Da milleseicento anni la lingua ufficiale della Chiesa
cattolica romana è il latino, come della Chiesa di Costantinopoli è il greco
antico, di quella di Mosca lo slavo ecclesiastico, dei luterani il tedesco medievale.
Il latino è quindi anche la lingua della liturgia romana, come di altre
liturgie occidentali: segno di unità ecclesiale che travalica tempo e spazio,
perché collega le generazioni cristiane dai primi secoli sino ad oggi, e perché
permette a tutti i cattolici di unirsi in una sola voce; è la chiesa universale
che prega per bocca dei suoi figli senza distinzione di razza e cultura.
Che cosa è successo con la riforma liturgica? Per quanto
siano stati tradotti nelle lingue parlate, molti testi liturgici non si
potevano rendere con la stessa efficacia; per non parlare del canto gregoriano
e polifonico legato ad esso. Inoltre, la tesi in sé positiva
dell’inculturazione della liturgia in un luogo e cultura - per la quale fu
promulgata l'Istruzione Varietates legitimae, da leggere complementariamente a
Liturgiam authenticam - non può offuscar l’altra che la precede e la segue: la
liturgia deve esprimere l’unità e la cattolicità della Chiesa. Joseph Ratzinger
osservava che tradurre la liturgia nelle lingue parlate sia stata una cosa
buona, perché dobbiamo capirla, dobbiamo prendervi parte anche con il nostro
pensiero, ma una presenza più marcata di alcuni elementi latini aiuterebbe a
dare una dimensione universale, a far sì che in tutte le parti del mondo si possa
dire: "io sono nella stessa Chiesa" …per avere una maggiore
esperienza di universalità, per non precludersi la possibilità di comunicare
tra parlanti di lingue diverse, che è così preziosa in territori misti. Col
latino i sacerdoti possono dire messa per qualsiasi comunità nel mondo ed
essere compresi.
Surrettiziamente però si è coniata la tesi
dell’incomunicabilità plurisecolare della liturgia facendola dipendere
dall’altra tesi che il latino non fosse comprensibile ai tempi di Trento da
parte della quasi totalità dei preti. Si è volutamente dimenticata l’opera di
formazione del clero e di catechesi dei fedeli avviata da quel concilio, che ha
mutato in quattro secoli la situazione. Questa tesi tace sul fatto che i nostri
padri vivessero il mistero eucaristico e liturgico molto più profondamente di
noi oggi e, ultimamente, significa negare l’azione dello Spirito Santo. La
comprensione del mistero, non è quella che discerne la presenza di Cristo
sull’altare e fa cadere in ginocchio, annichiliti come Pietro, esclamando:
“Allontanati da me che sono un peccatore”? Malgrado la Messa in lingua parlata,
il numero dei fedeli nelle chiese è molto diminuito: forse anche perché, dicono
alcuni, ciò che hanno compreso non è affatto piaciuto. Divo Barsotti diceva:
“Crede di capire qualcosa di più dell’essenza e del mistero eucaristico se si
parla solo e sempre in italiano? Il problema non è di capire solo sul piano
intellettuale, ma di compiere un incontro reale con Cristo”.
A tutto questo poi, non ha contribuito la pubblicazione, in
breve tempo, di documenti spesso contraddittori. Come giudicare lo iato tra il
Motu proprio Sacram Liturgiam del 25 gennaio 1964, col quale papa Paolo VI
ammetteva le lingue nazionali solo per le letture e il vangelo della Messa
degli sposi, e l’Istruzione Inter Oecumenici del 26 settembre 1964, promulgata
dalla Congregazione per il Culto Divino insieme al Consilium ad exsequendam
Costitutionem de Sacra Liturgia (l’organismo istituito per “eseguire” il testo
conciliare), in cui si autorizzava la lingua volgare oltre che nelle letture e
nella preghiera universale, anche nell’Ordinario della Messa, cosa non prevista
dalla Sacrosanctum Concilium?
Poi, sebbene l’Istruzione, al n 57 prescrivesse che i
messali e breviari in lingua volgare contenessero anche il testo latino, il 31
gennaio 1967 si comincia a recitare in lingua volgare anche il Canone romano.
Ma il 13 luglio 1967 Paolo VI – come anzi detto – aveva fatto scrivere dalla Segreteria di
Stato al Consilium, affinché i messali nazionali fossero bilingue: latino e
lingua volgare. Eppure, appena un mese prima, il 21 giugno, il Consilium aveva
inviato una lettera circolare a firma del suo presidente card. Lercaro, in cui
si affermava che nelle celebrazioni non si dovrà passare da una lingua all’altra.
Così, il 10 agosto del 1967 il Consilium diramava una comunicazione ai
presidenti delle conferenze episcopali nazionali, circa la traduzione del
Canone romano, in cui affermava: “E’ desiderio del Santo Padre che i messali,
sia quotidiani che festivi, in edizione integrale o parziale, portino sempre a
lato della versione in lingua volgare il testo latino, su doppia colonna o a
pagine rispondenti, e non in fascicoli o libri separati, a norma
dell’Istruzione Inter Oecumenici e del Decreto della S.Congregazione dei Riti
De Editionibus librorum liturgicorum, del 27 gennaio 1966”.
Nel 1969 Paolo VI tornava a chiederlo anche alla Commissione
liturgica nazionale italiana, a proposito della traduzione da intraprendere,
addentrandosi “nell’augusto, austero,
sacro, venerando, tremendo recinto delle preci eucaristiche” – che
costituiscono il cuore della Messa, il momento della consacrazione del pane e
del vino – dove esortava a “procedere con pazienza, senza fretta, e soprattutto
con qualche umiltà” (n. 11). L’espressione sarà ripresa letteralmente nella
terza Istruzione Liturgicae Instaurationes del 1970, tranne l’accenno
all’umiltà! Ma il papa rimase inascoltato, sia sull’impostazione bilingue sia
sulle traduzioni, con la scusa dell’eccessiva voluminosità che avrebbe
raggiunto il messale, secondo il segretario del Consilium, mons.Bugnini. Se
questi avesse potuto vedere l’edizione italiana attuale, cosa avrebbe
detto? Dunque, direbbe Manzoni, le
'gride' c’erano ma non sono state osservate.
Dinanzi al proliferare inarrestabile delle
traduzioni-interpretazioni, dovette intervenire, nel 1974, la Congregazione per
la Dottrina della fede che stabiliva: “Il significato da intendersi per esse è, nella mente della Chiesa, quello
espresso dall’originale testo latino”. Risultato: l’originale latino scomparve,
impedendo così a preti e studiosi di intendere l’autentico significato del
testo tradotto. Infatti, se si studia comparativamente il lessico e la sintassi
del messale tridentino, promulgato da san Pio V, e di quello di Paolo VI si
hanno non poche sorprese.
Per esempio, un’orazione dell’antico messale dice: Deus, qui
nocentis mundi crimina per acquas abluens, regenerationis speciem in ipsa
diluvii effusione signasti (Dio, che astergendo con le acque i delitti di un
mondo peccatore, nella inondazione stessa del diluvio hai prefigurato la
rinascita); nel messale attuale è resa così: “Deus, qui regenerationis speciem
in ipsa diluvii effusione signasti” (Dio, che nella inondazione stessa del
diluvio hai prefigurato la rinascita): sono scomparse le espressioni che
riguardano la condizione umana di peccato, i pericoli e le insidie del diavolo
e del mondo. Perché? Forse per non provocare “choc al senso cristiano attuale”
(cfr Istruzione del Consilium del 1969). Questa situazioneè un sintomo di
quell’ottimismo romantico, stigmatizzato da Joseph Ratzinger nel Rapporto sulla
fede, che oggi è sfociato nel relativismo teologico.
Significativo è quanto affermava Giovanni Paolo II, il quale
riconosceva che la lingua latina «è stata anche un’espressione dell’unità della
Chiesa, e, mediante il suo carattere dignitoso, ha suscitato un senso profondo
del mistero eucaristico». Papa Wojtyla ammetteva, inoltre, sempre nello stesso
documento, che «la Chiesa romana ha particolari obblighi verso il latino, la
splendida lingua di Roma antica, e deve manifestarli ogni qualvolta se ne
presenti l’occasione».
Che cosa pensare e che fare? Uwe M.Lang annota: “I Padri
conciliari non immaginavano che la lingua sacra della Chiesa occidentale
sarebbe stata rimpiazzata dal vernacolo. La frammentazione linguistica del
culto cattolico nel periodo post-conciliare si è spinta così oltre che la
maggioranza dei fedeli oggi può a stento recitare un Pater noster insieme agli
altri, come si può notare nelle riunioni internazionali a Roma o a Lourdes. In
un'epoca contrassegnata da grande mobilità e globalizzazione, una lingua
liturgica comune potrebbe servire come vincolo di unità fra popoli e culture, a
parte il fatto che la liturgia latina è un tesoro spirituale unico che ha
alimentato la vita della Chiesa per molti secoli. Infine, è necessario
preservare il carattere sacro della lingua liturgica nella traduzione
vernacola, come fa notare l'istruzione della Santa Sede Liturgiam authenticam
del 2001”.
A chi obbietta che la lingua latina non permette la
comunicazione e la partecipazione alla liturgia, bisogna far notare che il
latino, quale lingua 'sacra' ha una potenza comunicativa, in quanto è adoperata
all'interno di un atto sacro; inoltre, le caratteristiche di eredità della
tradizione, universalità e immutabilità - che sono parallele a quelle del
nucleo della fede - la rendono particolarmente adatta alla liturgia, che tratta
delle res sacrae aeterne: il latino risponde alla missione della Chiesa di
Roma. Anche le Chiese giovani africane e asiatiche hanno bisogno di una lingua
unificante e universale, in momenti particolarmente significativi della loro
vita, come la liturgia.
In molte parti del mondo si torna al latino: da Oxford a
Cambridge, a Seattle…perché considerarla un’arretratezza? Ad un europeo che
deve imparare l’inglese per comunicare col mondo, perché non può essere utile
conoscere il latino nostra madre lingua, per comunicare nella liturgia
cattolica con i fratelli di fede ed anche saper decifrare il patrimonio musicale
e artistico della Chiesa a cui apparteniamo senza far la figura degli
ignoranti? Tutte le religioni usano una lingua sacra: l’arabo antico per i
musulmani, il sanscrito per gli indù. Dunque non si deve aver paura del latino:
i giovani lo capiscono e affollano le Messe in latino.
Bisogna interrogarsi seriamente, circa la disobbedienza
verso il Concilio Ecumenico Vaticano II, per aver abolito, di fatto e del
tutto, il latino nella liturgia e nei sacramenti, facendo un favore al
secolarismo e al particolarismo. Rispetto al tempo in cui fu pubblicata la
Costituzione liturgica, la situazione è molto più grave in diverse parti del
mondo, specialmente in Occidente: “È in questione la fede”e “l'unità del rito
romano”che la esprime (cfr.Sacrosanctum Concilium, n. 37-38).
(FINE - 2) Già pubblicato: Il rovesciamento delle gerarchie
Nicola Bux
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.