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giovedì 18 gennaio 2018

Cattolici si resta!

Tommaso Moro: un vero christianus catholicus del suo tempo


(di Cristina Siccardi) Dopo san Giovanni Battista e san Giovanni Fisher, il terzo santo indicato a modello nella Professione delle verità immutabili riguardo al matrimonio sacramentale dei vescovi Tomasz Peta, Jan Pawel Lenga, Athanasius Schneider, è Thomas More (1478-1535), una personalità di grande levatura intellettuale e morale, che ha percorso un cammino di Fede e di apologetica capace di condurlo alla suprema testimonianza.

Quando ancora godeva del pieno favore di Re Enrico VIII, iniziò un trattato su morte, giudizio, Inferno, Paradiso dal titolo De novissima. L’opera espone dettagliatamente una decisione che l’autore registrò in margine al suo libro d’ore: «To make death no stranger to me» («Far in modo che la morte non mi sia straniera») e per il suo epitaffio, che stilò all’indomani delle sue dimissioni, scrisse: «Perch’io non tremi quando la morte s’avvicina, ma l’accolga gentilmente per amore del Cristo, fiducioso che per lui non sarà vera morte, ma la porta di una vita più felice».
Pur non essendo un santo popolare, l’avvocato londinese More, gran cancelliere d’Inghilterra, amico di Erasmo da Rotterdam, autore de L’Utopia, che versò il proprio sangue per l’unità romana della Chiesa contro le velleità divorziste di Enrico VIII, è una celebrità mondiale. Canonizzato nel 1935 da Pio XI insieme all’amico Cardinale John Fisher, vescovo di Rochester, decapitato quindici giorni prima di More, nel 2000 venne dichiarato patrono degli statisti e dei politici cattolici da Giovanni Paolo II.
Egli incarna la difesa della Chiesa di Cristo e di San Pietro contro Lutero prima e contro Enrico VIII dopo. Fin dal principio giudicò eretica la Rivoluzione (impropriamente detta Riforma) Protestante, vista come una minaccia all’unità sia della cristianità, sia della società civile. Fra le sue prime azioni contro il Luteranesimo ci fu il sostegno offerto al Cardinale Thomas Wolsey nel prevenire l’importazione in Inghilterra dei libri di Lutero. Fece spiare sospetti protestanti, specialmente editori, e arrestare chiunque possedesse, trasportasse o facesse commercio di libri riguardanti la “Riforma”.
Ostacolò vigorosamente tutti i ministri di culto che operavano nel Paese e che usavano la traduzione in inglese del Nuovo Testamento realizzata dallo studioso protestante William Tyndale (la cosiddetta Bibbia Tyndale), contenente traduzioni ambigue dei termini; per esempio, Tyndale utilizzava senior e non sacerdote, là dove era presente la parola greca presbyteros.
Ammesso al foro nel 1501, dotato di una prodigiosa capacità lavorativa, More unisce alla carriera di studente e poi di avvocato la frequentazione della letteratura greco-latina e dei Padri della Chiesa. Erasmo da Rotterdam trova in lui un amico, nonostante le profonde differenze fra il suo «cristianesimo critico» e il duplice impegno, politico e polemico-apologetico per la causa cattolica, dell’avvocato di Londra.
Erasmo gli dedica l’Elogio alla follia, ma poi le relazioni fra i due si deterioreranno: More impegnato nella difesa della dottrina cattolica, Erasmo nella denuncia di quelli che lui considererà errori del Cattolicesimo romano. Ma la «follia» per Cristo avanza sul serio nella vita di Thomas. Medita persino di prendere i voti religiosi. È attratto soprattutto dalla spiritualità dei Frati minori e per tale ragione si stabilisce nella Certosa di Londra, dove prega, digiuna, usa il cilicio e la disciplina.
Sceglie comunque la vita matrimoniale, che tuttavia condurrà in maniera monastica: lettura delle Sacre Scritture prima dei pasti; lunghi benedicite; orazioni della sera che si concludono con il De Profundis e il Salve Regina. Spiritualmente più monaco dell’ex monaco Erasmo, egli serve Dio da miles christianus in tutta una serie di compiti secolari. Rappresenta la città di Londra al Parlamento e nel 1523 la Camera dei Comuni lo sceglie come speaker.
Dal 1510 al 1518 è under-sheriff, ossia giudice nelle cause civili della capitale, che conquista a sé grazie alla sua imparzialità, al suo zelo cristiano e alla sua carità. Si trova al Campo del Drappo d’oro, nella vasta piana della Fiandre fra Ardres e Guînes, con Enrico VIII, l’intera corte d’Inghilterra e della Francia di Francesco I, quando, nel giugno del 1520, appare l’appello di Lutero Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca. Poi arriva il De captivitate babilonica Ecclesiae praeludium dell’eresiarca, opera confutata da Enrico VIII con l’Assertio septem sacramentorum del luglio 1521, compilata con l’assistenza del Vescovo John Fisher e dello stesso More.
Lutero replica con il Contra Henricum, scritto virulento e grossolano, e More pubblica di rimando, con lo pseudonimo di Guglielmus Rosseus, una Responsio ad Lutherum. Non pago di difendere i sacramenti punto per punto, incentra la sua attenzione sull’Istituto Sacro e Universale della Chiesa, segno visibile ed efficace della grazia perenne che la presenza dello Spirito Santo infonde nel corpo mistico di Cristo.
Alla formula Scriptura sola degli innovatori, egli contrappone la risposta data da Sant’Agostino ai manichei: «Quanto a me, non crederei nel Vangelo se non fossi mosso a farlo dall’autorità della Chiesa cattolica». Fissando il canone delle Scritture, è stata la Chiesa a scegliere fra il rivelato e l’apocrifo, perciò la Chiesa di Roma rimane l’arbitra per eccellenza, che trasmette il significato autentico della Scrittura, animata com’è dallo Spirito Santo, che ispirò gli scrittori sacri.
Difende, contro gli assalti di Lutero, le pratiche della religione popolare, il culto dei Santi, delle immagini, delle reliquie, dei pellegrinaggi, tutto quello, insomma, che appartiene alla Tradizione della Chiesa, perché ciò che è stato vissuto dall’intera cristianità a Oriente e a Occidente, approvato dai Papi, dai concili, dai Dottori e dai Santi da più di mille anni non può costituire un pericolo per la salvezza. Di fronte alle piaghe della cristianità, i protestanti ridefiniscono la Chiesa come una società di eletti che Dio solo conosce e allora More protesta contro questa «utopia»: dove andremo se Cristo ci ordina di far ricorso alla Chiesa? (cfr. Mt 18, 17).
 Polemista temibile, non si accontenta di somministrare l’antidoto al veleno che l’eresia ha distillato nelle anime, ma si fa consolatore e catechista. Non pretende di essere originale (è la Chiesa di Roma la protagonista non se stesso), per lui è essenziale muoversi in medio Ecclesiae: è ape operosa dell’alveare Chiesa. Saccheggia i due Testamenti e i Salmi, che conosce tutti a memoria; profitta delle edizioni erasmiane per studiare i Padri della Chiesa nel testo originale; frequenta amabilmente San Bernardo e Tommaso da Kempis. Lui, borghese sposato, è più clericale dei suoi amici teologi Erasmo e John Colet. Così, ai suoi occhi, la frase evangelica «Voi siete il sale della terra […] Voi siete la luce del mondo (Mt 5, 13-14) non riguarda tutti i battezzati, ma direttamente il clero».
Crede ai Novissimi e crede al Purgatorio, contro il quale si scagliano i riformatori. Alla sua pietà non può mancare la Vergine Santissima, a differenza della “Riforma”. Alle mogli dei rivoluzionari tedeschi e di Lutero stesso – in genere monache di clausura che hanno lasciato il velo – egli oppone le Sante della Chiesa, che con l’azione e con i loro scritti hanno segnato i secoli del Cattolicesimo: Ildegarda di Bingen, Brigida di Svezia, Caterina da Siena.
Fisher e More, amici in Cristo, subiscono lo stesso destino e la loro ferma opposizione a Lutero prima e alle scelte divorziste di Enrico VIII dopo, ne fa dei confessori della Fede. Poiché respingono l’atto con cui il Parlamento dichiara falsamente che la regina Caterina non è moglie, ma concubina, essi vengono perseguiti per alto tradimento dalla “giustizia” inglese e incarati il 17 aprile 1534 nella Torre di Londra, dove ha inizio un intenso carteggio fra di loro, ma ad un certo punto, per far cadere in trappola l’avvocato More gli viene detto che Fisher ha finalmente aperto gli occhi ed è pronto, come tutto il Regno, a prestare giuramento al supremo Capo della Chiesa, Enrico VIII.
Il dolore è immenso per l’ignaro More, tuttavia continua ad affermare l’autonomia della sua coscienza. Non tradirà il Vangelo. Scrive all’amata figlia Margareth: «In verità, Meg, grazie a Dio io non intendo inchiavardare la mia anima sulle spalle di un qualunque uomo, foss’anche il migliore che conosco fra quelli ancor oggi in vita, perché non so dove potrebbe portarla».
 Ha pregato, ha studiato, ha meditato prima di rifiutare il giuramento, prevedendo il peggio, ma «la mia coscienza è tanto chiara che trasalisco di gioia […]. Non faccio niente di male. Non dico niente di male. Non penso niente di male. E se questo non basta a che un uomo abbia il diritto di vivere, in fede mia, non ci tengo a vivere».
Il migliore specchio dell’anima di More, durante i quindici mesi di permanenza nella Torre, si profila proprio nelle lettere. Dà appuntamento in Cielo ai suoi familiari, ma anche ai suoi giudici: in Paradiso, dice, san Paolo e santo Stefano sono buoni amici, anche se il fariseo, prima della conversione, approvò la lapidazione del diacono. Una preghiera autografa, in margine al suo libro d’ore, riflette l’anelito alla santità: si considera un’apprendista nell’arte di amare Dio e chiede la grazia di applicarsi attivamente perché perdere tutto, vita compresa, non è sufficiente «for the winning Christ» («per guadagnare Cristo»).
Il freddo umido della cella, i continui crampi, l’angina pectoris si sommano al dispiacere del tradimento della Fede del Re e all’incomprensione di chi condivideva i suoi giorni. Ultimato, nella Torre, il Dialogo del conforto nelle tribolazioni, dedica la sua ultima opera alla Passione di Cristo. Il 1° luglio 1535, mentre viene portato dal tribunale alla Torre per attendere il supplizio dei “traditori”, Meg lo attende lungo il tragitto per riceverne la benedizione e, attraverso il cordone degli alabardieri, gettarsi al suo collo.
Nella lettera di addio del 5 luglio, vigilia del giorno del supplizio, fra due liste di commissioni da svolgere in suo nome, egli si rallegra con lei: «Non ho mai amato di più il tuo comportamento nei miei confronti di quando mi hai abbracciato per l’ultima volta, perché mi piace che l’amore filiale e la carità non si curino delle usanze mondane».
Meg, la migliore confidente del martire, assistette all’esecuzione, ottenne il permesso di preparare il corpo prima che fosse trasportato nella fossa comune della Torre e quindici giorni dopo, con il pagamento di un riscatto, convinse un ufficiale a lasciar cadere nel suo grembiule la testa esposta (sostituendo quella del Cardinale Fisher, gettata nel Tamigi) su di una picca, per un mese, sul London Bridge. Conservò una vertebra cervicale staccata dalla scure del boia e custodì, a suo rischio e pericolo, gli scritti della prigionia, altre reliquie delle ossa e il cilicio per testimoniare, anche ai posteri, che Thomas More era morto come Christianus catholicus. (Cristina Siccardi)
https://www.corrispondenzaromana.it/tommaso-moro-un-vero-christianus-catholicus-del-suo-tempo/

“PRETI DIVENTANO ANGLICANI…”


Papa Francesco? Fuga di massa dalla Chiesa: uno su dieci va a Londra a sposarsi

Tra i sintomi più preoccupanti della crisi del cattolicesimo non c’è solo la fuga dei fedeli dalle chiese e il mancato avvicinamento o la mancata conversione di nuovi credenti; ma c’è anche la rinuncia al proprio ministero da parte di tanti, tantissimi sacerdoti che – per ragioni personali, motivi dottrinali o un’insofferenza verso le gerarchie – si spretano, dismettono l’abito talare o approdano ad altre confessioni. Secondo le stime di alcune associazioni cattoliche in Italia, sono ben 5mila i preti che si sono dimessi su un totale di 50mila uomini con la tonaca. Un’erosione enorme.
Mentre la maggior parte torna alla vita laicale, alcuni di essi restano preti, ma sotto una nuova veste, quella della Chiesa anglicana.

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