto che a questo stesso errore, contrario a tutta la tradizione cristiana (una tradizione di recente riaffermata in un’enciclica tanto solenne e importante come “Veritatis splendor”) è stato ora consentito di insinuarsi in un documento papale?».
Penso che quando il professor Pierantoni parla della comunione infranta da alcune delle tesi sostenute in «Amoris laetitia» e della «disastrosa conseguenza» della sfiducia nei confronti del papato metta il dito in due piaghe dolorose, meritevoli di essere affrontate a viso aperto (anche pensando a chi dovrà esercitare il ministero petrino dopo Francesco) e non di essere nascoste mediante la reticenza, l’ambiguità e il ricorso alla stroncatura e alla censura.
Aldo Maria Valli
PAPA FRANCESCO IN COLOMBIA (CON QUALCHE NOTA)
Alcune citazioni (ma ce ne sarebbero tante altre interessanti) da discorsi e omelie di papa Francesco durante il viaggio apostolico in Colombia dal 6 all’11 settembre scorso. Qualche annotazione a margine, anche sulla tradizionale conferenza-stampa a ruota libera nell’aereo che riportava tutti a Roma.
DURANTE IL VIAGGIO APOSTOLICO IN COLOMBIA
Riconciliazione nazionale/1 (Bogotà, incontro con le autorità e la società civile, 7 settembre 2017): “Questo incontro mi offre l’opportunità di esprimere l’apprezzamento per gli sforzi compiuti, negli ultimi decenni, per porre fine alla violenza armata e trovare vie di riconciliazione. Nell’ultimo anno certamente si è progredito in modo particolare; i passi avanti fanno crescere la speranza, nella convinzione che la ricerca della pace è un lavoro sempre aperto, un compito che non dà tregua e che esige l’impegno di tutti. Lavoro che ci chiede di non venir meno nello sforzo di costruire l’unità della nazione e, malgrado gli ostacoli, le differenze e i diversi approcci sul modo di raggiungere la convivenza pacifica, persistere nella lotta per favorire la cultura dell’incontro, che esige di porre al centro di ogni azione politica, sociale ed economica la persona umana, la sua altissima dignità, e il rispetto del bene comune. Che questo sforzo ci faccia rifuggire da ogni tentazione di vendetta e ricerca di interessi solo particolari e a breve termine”. NdR. Balza all’occhio una ‘stranezza’ in tutti i discorsi pronunciati da Francesco in Colombia: evocando il cammino fatto verso la riconciliazione nazionale, non ha mai esplicitamente parlato di “accordi di pace” e delle Farc, la formazione guerrigliera di sinistra che ha concluso tali accordi con il Governo. Bergoglio ha sempre evocato gli “sforzi”, ili “primo passo”, i “passi avanti”, ma non ha mai usato la parola “accordi”, che invece non mancava ad esempio nella risposta data a una domanda sul volo di ritorno dagli Stati Uniti (28 settembre 2015): “Quando ho avuto la notizia che a marzo sarebbe stato firmato l'accordo ho detto al Signore: fa che arriviamo a marzo con questa bella intenzione perché mancano piccole cose ma la volontà c'è, da ambedue le parti. Dobbiamo arrivare all'accordo definitivo. Mi sono sentito parte nel senso che ho sempre voluto questo: ho parlato due volte col presidente Santos e la Santa Sede - non solo io - era tanto aperta per aiutare in ciò che si poteva fare». Forse che, siccome gli accordi in una versione sono stati respinti dalla maggioranza del popolo, la Segreteria di Stato ha giudicato che era meglio non fossero citati esplicitamente per non irritare una parte dei cattolici che assistevano alle sante messe? Quella parte che si è manifestata anche con i fischi al presidente colombiano Santos (il quale ha poi preferito astenersi dal partecipare ad alcuni appuntamenti papali di massa)?
Riconciliazione nazionale/2 (Villavicencio, omelia della santa messa, 8 settembre 2017: “La riconciliazione non è una parola che dobbiamo considerare astratta; se fosse così, porterebbe solo sterilità, porterebbe maggiore distanza. Riconciliarsi è aprire una porta a tutte e ciascuna delle persone che hanno vissuto la drammatica realtà del conflitto. Quando le vittime vincono la comprensibile tentazione della vendetta, quando sconfiggono questa comprensibile tentazione della vendetta, diventano i protagonisti più credibili dei processi di costruzione della pace. Bisogna che alcuni abbiano il coraggio di fare il primo passo in questa direzione, senza aspettare che lo facciano gli altri. Basta una persona buona perché ci sia speranza! Non dimenticatelo: basta una persona buona perché ci sia speranza! E ognuno di noi può essere questa persona! Ciò non significa disconoscere o dissimulare le differenze e i conflitti. Non è legittimare le ingiustizie personali o strutturali. Il ricorso alla riconciliazione concreta non può servire per adattarsi a situazioni di ingiustizia”.
Riconciliazione nazionale/3 (Villavicencio, discorso durante la Liturgia di riconciliazione, 8 settembre 2017) “Ci siamo riuniti ai piedi del Crocifisso di Bojayá, che il 2 maggio 2002 assistette e patì il massacro di decine di persone rifugiate nella sua chiesa (NdR: bomba delle Farc, 79 morti). Risulta difficile accettare il cambiamento di quanti si sono appellati alla violenza crudele per promuovere i loro fini, per proteggere traffici illeciti e arricchirsi o per credere, illusoriamente, di stare difendendo la vita dei propri fratelli. Sicuramente è una sfida per ciascuno di noi avere fiducia che possano fare un passo avanti coloro che hanno procurato sofferenza a intere comunità e a tutto un paese. E’ chiaro che in questo grande campo che è la Colombia c’è ancora spazio per la zizzania. Non inganniamoci. Fate attenzione ai frutti: abbiate cura del grano e non perdete la pace a causa della zizzania. Il seminatore, quando vede spuntare la zizzania in mezzo al grano, non ha reazioni allarmistiche. Trova il modo per far sì che la Parola si incarni in una situazione concreta e dia frutti di vita nuova, benché in apparenza siano imperfetti e incompleti. Anche quando perdurano conflitti, violenza, o sentimenti di vendetta, non impediamo che la giustizia e la misericordia si incontrino in un abbraccio che assuma la storia di dolore della Colombia. Risaniamo quel dolore e accogliamo ogni essere umano che ha commesso delitti, li riconosce, si pente e si impegna a riparare, contribuendo alla costruzione dell’ordine nuovo in cui risplendano la giustizia e la pace”.
Riconciliazione nazionale/4 (Villavicencio, discorso durante la Liturgia di riconciliazione, 8 settembre 2017) “Come ha lasciato intravedere nella sua testimonianza Juan Carlos (NdR: Juan Carlos Murcia Perdomo, trentottenne ex-guerrigliero delle Farc, in cui restò 12 anni prima di cambiar vita) in tutto questo processo, lungo, difficile, ma ricco di speranza di riconciliazione, risulta anche indispensabile accettare la verità. E’ una sfida grande ma necessaria. La verità è una compagna inseparabile della giustizia e della misericordia. Tutt’e tre unite, sono essenziali per costruire la pace e, d’altra parte, ciascuna di esse impedisce che le altre siano alterate e si trasformino in strumenti di vendetta contro chi è più debole. La verità non deve, di fatto, condurre alla vendetta, ma piuttosto alla riconciliazione e al perdono. Verità è raccontare alle famiglie distrutte dal dolore quello che è successo ai loro parenti scomparsi. Verità è confessare che cosa è successo ai minori reclutati dagli operatori di violenza. Verità è riconoscere il dolore delle donne vittime di violenza e di abusi.
Legge, ordine, “sangue puro” (Bogotà, incontro con le autorità e la società civile, 7 settembre 2017): “Il motto di questo Paese recita: «Libertà e Ordine». In queste due parole è racchiuso tutto un insegnamento. I cittadini devono essere stimati nella loro libertà e protetti con un ordine stabile. Non è la legge del più forte, ma la forza della legge, quella che è approvata da tutti, a reggere la convivenza pacifica. Occorrono leggi giuste che possano garantire tale armonia e aiutare a superare i conflitti che hanno distrutto questa Nazione per decenni; leggi che non nascono dall’esigenza pragmatica di ordinare la società bensì dal desiderio di risolvere le cause strutturali della povertà che generano esclusione e violenza. Solo così si guarisce da una malattia che rende fragile e indegna la società e la lascia sempre sulla soglia di nuove crisi. Non dimentichiamo che l’ingiustizia è la radice dei mali sociali. (…) In questa prospettiva, vi incoraggio a rivolgere lo sguardo a tutti coloro che oggi sono esclusi ed emarginati dalla società, quelli che non contano per la maggioranza e sono tenuti indietro e in un angolo. Tutti siamo necessari per creare e formare la società. Questa non si fa solo con alcuni di “sangue puro”, ma con tutti. NdR. Due annotazioni interessanti e stimolanti per ulteriori riflessioni. La prima: “Le leggi giuste” non nascono dall’esigenza pragmatica di ordinare la società bensì dal desiderio di risolvere le cause strutturali della povertà che generano esclusione e violenza”. La seconda: “Tutti siamo necessari per creare e formare la società. Questa non si fa solo con alcuni di ‘sangue puro’, ma con tutti”. Quest’ultimo riferimento polemico si indirizza contro il fatto che il potere in Colombia è essenzialmente in mano ai ‘bianchi’, discendenti dei ‘conquistadores’.
Vita, famiglia, poveri (Bogotà, incontro con le autorità e la società civile, 7 settembre 2017): “La Chiesa, fedele alla sua missione, è impegnata per la pace, la giustizia e il bene comune. E’ consapevole che i principi evangelici costituiscono una dimensione significativa del tessuto sociale colombiano e per questo possono contribuire molto alla crescita del Paese; in modo speciale il sacro rispetto della vita umana, soprattutto la più debole e indifesa, è una pietra angolare nella costruzione di una società libera dalla violenza. Inoltre, non possiamo non mettere in risalto l’importanza sociale della famiglia, sognata da Dio come il frutto dell’amore degli sposi, «luogo dove si impara a convivere nella differenza e ad appartenere ad altri». E, per favore, vi chiedo di ascoltare i poveri, quelli che soffrono. Guardateli negli occhi e lasciatevi interrogare in ogni momento dai loro volti solcati di dolore e dalle loro mani supplicanti. Da loro si imparano autentiche lezioni di vita, di umanità, di dignità. Perché loro, che gemono in catene, comprendono le parole di colui che morì sulla croce – come recita il vostro inno nazionale”.
Giovani e capacità di comprensione (Bogotà, saluto al popolo colombiano, 7 settembre 2017): “Anche voi, ragazzi e ragazze, che vivete in ambienti complessi, con realtà diverse e situazioni familiari le più varie, vi siete abituati a vedere che nel mondo non tutto è bianco e neppure tutto nero; che la vita quotidiana si risolve in un’ampia gamma di differenti tonalità di grigio – è vero –, e questo vi può esporre al rischio di cadere in un’atmosfera di relativismo, mettendo in disparte quella potenzialità che hanno i giovani di comprendere il dolore di coloro che hanno sofferto. Voi avete la capacità non solo di giudicare, di segnalare sbagli – perché ve ne accorgete subito –, ma anche quell’altra capacità bella e costruttiva: quella di comprendere. Comprendere che anche dietro un errore – perché, parliamoci chiaro, l’errore è errore e non bisogna mascherarlo –, e voi siete capaci di comprendere che anche dietro un errore c’è un’infinità di ragioni, di attenuanti. Quanto ha bisogno di voi la Colombia per mettersi nei panni di quelli che molte generazioni fa non hanno potuto o saputo farlo, o non azzeccarono il modo giusto per riuscire a comprendere!” NdR: da notare quel “parliamoci chiaro, l’errore è un errore e non bisogna mascherarlo”.
Giovani e capacità di perdono (Bogotà, saluto al popolo colombiano, 7 settembre 2017): “Inoltre, la vostra giovinezza vi rende anche capaci di qualcosa di molto difficile nella vita: perdonare. Perdonare coloro che ci hanno ferito; è notevole vedere come voi non vi lasciate invischiare da vecchie storie, come guardate in modo strano quando noi adulti ripetiamo fatti di divisione semplicemente perché siamo attaccati a dei rancori. Voi ci aiutate in questo intento di lasciarci alle spalle quello che ci ha offeso, nel guardare avanti senza l’ostacolo dell’odio, perché voi ci fate vedere tutta la realtà che abbiamo davanti, tutta la Colombia che desidera crescere e continuare a svilupparsi; quella Colombia che ha bisogno di tutti e che noi anziani dobbiamo consegnare a voi”. NdR: da notare quel ridurre le ferite della Colombia a “vecchie storie”, quell’attribuire l’insistenza su “fatti di divisione” a “rancori”. Osservazioni queste ultime che danno l’impressione di una certa superficialità…
Consigli ai vescovi colombiani (Bogotà, discorso ai vescovi colombiani, 7 settembre 2017):. “Lasciatevi arricchire da quello che l’altro può offrirvi e costruite una Chiesa che offra a questo Paese una testimonianza eloquente di quanto si può progredire quando si è disposti a non rimanere nelle mani di pochi (…) Non accontentatevi di un mediocre impegno minimo, che lasci i rassegnati nella tranquilla quiete della loro impotenza, mentre al tempo stesso placa quelle speranze che avrebbero bisogno del coraggio di essere riposte più sulla forza di Dio che sulla propria debolezza (…) Riservate una particolare sensibilità per le radici afro-colombiane della vostra gente, che tanto generosamente hanno contribuito a disegnare il volto di questa terra. (…) Molti possono contribuire alla sfida di questa Nazione, ma la vostra missione è peculiare. Voi non siete tecnici né politici, siete Pastori. Cristo è la parola di riconciliazione scritta nei vostri cuori e avete la forza di poterla pronunciare non solo sui pulpiti, nei documenti ecclesiali o negli articoli dei periodici, ma più ancora nel cuore delle persone, nel segreto santuario delle loro coscienze, nell’ardente speranza che li attira all’ascolto della voce del cielo che proclama: «Pace agli uomini, che Dio ama»(…) Alla Chiesa non interessa altro che la libertà di pronunciare questa Parola, essere libera di pronunciare questa Parola. Non servono alleanze con una parte o con l’altra, bensì la libertà di parlare ai cuori di tutti. Proprio lì avete l’autonomia e il potere di inquietare, lì avete la possibilità di sostenere una inversione di rotta”. NdR. ‘Mediocre impegno minimo”… forse un riferimento alla dichiarazione della Conferenza episcopale colombiana sulla legittimità anche di un voto negativo sugli accordi di pace tra Governo e Farc?
Alcune ansie e la comoda neutralità (Bogotà, discorso ai vescovi colombiani, 7 settembre 2017): “Permettetemi di presentarvi ora alcune ansie che porto nel mio cuore di Pastore (…) Penso ai numerosi e generosi sacerdoti e alla sfida di sostenerli nella fedele e quotidiana scelta per Cristo e per la Chiesa, mentre alcuni altri continuano a portare avanti la comoda neutralità di quelli che non scelgono nulla per rimanere con se stessi. Penso ai fedeli laici sparsi in tutte le Chiese particolari, che resistono faticosamente nel lasciarsi radunare da Dio che è comunione, anche quando non pochi proclamano il nuovo dogma dell’egoismo e della morte di ogni solidarietà, parola che vogliono togliere dal dizionario”. NdR. E’ evidente che Francesco non ha ancora digerito il ‘no’ popolare agli accordi di pace Governo-Farc (poi approvati in una versione leggermente modificata dal solo Parlamento). Il Papa sa che una parte dei cattolici (decisiva nel conteggio finale!) ha rifiutato gli accordi, ritenendo che essi premiassero vergognosamente le Farc e che in essi fossero contenuti anche riferimenti ambigui a vita e famiglia. Per Bergoglio in tale occasione (e anche dopo) si sono comportati da egoisti non pochi sacerdoti e tanti laici (oltre che diversi vescovi), accusati di mancanza di ‘solidarietà’. Vale qui la pena di ricordare la forte polemica della tv cattolica ‘Teleamiga’ (e in particolare del suo direttore José Galat, rettore dell’Università ‘Gran Colombia’, già candidato conservatore alla presidenza della Repubblica nel 2010): tale tv è stata oggetto di un duro comunicato di censura da parte della Conferenza episcopale colombiana il 25 luglio scorso a causa della violenza dei toni usati contro Francesco. Decine poi i sacerdoti e le associazioni cattoliche schieratisi contro la visita del Papa.
La Chiesa latino americana è meticcia (Bogotà, discorso al Comitato direttivo del Celam, conferenza dei vescovi latino-americani, 7 settembre): “Non si può ridurre il Vangelo a un programma al servizio di uno gnosticismo di moda, a un progetto di ascesa sociale o a una visione della Chiesa come burocrazia che si autopromuove, né tantomeno questa si può ridurre a un’organizzazione diretta, con moderni criteri aziendali, da una casta clericale. (…) La Chiesa conosce come pochi quell’unità sapienziale che precede qualunque realtà in America Latina. Convive quotidianamente con quel patrimonio morale su cui poggia l’edificio esistenziale del continente. Sono sicuro che, mentre sto parlando di questo voi, potreste dare un nome a questa realtà. Con essa dobbiamo continuamente dialogare. Non possiamo perdere il contatto con questo substrato morale, con questo humus vitale che abita nel cuore della nostra gente e in cui si percepisce la mescolanza quasi indistinta, ma al tempo stesso eloquente, del suo volto meticcio: non unicamente indigeno, né ispanico, né lusitano, né afroamericano, ma meticcio, latinoamericano!”
Ruolo fondamentale della donna/1 (Bogotà, discorso al Comitato direttivo del Celam, 7 settembre): “Non è necessario che mi dilunghi per parlare del ruolo della donna nel nostro continente e nella nostra Chiesa. Dalle sue labbra abbiamo imparato la fede; quasi con il latte del suo seno abbiamo acquisito i tratti della nostra anima meticcia e l’immunità di fronte ad ogni disperazione. Penso alle madri indigene o “morenas”, penso alle donne delle città con il loro triplo turno di lavoro, penso alle nonne catechiste, penso alle consacrate e alle così discrete “artigiane” del bene. Senza le donne la Chiesa del continente perderebbe la forza di rinascere continuamente. Sono le donne che, con meticolosa pazienza, accendono e riaccendono la fiamma della fede. È un serio dovere comprendere, rispettare, valorizzare, promuovere la forza ecclesiale e sociale di quanto le donne realizzano. Hanno accompagnato Gesù missionario; non si sono allontanate dai piedi della croce; in solitudine hanno aspettato che la notte della morte restituisse il Signore della vita; hanno inondato il mondo con l’annuncio della sua presenza risuscitata. Se vogliamo una fase nuova e vitale della fede in questo continente, non la otterremo senza le donne. Per favore, non possono essere ridotte a serve del nostro recalcitrante clericalismo; esse sono, invece, protagoniste nella Chiesa latinoamericana: nel loro uscire con Gesù; nel loro perseverare, anche nelle sofferenze del suo Popolo; nel loro aggrapparsi alla speranza che vince la morte; nel loro gioioso modo di annunciare al mondo che Cristo è vivo, ed è risorto”.
Ruolo fondamentale della donna/2 (Villavicencio, omelia della santa messa, 8 settembre 2017): “Nel Vangelo abbiamo ascoltato la genealogia di Gesù (cfr Mt 1,1-17), che non è una mera lista di nomi, bensì storia viva, storia di un popolo con cui Dio ha camminato e, facendosi uno di noi, ha voluto annunciarci che nel suo sangue scorre la storia di giusti e peccatori, che la nostra salvezza non è una salvezza asettica, di laboratorio, ma concreta, una salvezza di vita che cammina. Questa lunga lista ci dice che siamo piccola parte di una grande storia e ci aiuta a non pretendere protagonismi eccessivi, ci aiuta a sfuggire alla tentazione di spiritualismi evasivi, a non astrarci dalle coordinate storiche concrete che ci tocca vivere. E inoltre include, nella nostra storia di salvezza, quelle pagine più oscure o tristi, i momenti di desolazione e abbandono paragonabili all’esilio.
La menzione delle donne – nessuna di quelle evocate nella genealogia appartiene alla gerarchia delle grandi donne dell’Antico Testamento – ci permette un avvicinamento speciale: sono esse, nella genealogia, quelle che annunciano che nelle vene di Gesù scorre sangue pagano, e a ricordare storie di emarginazione e sottomissione. In comunità dove tuttora trasciniamo atteggiamenti patriarcali e maschilisti, è bene annunciare che il Vangelo comincia evidenziando donne che hanno tracciato una tendenza e hanno fatto storia.
E in mezzo a tutto ciò, Gesù, Maria e Giuseppe. Maria col suo generoso “sì” ha permesso che Dio si facesse carico di questa storia. Giuseppe, uomo giusto, non ha lasciato che l’orgoglio, le passioni e lo zelo lo gettassero fuori da quella luce. Per la modalità della narrazione, noi sappiamo prima di Giuseppe quello che è successo a Maria, e lui prende decisioni dimostrando la sua qualità umana prima ancora di essere aiutato dall’angelo e arrivare a comprendere tutto ciò che accadeva intorno a lui. La nobiltà del suo cuore gli fa subordinare alla carità quanto ha imparato per legge; e oggi, in questo mondo nel quale la violenza psicologica, verbale e fisica sulla donna è evidente, Giuseppe si presenta come figura di uomo rispettoso, delicato che, pur non possedendo tutte le informazioni, si decide per la reputazione, la dignità e la vita di Maria. E nel suo dubbio su come agire nel modo migliore, Dio lo ha aiutato a scegliere illuminando il suo giudizio”. NdR: da notare quell’ “oggi, in questo mondo nel quale la violenza psicologica, verbale e fisica sulla donna è evidente”. Forse un po’ forzato rispetto alla realtà odierna… forse che Jorge Mario Bergoglio è reduce da qualche seduta boldrina di ‘politicamente corretto’?
Il vero discepolato (Medellin, omelia durante la santa messa, 9 settembre): “Per il Signore, anche per la prima comunità, è di somma importanza che quanti ci diciamo discepoli non ci attacchiamo a un certo stile, a certe pratiche che ci avvicinano più al modo di essere di alcuni farisei di allora che a quello di Gesù. La libertà di Gesù si contrappone alla mancanza di libertà dei dottori della legge di quell’epoca, che erano paralizzati da un’interpretazione e da una pratica rigoristica della legge. Gesù non si ferma ad un’attuazione apparentemente “corretta”; Egli porta la legge alla sua pienezza e perciò vuole porci in quella direzione, in quello stile di sequela che suppone andare all’essenziale, rinnovarsi e coinvolgersi. Sono tre atteggiamenti che dobbiamo plasmare nella nostra vita di discepoli”. NdR. Da notare che, contrariamente al solito, l’utilizzo di ‘farisei’ e di ‘dottori della legge’ è contestualizzato. I farisei sono “quelli di allora” e i dottori della legge sono “di quell’epoca”. Che gli sforzi del Rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni abbiano prodotto finalmente un effetto positivo?
L’audacia è una virtù, la Chiesa è di Dio (Medellin, omelia durante la santa messa, 9 settembre): “(sulla necessità di coinvolgersi) La terza parola, coinvolgersi. Anche se per qualcuno questo può sembrare sporcarsi o macchiarsi. Come Davide e i suoi che entrarono nel tempio perché avevano fame e i discepoli di Gesù entrarono nel campo di grano e mangiarono le spighe, così oggi a noi è chiesto di crescere in audacia, in un coraggio evangelico che scaturisce dal sapere che sono molti quelli che hanno fame, hanno fame di Dio - quanta gente ha fame di Dio! -, fame di dignità, perché sono stati spogliati. E mi chiedo se la fame di Dio in tanta gente forse non venga perché con i nostri atteggiamenti noi li abbiamo spogliati. E, come cristiani, aiutarli a saziarsi di Dio; non ostacolare o proibire loro l’incontro. Fratelli, la Chiesa non è una dogana; richiede porte aperte, perché il cuore del suo Dio è non solo aperto, ma trafitto dall’amore che si è fatto dolore. Non possiamo essere cristiani che alzano continuamente il cartello “proibito il passaggio”, né considerare che questo spazio è mia proprietà, impossessandomi di qualcosa che non è assolutamente mio. La Chiesa non è nostra, fratelli, è di Dio; Lui è il padrone del tempio e della messe; per tutti c’è posto, tutti sono invitati a trovare qui e tra noi il loro nutrimento. Tutti”.
Diritti umani, lotta alla droga, giustizia (omelia della santa messa, Cartagena de Indias, 10 settembre):. “In questa città, che è stata chiamata “l’eroica” per la sua tenacia 200 anni fa nel difendere la libertà ottenuta, celebro l’ultima Eucaristia di questo viaggio. Inoltre, da 32 anni, Cartagena de Indias è in Colombia la sede dei diritti umani, perché qui come popolo si stima che «grazie al gruppo missionario formato dai sacerdoti gesuiti Pedro Claver y Corberó, Alonso de Sandoval e il fratello Nicolás González, accompagnati da molti figli della città di Cartegena de Indias nel secolo XVII, nacque la preoccupazione per alleviare la situazione degli oppressi dell’epoca, essenzialmente quella degli schiavi, per i quali reclamarono il rispetto e la libertà» (Congresso della Colombia, 1985, legge 95, art. 1).
Gesù, nel Vangelo, ci fa presente anche la possibilità che l’altro si chiuda, si rifiuti di cambiare, persista nel suo male. Non possiamo negare che ci sono persone che persistono in peccati che feriscono la convivenza e la comunità: «Penso al dramma lacerante della droga, sulla quale si lucra in spregio a leggi morali e civili». Questo male minaccia direttamente la dignità della persona umana e spezza progressivamente l’immagine che il Creatore ha plasmato in noi. Condanno fermamente questa piaga che ha spento tante vite e che è mantenuta e sostenuta da uomini senza scrupoli. Non si può giocare con la vita del nostro fratello, né manipolare la sua dignità. Faccio appello affinché si cerchino i modi per porre fine al narcotraffico, che non fa che seminare morte dappertutto stroncando tante speranze e distruggendo tante famiglie.
Anche per questo dobbiamo essere preparati e saldamente posizionati su principi di giustizia che non tolgano nulla alla carità. Non è possibile convivere in pace senza avere a che fare con ciò che corrompe la vita e attenta contro di essa. A questo proposito, ricordiamo tutti coloro che, con coraggio e senza stancarsi, hanno lavorato e hanno persino perso la vita nella difesa e protezione dei diritti della persona umana e della sua dignità. Come a loro, la storia chiede a noi di assumere un impegno definitivo in difesa dei diritti umani, qui, a Cartagena de Indias, luogo che voi avete scelto come sede nazionale della loro tutela”.
DALLA CONFERENZA-STAMPA IN AEREO, DI RITORNO DALLA COLOMBIA, 11 settembre 2017
. Non conoscevo la Colombia profonda: “Davvero sono rimasto commosso della gioia, della tenerezza, della gioventù, della nobiltà del popolo colombiano. Davvero, un popolo nobile, che non ha paura di esprimersi come sente, non ha paura di sentire e far vedere quello che sente. Così l’ho percepito io. Questa è la terza volta [che vado in Colombia], che io ricordi, ma un vescovo ha detto: “No, Lei c’è stato una quarta volta, ma soltanto per piccole riunioni”, una volta a La Ceja e le altre due, o tre, a Bogotá. Ma non conoscevo la Colombia profonda, quella che si vede per le strade. E io ringrazio per la testimonianza di gioia, di speranza, di pazienza nella sofferenza di questo popolo. Mi ha fatto tanto bene. Grazie”.
. Ah, il clima… (domanda: perché negano che il cambiamento climatico sia anche opera dell’uomo?” “Chi nega questo deve andare dagli scienziati e domandare loro. Loro parlano chiarissimo. Gli scienziati sono precisi. (…) Del cambiamento climatico si vedono gli effetti, e gli scienziati dicono chiaramente la strada da seguire. (…) Se uno è un po’ dubbioso che che questo non sia tanto vero, che domandi agli scienziati. Loro sono chiarissimi. Non sono opinioni campate per aria: sono chiarissimi. E poi decida. E la storia giudicherà le decisioni. (altra domanda: perché tarda una presa di coscienza sull’argomento?). Il perché? Mi viene in mente una frase dell’Antico Testamento: l’uomo è uno stupido, è un testardo che non vede. L’unico animale del creato che mette la gamba nella stessa buca, è l’uomo. Il cavallo e gli altri no, non lo fanno. C’è la superbia, la presunzione di dire: “No, ma non sarà così…”. E poi c’è il “dio Tasca”, no? “ NdR. Dalla testimonianza del Premio Nobel per la fisica Carlo Rubbia, resa il 26 novembre 2014 presso le Commissioni Ambiente del Senato e della Camera: “Vorrei ricordare che dal 2000 al 2014 la temperatura della Terra non è aumentata: essa è diminuita di -0,2 gradi e noi non abbiamo osservato negli ultimi 15 anni alcun cambiamento climatico di una certa dimensione. Questo è un fatto di cui tutti voi dovete rendervi conto, perché non siamo di fronte ad una crescita esplosiva della temperatura. La temperatura è montata fino al 2000: da quel momento siamo scesi di 0,2 gradi. Io guardo i fatti”.
Ah, i migranti… (domanda sulla cosiddetta “politica di chiusura delle partenze” da parte dell’Italia): (…) Io sento il dovere di gratitudine verso l’Italia e la Grecia, perché hanno aperto il cuore ai migranti. Ma non basta aprire il cuore. Il problema dei migranti è, primo, cuore aperto, sempre. E’ anche un comandamento di Dio, di accoglierli, “perché tu sei stato schiavo, migrante in Egitto” (cfr Levitico 19,33-34): questo dice la Bibbia. Ma un governo deve gestire questo problema con la virtù propria del governante, cioè la prudenza. Cosa significa? Primo: quanti posti ho? Secondo: non solo riceverli, ma anche integrarli. Integrarli. (…) In un altro volo – quando tornavamo dalla Svezia, credo – ho parlato della politica di integrazione della Svezia come un modello, ma anche la Svezia ha detto, con prudenza: “Il numero è questo; di più non posso”, perché c’è il pericolo della non-integrazione”. NdR. E’ vero che già in altre occasioni (rivolgendosi al Corpo diplomatico, di ritorno dal viaggio apostolico in Svezia, ecc…) papa Francesco aveva già posto dei paletti precisi all’accoglienza incontrollata dei migranti. Tuttavia nella maggior parte delle dichiarazioni papali è inconfutabile che prevalesse proprio quest’ultima scelta. Tale è sempre stata anche la percezione dell’opinione pubblica. Le affermazioni sul volo di ritorno dalla Colombia assumono però un significato particolare, soprattutto per il momento in cui sono state fatte, nel pieno di una violenta polemica - italiana ma non solo- sui contenuti di una vera politica di accoglienza. Sarà che la diplomazia vaticana ha lavorato intensamente, favorendo i contatti con il Governo italiano, ma tali affermazioni innegabilmente suonano come correttive di tante dichiarazioni precedenti e sembrano affiancare la maggior prudenza italiana sull’argomento. Meglio tardi che mai. Una parte della Chiesa italiana si è sentita spiazzata dalle ultime affermazioni papali. In primo luogo l’ “Avvenire” galantino che, in nome della correttezza e della completezza dell’informazione, ha così titolato in apertura di prima pagina martedì 12 settembre: “Accogliere, integrare”. I non pochi lettori che si fermano ai titoli avranno pensato: niente di nuovo nelle dichiarazioni di Francesco. Nel primo piano di pagina 5, il titolo a tutta pagina suonava così: “Clima, l’uomo testardo che non vede”. E il sottotitolo: “Il Papa: sui mutamenti climatici scienza chiarissima. Migranti, ‘accogliere e integrare’ “. ‘Avvenire’ catto-fluido sempre e turiferario fin nel midollo… ma solo se conviene! Se no, le arti acrobatiche dell’ipocrisia clericale le conosce tutte…
PAPA FRANCESCO IN COLOMBIA (CON QUALCHE NOTA) – di GIUSEPPE RUSCONI –www.rossoporpora.org – 13 settembre 2017
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