ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 28 novembre 2017

Una tristezza senza fine..


NEOCHIESA E RIFIUTO DI CRISTO


La neochiesa rifiuta la croce perché rifiuta Cristo. Quando il papa Francesco alla domanda angosciata di un ragazzino rimasto orfano risponde a sua volta con una domanda ancor più "angosciata", ma costui è degno di essere papa?
di Francesco Lamendola

 


Il 2 giugno 2017 il papa Francesco ha incontrato i ragazzi del Gruppo “Cavalieri”, nell’aula dedicata a Paolo VI, e ha risposto ad alcune domande poste da loro. Di particolare interesse è stato quanto ha detto sul tema della sofferenza, specialmente la sofferenza dei bambini, allorché è stato sollecitato da un giovane studente di origine bulgara, Tanio, raccolto dall’orfanotrofio a cinque anni e adottato da una famiglia italiana, il quale aveva perso, di recente, sia la mamma adottiva, sia i nonni con i quali viveva, e che ora gli domandava lumi, appunto, sul mistero della sofferenza. Non possiamo riportare tutto il discorso; chi lo desiderasse, lo troverà facilmente in rete; ne riportiamo il passaggio in questione, che ci è sembrato particolarmente significativo:

 Come si fa a capire che il Signore ti ama quando ti fa mancare persone o cose che tu non vorresti mai perdere? Pensiamo un po’, tutti insieme, con l’immaginazione, a un ospedale qualsiasi dei bambini. Come si può pensare che Dio ami quei bambini e li lascia ammalati, li lascia morire, tante volte? Pensate a questa domanda: perché soffrono i bambini? Perché ci sono bambini nel mondo che soffrono la fame, e in altre parti del mondo c’è uno spreco tanto grande? Perché? Tu sai, ci sono domande – come quella che tu hai fatto – alle quali non si può rispondere con le parole. Tanio, tu hai fatto questa domanda e non ci sono parole per spiegare. Soltanto, troverai qualche spiegazione – ma non del “perché”, ma del “para que” [“a che scopo”] – nell’amore di quelli che ti vogliono bene e ti sostengono. Non è una spiegazione del perché succedono queste cose, ma c’è gente che ti accompagna. Io ti dico sinceramente, e tu capirai bene questo: quando mi faccio nella preghiera la domanda: “Perché soffrono i bambini?”, di solito la faccio quando vado negli ospedali dei bambini e poi esco – ti dico la verità – con il cuore non dico distrutto, ma molto addolorato, il Signore non mi risponde. Soltanto guardo il Crocifisso. Se Dio ha permesso che suo Figlio soffrisse così per noi, qualche cosa deve esserci lì che abbia un senso. Ma, caro Tanio, io non posso spiegarti il senso. Lo troverai tu: più avanti nella vita o nell’altra vita. Ma spiegazioni, come si spiega un teorema matematico o una questione storica, non ti posso dare né io né qualcun altro. Ci sono, nella vita – capite bene questo! -, ci sono nella vita domande e situazioni che non si possono spiegare. Una di quelle è quella che tu hai fatto, della tua sofferenza. Ma dietro a questo, sempre c’è l’amore di Dio. “Ah, e come lo spieghi?”. Non si può spiegare. Io non posso spiegarlo. E se qualcuno ti dice: “Vieni, vieni, che io te lo spiego”, dubita. Ti faranno sentire l’amore di Dio solo quelli che ti sostengono, che ti accompagnano e ti aiutano a crescere. Grazie per aver fatto questa domanda, perché è importante che voi, ragazzi e ragazze, da questa età, incominciate a capire queste cose, perché questo vi aiuterà a crescere bene e ad andare avanti.

Queste, le precise parole del papa Francesco a un ragazzo orfano, che ha perso sia la nuova mamma sia i nonni che si occupavano di lui, e che gli ha chiesto una risposta capace di lenire il suo dolore e la sua solitudine. Da parte nostra, non osiamo immaginare come deve essersi sentito quel ragazzino di dodici o tredici anni, quando il papa, il vicario di Cristo sulla terra e il capo della Chiesa cattolica, gli ha dato una simile risposta. Quel che possiamo dire è che noi, se ci fossimo trovati al suo posto, alla sua età e nella sua situazione, di sicuro non ne avremmo ricavato il benché minimo conforto e la benché minima consolazione; al contrario, ne avremmo ricavato un rinnovato dolore e una tristezza senza fine. Questo è il minimo che si possa dire. Ma le parole del papa sono lì, invitiamo chiunque a leggerle e rileggerle, con calma, tenendo però conto – come piace tanto a lui e ai suoi fedelissimi, specialmente al superiore dei gesuiti, padre Sosa – che è necessario contestualizzarle. Il papa non stava chiacchierando con una persona adulta, con un intellettuale, con un filosofo, e neppure con una persona che ha accumulato una grande esperienza di vita; stava parlando con un ragazzino delle scuole medie, e il pubblico era formato da altri ragazzini della stessa età; e a quei ragazzini, tuttavia, il papa parlava come se fossero delle persone adulte, benché, contraddicendosi, abbia ripetuto più volte: ora non potete capire, ma più tardi capirete. Ha parlato a quei ragazzini come se fossero state delle persone adulte, temprate dalla vita, capaci di riflettere con profondità di prospettiva sulla vita: e invece erano dei preadolescenti che, della vita, non sanno ancora quasi nulla; tranne il povero Tanio, che della vita ha conosciuto gli aspetti più drammatici, e che resta tuttavia un ragazzino, cioè un essere umano ancora sprovvisto della maturità necessaria perché gli si possa parlare come se fosse un uomo adulto, e dirgli: Il Signore non risponde!
Che cosa gli ha detto, dunque, il papa, in buona sostanza? Gli ha risposto con una raffica di domande alle quali ha detto di non saper rispondere; di più: ha detto che nessuno può rispondere; e poi, contraddicendosi, ha detto che un giorno capirà, ma, intanto, che deve diffidare di chi afferma di avere le risposte. E così facendo, tra l’altro, ha dato dei bugiardi e dei cialtroni a tutti quei sacerdoti, a quelle suore, a quei santi, a quei buoni cristiani i quali, invece, una risposta l’hanno data, a chi la domandava loro, e continuano a darla: certo, con le azioni concrete di misericordia e di bontà della loro vita, ma anche sul piano teologico.  Come si può pensare che Dio ami quei bambini e li lascia ammalati, li lascia morire, tante volte? Pensate a questa domanda: perché soffrono i bambini? Perché ci sono bambini nel mondo che soffrono la fame, e in altre parti del mondo c’è uno spreco tanto grande? […] Tanio, tu hai fatto questa domanda e non ci sono parole per spiegare. Soltanto, troverai qualche spiegazione – ma non del “perché”, ma del “para que” [“a che scopo”] – nell’amore di quelli che ti vogliono bene e ti sostengono. […]  quando mi faccio nella preghiera la domanda: “Perché soffrono i bambini?”, di solito la faccio quando vado negli ospedali dei bambini e poi esco – ti dico la verità – con il cuore non dico distrutto, ma molto addolorato, il Signore non mi risponde. Soltanto guardo il Crocifisso. Se Dio ha permesso che suo Figlio soffrisse così per noi, qualche cosa deve esserci lì che abbia un senso. Ma, caro Tanio, io non posso spiegarti il senso… Stupefacente; e triste, tristissimo. Il papa dice a un bambino orfano che non c’è la risposta alla sua domanda sul perché della sofferenza. Sarebbe la stessa cosa che gli avesse detto che il cristianesimo è un non-senso. Il senso c’è, invece; lo si vede e lo si può spiegare benissimo, anche a un bambino (ma accettare, quella è un’altra cosa!): ossia, guardare il Crocifisso. Ma non come lo guarda lui, che esce dall’ospedale dei bambini con il cuore semidistrutto e immensamente addolorato. No, non così. Il beato Luigi Tezza, del quale abbiamo parlato a suo tempo, e che ha dedicato gran parte della sua vita ad assistere gli ammalati, incominciava la sua giornata spalancando la finestra della cameretta sul corridoio dell’ospedale, nel quale trascorreva tutte le sue ore, respirando l’aria a pieni polmoni – aria impregnata di disinfettanti, di bende insanguinate, di lamenti e invocazioni dei malati. A chi gli chiedeva ragione di quell’abitudine così insolita, rispondeva: Respiro a pieni polmoni la grazia di Cristo! Altro che uscire dall’ospedale con il cuore a pezzi: chi prova un sentimento del genere, non crede veramente in Dio, nella sua bontà, nel suo amore. Ecco la spiegazione: che non è, certo, una spiegazione paragonabile a quella di un problema di matematica; ma è una spiegazione, eccome. E non è possibile dire che non c’è la risposta, che non si può spiegare perché esiste la sofferenza. Se si guarda bene il Crocifisso, la risposta arriva. E non è una risposta, balbettante e quasi incredula, come quella del papa: Se Dio ha permesso che suo Figlio soffrisse così per noi, qualche cosa deve esserci lì che abbia un senso. Non è un “qualche cosa” che, forse, chissà, da qualche parte deve pur esserci, ma noi non arriviamo a  comprendere; nossignori: è una realtà chiara ed evidente, altrimenti Gesù non avrebbe mai detto: Chi vuol venire dietro a me, prenda la sua croce e mi segua. Ciò significa che la sofferenza, e specialmente la sofferenza volontariamente assunta, in ogni caso assunta con fede, che, venendo da Dio, essa concorre al bene, ha un senso, e non già un senso interamente misterioso, perché a noi si rivela quanto basta a renderla tollerabile e perfino gradita - a tale altezza, infatti, giungono i santi -: essa è lo strumento per purificare l’anima, per liberarla dalle brame disordinate o dagli interessi e dalle preoccupazioni secondarie, e per giungere più vicino a Dio. Questa nozione non c’è, nel bagaglio teologico e pastorale del papa? Allora non è degno di essere papa: perché c’era in quello di umili sacerdoti e confessori, come Leopoldo Mandic e Pio da Pietrelcina.
Prendiamo quest’ultimo, per esempio: un uomo semplice, con poca istruzione, che non si è mai mosso dall’Italia, che non ha viaggiato, né conosciuto i potenti; non è mai stato arcivescovo, anzi, è stato costantemente perseguitato dalla Chiesa medesima fin dentro le mura del suo convento, calunniato, spiato perfino dentro il confessionale, profanando, oltretutto, il Sacramento della confessione; e che di sofferenza ne ha vissuta molta, non l’ha solo vista negli altri, visitando gli ospedali, come il papa: l’ha vissuta sulla sua pelle, con il miracolo delle stimmate, una sofferenza fisica atroce, sempre rinnovata; più la sofferenza morale della solitudine, dell’incomprensione dei superiori, della malevolenza degli invidiosi, e perfino gli attacchi e le tentazioni del demonio. Ecco cosa diceva della sofferenza, padre Pio da Pietrelcina, che nessuno, né il cardinale Coccopalmerio (quello il cui segretario, col quale diceva di lavorare fino a tardi, si stordiva, la notte, in festini a base di droga e sesso omofilo), né padre Sosa, o monsignor Paglia, o monsignor Galantino, avrebbero ritenuto degno di essere scelto, non diciamo come papa, ma neanche solo come priore del suo convento di frati cappuccini:

Anzitutto si accetta il dolore da Dio per riparare il passato, purificare l’anima e vincere ogni ripugnanza; poi si abbracciano patimenti con ardore e risolutezza, con la gioia di percorre con Cristo la via dolorosa, dal Presepio al Calvario. Si ammira, si loda, si ama ogni stato doloroso di Gesù: della povertà e dell’esilio, degli oscuri lavori della vita nascosta, dei faticosi travagli della vita pubblica e dei patimenti fisici e morali della lunga e dolorosa Passione. […]
Allora l’anima si sente più coraggiosa di fronte al dolore e alla tristezza, si stende amorosamente sulla nuda croce  accanto a Gesù, posa compassionevolmente lo sguardo su di lui e ode dal suo labbri: “Beati quelli che soffrono per amore della giustizia”. La speranza di partecipare sempre di più alla gloria con Cristo rende meglio sopportabile la crocifissione con lui, fino a rallegrarsi delle miserie e delle tribolazioni. Soffrire con Cristo è amarlo e consolarlo perfettamente. Diventano sempre più grandi il desiderio e l’amore alla sofferenza, quanto maggiori sono l’amore a Gesù e alle anime.

La neochiesa rifiuta la croce perché rifiuta Cristo

di Francesco Lamendola
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