BASTA SOLO UN PO' DI CORAGGIO
Perché tanto odio contro i Cattolici, sono forse temuti? quasi nessuno si espone e ci vorrebbe solo un po’ di coraggio: il vero cristiano sa che il mondo lo odia e farà di tutto per strappargli la cosa più preziosa: "la fede"
di Francesco Lamendola
La considerazione più realistica, ma anche più amara, quando si considera l’attuale degrado in cui versa la Chiesa cattolica, inquinata da uomini e idee che nulla hanno di genuinamente cattolico, anzi, da molti uomini e da molte idee che sono una vera e propria antitesi del Vangelo, sia in ambito dottrinale, sia in ambito morale, è che ci vorrebbe un po’ più di coraggio da parte dei cattolici stessi; e che se il cattolico medio, sia laico, sia consacrato, ne avesse mostrato almeno un poco, forse non saremmo arrivati fino al punto in cui, purtroppo, siamo arrivati adesso, e dal quale sarà difficilissimo tornare indietro.
Il punto è questo: vi è stato, ed è tuttora in atto, un movimento – a nostro parere: una precisa strategia, frutto di un disegno da parte di determinati centri di potere, e non già un movimento “spontaneo” – il quale, letteralmente sotto i nostri occhi, per non dire sotto il nostro sedere, che sia quest’ultimo piazzato su una cattedra episcopale, o universitaria, o alla direzione di un giornale, o che sia il sedere dell’uomo qualunque, che non ha potere sul prossimo, e tanto meno sulle masse – ha spostato tutto l’insieme della vita della Chiesa, la sua liturgia, il suo insegnamento, dal piano del divino a quello dell’umano; dal piano del soprannaturale, a quello naturale; dalla fedeltà al Regno di Dio, ai discutibili, contorti ed egocentrici piaceri della democrazia, o piuttosto della demagogia, in base ai quali sono gli uomini stessi a decidere dove deve andare la navicella di san Pietro, e non la guida perenne e infallibile di Dio stesso.
Ora, questo movimento, questa traslazione, questo scorrimento tettonico, che sta portando la “placca” del cattolicesimo (ci si permetta la similitudine geologica) alla deriva sui mari del relativismo, sempre più lontano dalla sua sede originaria, e, quel che più conta, dalla sua vera natura e dalla sua vera finalità, non è incominciato ieri, ma da più di cinquant’anni, almeno nella sua fase percepibile a occhio nudo; perché, in effetti, l’inizio dello scorrimento risale più indietro ancora. I papi del XIX secolo e della prima metà del XX sono stati degli autentici giganti, che hanno lottato coraggiosamente contro il gravissimo pericolo, da essi già chiaramente avvertito; non compresi, bensì osteggiati, e trattati con diffidenza dagli stessi cattolici, essi avevano lanciato il grido d’allarme e posto una serie di paletti indicatori, il Sillabo, per esempio, o la Pascendi. Come le boe che indicano la posizione del fondale marino e che servono alle grosse imbarcazioni per avvicinarsi alla costa senza rischiare di arenarsi, questi documenti del sacro Magistero hanno segnalato la presenza di pericoli, sia potenziali, che attuali, i quali non sempre erano stati visti e compresi dalla massa dei cattolici; e non si finirebbe di ammirare l’intelligenza, la lungimiranza, la chiarezza e la lucidità di quei pastori, nonché la loro sollecitudine verso il gregge che era stato loro affidato, e per difendere il quale non temevano di esporsi in prima persona. C’è bisogno di ricordare che papa Pio VII si lasciò prendere prigioniero da Napoleone, quando costui dominava il mondo, e che sopportò ogni cosa con fermezza e risolutezza, rifiutando compromessi e facili accomodamenti, per tener fermo alla vera dottrina e ai diritti inalienabili della Chiesa?
Dunque, da circa mezzo secolo – dall’epoca del Concilio Vaticano II - il movimento si è fatto percepibile, e da qualche anno è diventato evidente: talmente evidente che ormai bisogna essere proprio ciechi e sordi per non avvertirlo. Non si può dire, quindi, che esso ci abbia colti del tutto alla sprovvista. Semmai, si può dire che il movimento stesso, benché percepito e “registrato” da milioni di cattolici, non è stato pienamente riconosciuto nella sua reale portata e nel suo vero, ultimo significato, per un fattore di ordine psicologico, prima ancora che dottrinale o spirituale. In poche parole, coloro i quali lo hanno diretto, hanno potuto giocare sul fatto che quanto stavano compiendo era, ed è, qualcosa di letteralmente impensabile: più o meno come sarebbe impensabile, per i passeggeri e per gli stessi marinai di una nave, che il comandante e gli ufficiali abbiano deciso, per qualche ragione loro, vergognosa e inconfessabile (un accordo sottobanco con la compagnia assicuratrice, per esempio), di condurre la nave al naufragio contro gli scogli, oltretutto giocando con la vita di moltissime persone. Come si può pensare una cosa del genere? Una cosa del genere è impensabile, perché il comandante della nave, nell’immaginario di tutti, e anche nella logica dei fatti (o, almeno, nella logica di ciò che è visibile e comprensibile, se non vi sono dei segreti inconfessabili), è colui sul quale si può fare pieno affidamento per tutto quel che riguarda la sicurezza della nave e di ciò che essa trasporta, uomini e beni. Se c’è una figura sulla quale si può contare, quella è la sua: nessuno più di lui, nessuno meglio di lui, è interessato a che la navigazione si svolga senza incidenti, e che la nave giunga felicemente in porto, e vi giunga in perfetta sicurezza, nei tempi e nei modi prestabiliti. Di tutti si può dubitare, dal secondo ufficiale fino all’ultimo cuoco o cambusiere, fino all’ultimo passeggero; si può pensare che fra loro si nasconda un assassino, un terrorista, un delinquente della peggiore specie, intenzionato a fare del male o perfino a sabotare il viaggio, a mettere in pericolo la nave; ma dal comandante, nessuno si aspetta una cosa del genere. Nessuno se la immagina. E, per la verità, anche i suoi collaboratori godono di un’istintiva fiducia, da parte di chi su quella nave si è imbarcato: difficile pensare che gli ufficiali non siano stati selezionati, che non siano persone capaci e responsabili; difficile, anche se non impossibile, almeno in teoria, ossia finché non si dovesse giungere, malauguratamente, alla prova dei fatti. Ma il comandante no. Egli avrebbe tutto da perdere, da un incidente o da un naufragio, a cominciare dalla sua reputazione. Si sa che molti comandanti preferirebbero morire con la loro nave, piuttosto che salvarsi mentre essa va a fondo. Il comandante dell’Andrea Doria dovette essere quasi forzato a salire sulla scialuppa: aveva deciso di perire insieme al suo meraviglioso transatlantico. Non voleva sopravvivere al disonore di aver perduto la nave che gli era stata affidata, di aver subito una collisione nel corso della quale vi erano state delle vittime fra i passeggeri.
Ebbene: fra i cattolici dei nostri giorni si è verificata una situazione psicologica in tutto e per tutto paragonabile a quella che abbiamo descritta. Si sono fidati: hanno ritenuto di potersi e di doversi fidare, perché, mai, nel corso dei secoli, la Chiesa, pur sovente, anzi, continuamene attaccata da nemici esterni, mai era stata pesantemente minacciata dall’interno, e mai e poi mai era stata minacciata dal suo vertice. Mai un concilio, prima del Vaticano II, e mai un papa, prima di Francesco, erano incorsi anche solo vagamente nel sospetto di essersi discostati dalla Verità della divina Rivelazione, di essere stati infedeli al mandato ricevuto da Dio stesso, di aver fatto cattivo uso della responsabilità immensa loro affidata. La responsabilità dei vescovi, dei cardinali e del pontefice è quella di condurre la navicella di san Piero per la diritta via: di custodire il Deposito della fede e di tramandarlo, intatto, alle generazioni successive. Non è, e non è mai stato, compito loro, quello di cambiare la dottrina o qualsiasi altro aspetto della divina Rivelazione. Perfino la liturgia, che a qualcuno pare poco più di un abito che s’indossa per le sacre funzioni, è frutto di una Tradizione plurisecolare, di una Tradizione che si deve scrivere con la maiuscola, perché di origine soprannaturale: quindi anche la liturgia deve essere considerata come un tutt’uno con la dottrina, pertanto qualcosa di non modificabile e di non “aggiornabile” in base al mutare dei tempi storici e dei ritmi della società profana. Certo, si sa bene che la Chiesa non può e non deve rimanere immobile nelle sue strutture; che deve, in una certa misura, tener conto del cambiamento del clima culturale complessivo; ma si sa, altrettanto bene, che non può e non deve farlo e che, in pratica, non l’ha mai fatto, venendo meno ai suoi principi, alla sua Verità, al Deposito delle fede in tutta la sua interezza, in tutta la sua organicità strutturale. E invece, proprio questo è avvenuto, e sta tuttora avvenendo: sotto i nostri occhi, e, a questo punto, con la nostra connivenza. Vediamo che ciò sta accadendo, eppure non facciamo e non diciamo nulla. Solo quattro cardinali, fra tutti, hanno osato scrivere una lettera al papa, per chiedere, rispettosamente, dei chiarimenti su alcuni punti della esortazione apostolica Amoris laetitia, che sembravano, e sono, in grave contrasto con il millenario Magistero della Chiesa; e non sono stati degnati di una risposta. Avevano anche chiesto una udienza privata, ma non hanno avuto neanche quella; due di loro, nel frattempo, sono morti. E tutti gli altri? E tutti i sacerdoti e i religiosi che hanno visto, e vedono, ogni giorno, lo scempio perpetrato contro la Chiesa, dal suo interno, non hanno niente da dire? E i laici? I lettori di Famiglia Cristiana, per esempio, o quelli di Avvenire: possibile che non si siano accorti di quanto questi giornali si sono allontanati da ciò che erano, da ciò che dicevano sino a qualche anno fa? Possibile che, accorgendosene, lo trovino normale? Che non sia sorto in loro quanto meno un certo disagio, un desiderio di chiarezza, un bisogno di capire quel che si nasconde dietro una svolta così radicale, così stupefacente?
Dispiace dirlo, ma qui, senza dubbio, un fattore decisivo è stato, oltre alla mancanza di coraggio, l’indebolimento della fede. Se, infatti, da un lato appare evidente che molti, troppi membri del clero hanno taciuto, e continuano a tacere, o fanno buon viso a ciò che, forse, intimamente non approvano, per amore del quieto vivere, per non esporsi alle conseguenze di una presa di posizione, per conservare, in parole semplici, le loro amate poltrone, è altrettanto evidente che c’è pure qualcos’altro che è venuto a mancare, e che ha favorito il colpo di mano dei modernisti all’interno della Chiesa, ossia l’indebolimento, lo sgretolamento, la banalizzazione della fede. Troppi cattolici avevano, e hanno, smarrito la cosa più importante di tutte: il legame con Dio, legame quotidiano, costante, mediante la preghiera e la partecipazione al Sacrificio eucaristico. Se così non fosse stato, il comandante della nave, con pochi membri dell’equipaggio, non avrebbe potuto impadronirsi del timone e condurre la nave stessa verso gli scogli, nel silenzio o nell’acquiescenza generale. Doveva essere ben debole, fiacca e conformista la nostra fede, per renderci così ciechi, pigri e anche poco coraggiosi. Il coraggio è l’effetto della fede; e se uno il coraggio non ce l’ha, com’era il caso di don Abbondio, non rimane abbandonato a se stesso; purché conservi salda la fede in Dio, sarà Lui a darglielo. Oggi, 17 ottobre, è la ricorrenza di sant’Ignazio di Antiochia: un vescovo che affrontò le belve feroci per testimoniare la sua fede, e che, in prigione, scriveva ai suoi fedeli di non pregare perché Dio lo scampasse dalle zanne dei leoni, poiché per lui la morte era una grazia, la via per farsi tutt’uno con Cristo. Ecco che cosa abbiamo smarrito, come cattolici, e da molto, troppo tempo: la coscienza del fatto che la vita è una lotta incessante fra il bene e il male, e che la Croce è odiata dai nemici di Dio; pertanto, che essere cristiani vuol dire incorrere nell’odio del mondo, che ci si deve preparare a subire persecuzioni d’ogni tipo, anche morali.
Ci vorrebbe solo un po’ di coraggio
di Francesco Lamendola
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