Nel reagire a un estremo, non bisogna cadere nell’estremo opposto. Per mantenere una retta fede, bisogna respingere sia le sciocchezze di chi ha studiato una “teologia” modernista, sia le forzature teologiche di chi ha fatto dell’antimodernismo una ragione di vita. La seconda opzione è molto attraente per chi è esacerbato dalla deriva apostatica di buona parte degli ambienti ecclesiali o dalle contraffazioni di una cattolicità puramente nominale e di facciata. Tuttavia il cristiano non vive unicamente per combattere le deviazioni, bensì per amare Dio e il prossimo portando a tutti la luce del Vangelo e, per mezzo di essa, schiudendo l’accesso al bene più alto cui si possa oggettivamente aspirare, l’unione con Dio. Se però lo zelo di propagare la verità si riduce a un indottrinamento più o meno elegantemente camuffato, ciò non è rispettoso né del mistero di Dio né della coscienza del prossimo, cosa che la carità presuppone come naturale fondamento.
Su questa china si corre un rischio ancora più profondo: quello di dimenticare che noi crediamo non in una dottrina, ma nel Dio vivente. La sana dottrina è indispensabile per essere certi di conoscere il vero Dio, ma questa conoscenza deve sfociare in un incontro personale: quel Dio, infatti, si è rivelato all’uomo ed è intervenuto nella sua storia perché vuol essere accolto e amato con la mente, con il cuore e con la vita. Questo Suo desiderio non è certo dovuto a qualche carenza che la creatura debba in qualche modo colmare, come indebitamente ci rinfaccia l’Islam a partire dalla concezione di una divinità così lontana, inaccessibile e arbitraria che non può né amare l’uomo né essere da lui riamata, limitandosi a premiare i suoi fedeli con una grottesca caricatura del paradiso terrestre. In realtà la divina gelosia di cui parla la Bibbia e, sulla sua scorta, i mistici non è una proiezione antropomorfica, ma un modo di esprimere l’esigenza, propria dell’amore, di trovare nell’amato una corrispondenza esclusiva che permetta all’amore stesso di compiersi. Nel caso del Dio che si è autorivelato, però, il vantaggio è tutto per l’uomo, dato che nella Trinità la dinamica di dono e risposta che connota l’amore è già perfettamente realizzata.
Il punto d’arrivo dell’atto di fede è Dio stesso, non l’enunciato dogmatico che ti dice qualcosa di Lui; l’enunciato è necessario per credere rettamente in Dio, ma è a Lui che devi arrivare con la fede, la quale – se è autentica – fa germinare in te la carità e nutre la speranza. Non serve a nulla studiare nel modo più sottile le processioni e le relazioni trinitarie, se questo non scatena in te l’anelito ad essere sempre più coinvolto, per inestimabile grazia, in quell’ineffabile circolazione d’amore. Non giova a nulla conoscere in modo perfettamente ortodosso la persona di Cristo e i rapporti tra le due nature, se la Sua vita divino-umana, di cui sei reso partecipe dai Sacramenti, non si sviluppa in te fino alla sua pienezza di santità vissuta. Non c’è alcun vantaggio a possedere con matematica precisione una teologia impeccabile, se questa conoscenza, finendo con l’alimentare un’insensata superbia, non ti sprofonda nell’umiltà di un povero peccatore che si riconosce graziato e sommerso di doni assolutamente immeritati.
L’intellettualismo, di una sponda o dell’altra, soffoca l’unione con Dio, che è un anticipo della visione beatifica nei limiti della nostra condizione terrena. I suoi frutti, a seconda dell’ambiente, sono il sentimentalismo, il volontarismo e il formalismo. Il primo, di solito, nasconde una paurosa ignoranza religiosa da rigetto e, molto spesso, una moralità quanto meno dubbia, piena di sconti e compromessi giustificati con un falso fervore. Il secondo crede di risolvere tutti i problemi con poco illuminati sforzi ascetici o con un attivismo sociale del tutto analogo a quello di un non-credente. Il terzo sostituisce la relazione con Dio con una serie di prestazioni rituali che dovrebbero appagarlo e zittirlo. In tutti e tre i casi l’uomo si soddisfa da sé in una dinamica di tipo autoerotico, ma quel che è peggio è che il Dio vivente, in definitiva, potrebbe anche non esistere – a rigor di logica, anzi, sarebbe meglio che non ci fosse, perché fa saltare tutto il sistema. È molto più comodo rimpiazzarlo con un’idea, una velleità o un’emozione.
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Naturalmente c’è una bella differenza tra il fare teologia in ginocchio e il mettere la teologia in ginocchio. La prima via è quella dei Padri della Chiesa, dei rappresentanti della teologia monastica e dei teologi che si sono fatti santi. La seconda è quella di una pseudoteologia razionalistica, storicistica e revisionistica completamente succube di una certa scuola tedesca che ha culturalmente colonizzato, fra l’altro, anche l’America Latina. La falsa teologia germanica è a sua volta prona alla cattiva filosofia di Kant, Hegel e Heidegger, che è assolutamente incompatibile con la visione cristiana, per il semplice motivo che è contraria alla retta ragione. Pur con le debite differenze, il pensiero di questi autori sposta tutto il peso, nel processo conoscitivo, dalla realtà oggettiva all’intelletto umano, che finisce con l’essere determinato dalla storicità. Se infatti i trascendentali e le categorie che rendono possibile la conoscenza esistono soltanto nella mente, senza essere ancorati all’essere, la realtà si trasforma di pari passo con l’evoluzione delle culture e l’identità dell’uomo si dissolve in un caleidoscopio di opinioni cangianti.
Senza Karl Rahner e la sua svolta antropologica, in poche parole, non ci sarebbe stato l’uomo di Santa Marta, ma nemmeno il gender. Il Concilio Vaticano II avrebbe riaffermato la verità cattolica in perfetta continuità con la Tradizione (senza costringere a tripli salti mortali con avvitamento) e la riforma liturgica si sarebbe limitata a qualche indispensabile adattamento, piuttosto che procedere a quel totale rifacimento del rito romano che di fatto è risultata. Solo così, d’altronde, è stato possibile sloggiarne Cristo per intronizzare, al Suo posto, l’uomo – e l’uomo peccatore, non quello redento, l’uomo che si ostina spudoratamente nei suoi peccati e pretende che il buon Dio gli dica: «Bravo!». Ma quel “Dio” – come già evidenziato – è soltanto un’idea, una velleità o un’emozione funzionali al godimento solitario dell’individuo, alla sua autogiustificazione e autoesaltazione. In fin dei conti, questo non è altro che l’apice di una parabola iniziata con Lutero.
Anche combattendo accanitamente il modernismo si può tuttavia finire, senza rendersene conto, col mettere il proprio piccolo ego e la propria teologia al posto del Dio vivente. Alla fin fine, l’esito pratico non differisce poi di molto nella sostanza; le vie saranno diverse, ma, se ti fanno ritrovare più o meno allo stesso punto, un’ombra di sospetto ti deve pur venire… Tale accecamento si verifica ogniqualvolta si erige una costruzione intellettuale allo scopo di far apparire legittimi comportamenti intrinsecamente cattivi. Per chi si è costituito paladino della verità cattolica, è una crassa contraddizione che salta agli occhi di chiunque abbia conservato una mente limpida e lineare, ma viene subdolamente mimetizzata con un enorme apparato erudito e argomentativo che spiazza qualunque non-specialista, sebbene il buon senso gli suggerisca che qualcosa non funziona. Così, in nome della Tradizione, si può tranquillamente dichiarare a parole un’obbedienza al Papa meramente nominale e al tempo stesso, persistendo pervicacemente in una situazione irregolare con il rifiuto di qualsiasi accordo, dispiegare tutto un apostolato totalmente sganciato dalla legittima giurisdizione dei vescovi che sono in comunione con lui.
Monsignor Lefebvre, pur avendo avuto l’incommensurabile merito di conservare la Messa tradizionale a beneficio di noi tutti, a partire da un certo momento sembrò agire come se la Chiesa sopravvivesse unicamente nella sua opera, quasi ne fosse lui il salvatore; questa stessa impressione continuano a dare i suoi discepoli. A Dio solo, ovviamente, spetta giudicare le anime, ma noi non possiamo esimerci dal valutare gli atti degli uomini per discernere la via da seguire ed evitare le false piste. Il sentirsi unici depositari di una verità salvifica che tutti gli altri avrebbero smarrito o falsificato può portare alla perdizione: se infatti consideri perduti quanti non riconoscono senza riserve la missione divina che ti sei attribuito da solo, sei tu a rischiare di perderti, perché non dài più ascolto a nessuno. Se poi poni ogni tuo pensiero a rinforzo dell’unico puntello su cui poggia tutto il tuo edificio (in questo caso, un presunto stato di necessità da te stesso decretato), sarà davvero difficile che ti accorga della trappola, ma ti ci sei messo tu stesso.
Tieni saldi i miei passi nei tuoi sentieri, perché i miei piedi non vacillino. Alla fine il tuo insegnamento mi ha corretto e tu stesso continuerai ad istruirmi (Sal 16, 5; 17, 36Vulg.)
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