ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 11 gennaio 2018

Devil's selfie

QUEL "DIAVOLO" DI UN GESUITA



Che ci sta a fare un gesuita che nega il diavolo: padre Arturo Sosa Abascal ha mai letto il Catechismo e se sì vuole riscriverlo lui? Come tutti i progressisti degni di rispetto è un arrogante per vocazione per natura e destino 
di Francesco Lamendola  


Eletto preposito generale della Compagnia di Gesù nell’ottobre del 2016, succedendo ad Adolfo Nicolás, non si può certo dire che padre Arturo Sosa Abascal  abbia tenuto quel che si dice un basso profilo: al contrario, gli son bastati pochi mesi per farsi conoscere ai quattro angoli del mondo. Nel febbraio 2017, nel corso di un’intervista a Giuseppe Rusconi, per il sito Rossoporpora, ha messo in dubbio che Gesù abbia mai insegnato l’indissolubilità del matrimonio, e ha pure messo in dubbio che i quattro Vangeli e gli altri libri del Nuovo Testamento riportino fedelmente le parole del nostro divino Maestro; motivazione: a quel tempo non esistevano i registratori, quindi la sua Parola non è mai stata riportata con precisione assoluta. A maggio, nel corso di una lunga intervista al giornale El Mundo, ha aggiunto, fra le altre cose, e sempre con la massima disinvoltura, come si potrebbe dire una cosa normalissima e perfino scontata, che il diavolo non esiste, essendo solo una immagine figurata del male.

Ora, l’esistenza del diavolo e della sua nefasta opera fra gli uomini non è affatto una questione di opinione personale: è parte integrante della fede cattolica. Sant’Ignazio di Loyola, il fondatore dei gesuiti, ci credeva, eccome; ci credeva san Pio da Pietrelcina, anche per averlo personalmente incontrato; e ci credeva, per la medesima ragione, il santo curato d’Ars, Jean-Baptiste Marie Vianney, che ne portava i segni sul suo corpo. Ci credevano grandi filosofi e teologi, come Sant’Agostino e san Tommaso d’Aquino; ci credevano sommi artisti cristiani, come Dante Alighieri e Giotto; ci credevano i Padri della Chiesa, e ci credevano gli Apostoli, come attestano le lettere di san Pietro, di san Giovanni, di san Paolo, eccetera. Ci credevano e ci credono migliaia di sacerdoti esorcisti, espressamente incaricati dai loro vescovi di amministrare il sacramentale dell’esorcismo. Ci hanno creduto anche scrittori moderni, come i cattolici Joris-Karl Huysmans e Léon Bloy, ma anche dei non cattolici, come il poeta Charles Baudelaire, al quale si deve il celebre aforisma: L’astuzia più grande del diavolo è far credere che non esisteCi credeva, quel che più conta, Gesù Cristo: perché, al di là delle Parole da Lui effettivamente pronunciate, i Vangeli ci tramandano una quantità di episodi nei quali Gesù si è incontrato, faccia a faccia, con il diavolo: dalle tentazioni nel deserto, a tutti gli indemoniati che ha sottoposto ad esorcismo, liberandoli infallibilmente, anche dove i suoi discepoli avevano fallito, e venendo riconosciuto perfettamente dal Maligno, al quale peraltro ordinava di tacere e di non rivelare ad alcuno la sua identità.
I gesuiti hanno sempre insegnato agli studenti, nelle loro scuole, che il diavolo esiste e che può vessare, ossessionare e possedere gli esseri umani. Uno dei loro studenti divenuti poi famosi, lo scrittore statunitense William Peter Blatty, scrisse il romanzo forse più famoso sull’argomento, L’esorcista, nel 1971, dal quale, due anni dopo, il regista William Friedkin ha tratto un film che, se non è fra i più belli, è sicuramente fra i più conosciuti al mondo. Il protagonista della storia è un giovane gesuita, padre Damien Karras, il quale, un po’ scettico all’inizio, finisce per credere in pieno all’esistenza del grande nemico, vedendo quel che è in grado di fare quando prende possesso di un corpo umano, in questo caso quello di una ignara ragazza dodicenne. Blatty (che è morto esattamente un anno fa, il 17 gennaio 2017), come si legge nella prima pagina del libro, ha dedicato la sua opera ai gesuiti, che mi hanno insegnato a pensare. Ma Blatty, newyorkese, classe 1928, apparteneva ad un’altra generazione; e i gesuiti che lo avevano guidato nel suo percorso scolastico appartenevano a una generazione ancora più remota. I gesuiti dei nostri giorni sono molto più moderni, spiritosi, gioviali, dinamici e pragmatici, coi piedi ben piantati in terra e poco propensi a sprecar tempo ed energie a lottare contro un nemico inesistente, come il diavolo. I gesuiti alla Sosa Abascal hanno ben altro da fare che insegnare a pensare, il che, in fondo, era la ragion d’essere del loro Ordine, così come lo aveva concepito il loro fondatore, se è vero, come è vero, che, per un paio di secoli, essi hanno istruito e formato la futura classe dirigente di mezza Europa.
Forse sono anche un tantino massoni – non tutti, naturalmente, ma un certo numero sì, senza alcun dubbio – e parecchio ambiziosi; sempre aggiornatissimi nell’ultimo grido della teologia modernista e sempre in prima fila nel “dialogo” col mondo, e specialmente con gli ambienti non cristiani e anticristiani della società e della cultura, come il defunto cardinale Carlo Maria Martini, il quale ha una cosa in comune con il (falso) papa Bergoglio, oltre al fatto di essere stato l’anima di quella “mafia di San Gallo” che, nel 2013, ha fatto il colpaccio di mettere un suo uomo sulla cattedra di san Pietro (dopo un primo tentativo andato a vuoto, nel 2005): il fatto palese che, in quanto gesuiti, né l’uno, né l’altro avrebbero potuto essere eletti, vescovo il primo, papa il secondo, perché ciò è in aperto contrasto con il loro statuto. E si ricordi che, alla sua scomparsa, il 31 agosto 2012, la massoneria lo ha onorato con questo comunicato: Salutiamo il nostro grande fratello deceduto; laddove solo una colossale ingenuità potrebbe leggere in quel “fratello” un appellativo di tipo cristiano, invece che la tipica qualifica dei “fratelli di Loggia”.
Ma vediamo, esattamente, quali sono state le parole del disinvolto padre Sosa al giornalista di El Mundo, poco più di sette mesi or sono:

Dal mio punto di vista, il male fa parte del mistero della libertà. Se l’essere umano è libero, l’uomo può scegliere fra il bene e il male. Noi cristiani crediamo di essere fatti a immagine e somiglianza di Dio, per cui Dio è libero, ma Dio sceglie sempre di fare il bene perché è tutto bontà. Abbiamo creato figure simboliche, come il diavolo, per esprimere il male. I condizionamenti sociali anche rappresentano questa figura, ci sono persone che agiscono così perché c’è un ambiente dove è molto difficile fare il contrario.

Padre Sosa ha mai letto il Catechismo? E se sì, vuole riscriverlo lui?

Ci sarebbero molte cose da dire sulle capacità di ragionare che si evincono da questo brano di prosa. Da un lato padre Sosa dice che l’uomo è libero, dall’altro afferma che, se si vive in certi ambienti, è “molto difficile” non fare il male. Poi dice che noi siamo fatti a immagine di Dio, quindi che Dio somiglia a noi, il che è un falso ragionamento, perché fra noi e Dio non vale la proprietà transitiva: noi siamo fatti a immagine di Lui, ma la sua natura e la sua essenza sono qualcosa d’infinitamente e incommensurabilmente più perfetto di noi. Inoltre il baldo gesuita asserisce che Dio è “tutto bontà”, come un Babbo Natale sempre sorridente e carico di pacchi regalo, o come un panettone farcito coi canditi e le uvette e stracarico di zucchero, confondendo (ma in quali seminari ha studiato, quali corsi universitari ha frequentato?) la “bontà”, che è cosa puramente umana, dunque imperfetta, con il “bene”, che è un concetto filosofico, e con il Bene, con la maiuscola, che è uno dei volti di Dio; senza rendersi conto che definire Dio “tutto bontà”, oltre alla grottesca associazione mentale con certi slogan consumisti (la Susanna tutta panna: qualcuno se la ricorda?) ignora che la qualità dell’essere buoni implica, per essere intelligibile, la qualità opposta, del poter essere malvagi; cosa evidentemente impossibile per ciò che si riferisce a Dio. E una tal cosa, per Lui, è impossibile per la precisa ragione che il Bene assoluto esclude la compresenza del male, come la luce esclude la compresenza del buio; compresenza che, invece, per gli uomini è non solo possibile, ma “normale”, nel senso che la natura umana è un impasto di bene e di male; dal che appunto si ricava che se noi somigliamo a Dio, per la parte di bene che in noi, Lui tuttavia non somiglia a noi, perché in Lui non è neppure concepibile alcunché di male. Infine quel “noi cristiani“, detto da padre Sosa, rivendica un’appartenenza e una identità che farebbe di noi tutti dei compagni di strada di costui: invece noi cristiani, che all’esistenza del diavolo crediamo, così come ci crede la vera Chiesa, e che crediamo, inoltre, che quanto riferiscono i Vangeli delle Parole di Gesù – con o senza registratore - è tutto vero, riteniamo di non avere un granché in comune con i tipi come lui, i quali in altri tempi si sarebbero chiamati “liberi pensatori” e non sarebbero stati considerati di certo dei cattolici, tanto meno li si sarebbe ritenuti degni e capaci di guidare in maniera appropriata e ispirata (ispirata da Dio, fino a prova contraria) uno dei più grandi ordini religiosi. Ma il punto centrale, ovviamente, è un altro: ossia la frivola, banale, superficiale negazione dell’esistenza del diavolo, data addirittura come cosa ovvia e non meritevole di alcuna ulteriore spiegazione, di alcun ragionamento. Come tutti i progressisti degni di rispetto, padre Sosa è un arrogante: arrogante per vocazione, per natura, per destino: disprezza duemila anni di Tradizione, legge le Scritture a modo suo e non si fa il minimo problema a dire cose contrarie alla dottrina e al Magistero; cose che sicuramente – e lo sa bene – non possono non suscitare turbamento, confusione, dolore in milioni e milioni di persone. E tutto questo senza uno straccio di argomentazione o di giustificazione: così, come di potrebbe dire in un salotto della buona società (perché padre Sosa è un figlio di papà, questo va tenuto presente; non viene dal mondo contadino, come un Pio X), fra un sorso di tè e un pasticcino:Sai, mio figlio si è iscritto all’università; oppure: A proposito, che colore andrà di moda, quest’anno? Come! Un sacerdote, un pezzo grosso della Chiesa, un’autorità spirituale di alto livello, che dichiara, con la massima nonchalance, oltretutto in un’intervista ad un giornale laico e non in una sede ecclesiale appropriata, che il diavolo è soltanto una figura simbolica, creata dall’uomo. Ma stiamo scherzando? Ma che razza di chiesa è, una chiesa che tollera simili affermazioni da uno dei suoi più insigni rappresentanti? E che razza di papa è, un papa che non fiata per correggere, per smentire, per rettificare, proprio lui che, altra volta, ha detto che il diavolo esiste davvero e che bisogna lottare contro di esso? Perché tace, Bergoglio, mentre padre Sosa dice simili eresie, quando non tace affatto allorché si tratta di rimbeccare il cardinale Sarah, che ha cercato di porre un argine ai disordini e agli abusi liturgici, o quando si serve perfino del discorso riservato agli auguri natalizi per sparare a zero contro i suoi oppositori, descrivendoli con parole di fuoco, traditori della sua fiducia, ingrati, superbi, proprio lui che non ha mai degnato d’una risposta i quattro cardinali dei dubia, e non ha mai degnato d’una spiegazione i frati e le suore dell’Immacolata, tenuti in ostaggio o spinti a lasciare il convento dopo quattro anni e mezzo di crudele persecuzione?
E allora, prendiamoci il disturbo di aprire il Catechismo della Chiesa cattolica e di vedere che cosa dice a proposito del diavolo (§§ 391-395):

Che ci sta a fare un gesuita che nega il diavolo?

di Francesco Lamendola
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  • IL MISTERO DEL MALE

Giuda all'inferno? Un dogma e due libri per chiarirlo

«Se il cielo è vuoto o il cielo è pieno, il giorno che che ci guarderemo si saprà», cantava Luciano Ligabue. Domanda legittima, alla quale c’è una risposta, granitica, data dalla Chiesa da almeno 2000 anni. Peccato che la stessa domanda ormai non la si faccia più per l’anti-Cielo, altrimenti detto Inferno, che negli ultimi tempi è diventato sempre più tabù: esisterà? E se esisterà, sarà mica vuoto? Colpa di una teologia che ha cercato di sbarazzarsi, riuscendoci almeno nella predicazione comune di molti pastori, dello stato di lontananza eterna da Dio nel quale sprofondano le anime che hanno scelto deliberatamente di rifiutare il suo Amore. 
A cominciare da quell’apostolo che per primo ci finì. O no? Se Giuda sia all’Inferno o no è argomento che appassiona da tempo i teologi e gli esegeti. A inserirsi in questo dibattito arriva ora un abate francese, Guy Pagès che ha dato alle stampe un libro intitolato “Giuda, è all’inferno?”, con sottotitolo: Risposte a Hans Urs von Balthasar e un accorato appello rivolto nientemeno che al Papa: quello di affermare un nuovo dogma, che dica sostanzialmente che attualmente ci sono numerose anime all’inferno, e quindi anche quella di Giuda. Sfida improba, ma forse necessaria da percorrere. 
Pagès è stato intervistato da François Billot de Lochner (qui la traduzione dell’intervista a cura di Claudio Forti) e il libro è interessante soprattutto per comprendere che quella dell’Inferno è una dottrina a tutto tondo, che dovrebbe essere recuperata anche nella predicazione con lo scopo della salvezza delle anime.
«Fino alla metà del XX secolo si era sempre professato che Giuda fosse all’inferno. Sia il Catechismo del Concilio di Trento, San Tommaso d’Aquino, i Padri, la liturgia, tutto faceva parte di questa credenza che Giuda era all’inferno. Ma oggi, invece, si sostiene di non saperlo. Tutto ciò deriva dal lavoro di Hans Urs von Balthasar, che ha influenzato tutti i teologi e i pastori della sua epoca», dice Pagès. 
Pagès ha voluto mostrare che Giuda invece è all’inferno. «Ce l’ha voluto rivelare lo stesso Nostro Signore Gesù Cristo. Affermare che l’inferno può essere vuoto è una contraddizione in termini, perché l’inferno in sé stesso è il deliberato rifiuto che l’uomo può dare a Dio per il dono della libertà da Lui ricevuto. Non c’è nessun inferno se nessuno rifiuta Dio. Dunque, parlare di inferno vuoto suppone perlomeno un rifiuto esistenziale dovuto alla libertà umana. Dunque, dire che l’inferno è vuoto è un non senso». 
L’abate ricorda che lo stesso «sant’Alfonso Maria de Liguori dice che “Dio ha creato l’inferno per essere amato”. Se non ci fosse l’inferno, chi amerebbe Dio?» e che «la ragione fondamentale per cui oggi la Chiesa si è tanto debilitata è dovuta al fatto che ha perso il senso di ciò che significa essere salvata. Quindi la verità del Vangelo è dire che se non ci convertiamo siamo tutti perduti e siamo destinati all’inferno». 
Non potevano mancare le apparizioni mariane, come Fatima, a dare manforte a questa verità: «All’inizio del XX secolo la Vergine Maria ha giustamente parlato anche dell’inferno, perché Ella sapeva che era necessario preservare quel dogma e che si doveva ricordarlo; che se i popoli non si fossero davvero convertiti sarebbero andati all’inferno. Se questa realtà è stata mostrata a dei bambini, vuol dire che voleva far sapere che cosa succede in quel luogo».
Poi l’accorato appello: «Chiedo al Papa nientemeno che la definizione di un nuovo dogma. Questo dogma sarebbe da estendere a tutta la cattolicità, e consisterebbe nel confessare, nell’affermare che attualmente ci sono numerose anime all’inferno, e quindi anche quella di Giuda. Che non si può essere cattolici se non si crede a tutto ciò». 
Ma quale sarebbe l’obiettivo di questo dogma? «Se il papa definisse questo dogma la vita della Chiesa ne uscirebbe completamente trasformata. Il guardare a ciò che noi possiamo evitare, e lo evitiamo se siamo in comunione con il Signore, è un mezzo per apprezzare in maniera maggiore il dono di Dio».
L’abate francese non è il solo che si è occupato recentemente del mistero di Giuda e dell’Inferno. Anche lo scrittore - e firma della Nuova BQ - Rino Cammilleri ha affrontato il caso dell’apostolo traditore da una prospettiva inedita e coraggiosa: un viaggio psicologico dentro il mistero di un uomo che non accettò che il messia dovesse essere diverso da come se lo era immaginato tutta la vita. 
Ne è uscito così Il mio nome è Giuda (La fontana di Siloe), l’ultimo romanzo storico dell’apologeta cattolico. «Non è che uno diventa traditore così di punto in bianco – ha spiegato Cammilleri al mensile Il Timone che lo ha intervistato nel numero di gennaio attualmente in distribuzione agli abbonati – e questo mistero mi ha sempre intrigato. Perché tradisce? Che cosa lo porta a scatenare l’evento della crocifissione?”. 
Cammilleri si è affidato alle ricostruzioni storiche più attendibili che si trovano sulla figura di Giuda. Anzitutto i Vangeli, ma anche la Vita di Gesù Cristo dell’abate Ricciotti e Giuda, l’enigma del male di Nicolas Grimaldi (Sei) e soprattutto L’assemblea che condannò il messia. Storia del Sinedrio che decretò la pena di morte di Gesù, libro scritto da Augustin e Joseph Lèmann, due fratelli ebrei convertiti al cristianesimo. 
“Giuda - ha detto Cammilleri - cercava questo messia come ragione di vita dato che apparteneva ad una classe d’elite del popolo di Israele, nata per consacrarsi fin dalla nascita al futuro messia. Ecco perché vedere il suo comportamento così diverso lo mette ko”. Dopo pagine e pagine di dubbi, Giuda capisce che c’è qualche cosa in Gesù che non collima con quello che aveva presunto di sapere per tutta la vita del messia: perché dovrà morire in croce? Che storia è mai questa di un regno che non è di questo mondo. E allora che cosa ho aspettato io tutta la vita? Eppure ha un fascino straordinario, compie miracoli, è davvero un personaggio unico. Che fare? Il suo cuore si fa oscuro, di pietra, inizia a pensare a come sistemare la faccenda. Ma è angosciato nel dubbio: è lui il messia o no? 
L’unico modo che aveva per chiarirlo era metterlo davanti al Sinedrio, così avrebbe potuto chiarire tutto. “Così potrà far vedere che è lui il vero messia oppure no, che è soltanto uno dei tanti impostori”, pensò. Il resto è storia nota. E qui inizia la sua vera dannazione. Giuda si suicida perché non accetta che quel tradimento sarebbe stato perdonato, come accadde poi per Pietro. E si avvia così in quel fondo oscuro dal quale potè vedere la conclusione terrena di Gesù per poi essere definitivamente immerso in un gelido buio. Nel quale maledire per sempre se stesso.
http://www.lanuovabq.it/it/giuda-allinferno-un-dogma-e-due-libri-per-chiarirlo

Inferno o Paradiso? Siamo noi a decidere

Michelangelo,_Giudizio_UniversaleSempre di più si sta diffondendo fra i credenti l’errata convinzione che dopo la morte intervenga una benevola misericordia di Dio che abbuona i peccati commessi e assolve tutti senza distinzione, così che i Novissimi da quattro di fatto sono diventati due, Morte e Paradiso, parendo forse agli incauti che il Giudizio e l’Inferno non siano compatibili con la bontà di Dio.
In realtà le Sacre Scritture e le molte testimonianze di Santi e Dottori della Chiesa ci mostrano la drammatica verità della condizione miserevole dell’uomo di fronte ad un Dio, giudice della sua vita, pronto sì a perdonare, ma a certe condizioni ben precise.
Poiché qui si richiamano anche varie rivelazioni private, occorre premettere che se è vero che queste non possono aggiungere nulla alla Rivelazione di Cristo, che si è conclusa con la morte dell’ultimo Apostolo, tuttavia, come affermato dal card. Ratzinger nella premessa alla pubblicazione delle Norme per procedere al loro discernimento, “Una rivelazione privata può essere un valido aiuto per comprendere e vivere meglio il Vangelo nell’ora attuale; perciò non la si deve trascurare.”
Quando poi tali rivelazioni private sono riconducibili a mistici canonizzati dalla Chiesa e non contraddicono le Scritture possiamo accoglierle come provenienti veramente da Nostro Signore che con esse ha voluto farci chiarezza sulle verità della nostra fede.
Ciò posto, leggiamo nel Diario di Suor Faustina Kowalska quanto le riferì di se stesso Gesù: “Sono tre volte santo e il più piccolo peccato mi fa orrore … Non posso amare un’anima macchiata dal peccato, ma quando si pente, la Mia generosità non ha limiti verso di lei. Dì ai peccatori che nessuno sfuggirà alle Mie mani. Se fuggono davanti al Mio Cuore misericordioso, cadranno nelle mani della Mia giustizia.”
E’ però nel “Dialogo della Divina Provvidenza” di S. Caterina da Siena che scopriamo cosa avviene esattamente al momento della nostra morte. Infatti il Signore le fa conoscere che nel trapasso c’è un momento, pochi attimi prima che l’anima si stacchi dal corpo, in cui ognuno vede chiaramente il proprio stato e se una persona ha lasciato la vita di grazia per rotolarsi nei peccati, abbandonandosi alla sensualità e alla superbia fino a perdere completamente la coscienza della sua reale condizione spirituale, a quel punto subentra la disperazione della salvezza.
Se quell’anima avesse la capacità di pentirsi delle offese che ha arrecato al Creatore e invocasse la sua misericordia forse ancora potrebbe salvarsi, invece essa, rendendosi conto di meritare il castigo eterno, si dispera unicamente per la sua triste sorte ma, così facendo, offende maggiormente e ancora una volta Dio.
Infatti, anziché affliggersi per non aver corrisposto all’infinito amore di Nostro Signore e domandargli perdono e misericordia per le ingiustizie commesse nei suoi confronti, si addolora solamente per la punizione che comprende di meritare.
Tale superba disposizione dell’anima provoca la giustizia di Dio, che in quel momento la condanna alla dannazione eterna. Ma è pure essa stessa che, con il suo libero arbitrio “non aspetta nemmeno di essere giudicata bensì con disperazione e con odio si allontana da questa vita per raggiungere il luogo meritato, e ciò prima ancora che l’anima si stacchi dal corpo”
“Il disprezzo della misericordia divina è un peccato che non viene perdonato né in terra né in Cielo – spiega Dio a S. Caterina – cosicché lo reputo il più grave di tutti i peccati.” E continua affermando che per quanto riguardò Giuda tale peccato fu peggiore del suo tradimento.
Il motivo per cui un’anima, pur trovandosi in così grave pericolo, non è capace di affidarsi alla sua misericordia il Signore lo chiarisce a proposito dei sacerdoti infedeli, la cui fine è ugualmente drammatica perché, non essendo avvezzi a farvi ricorso, non sono capaci di invocarla, e solo quei pochi che vi riescono si salvano.
Nel trattato “Apparecchio alla morte” di S. Alfonso Maria de Liguori troviamo alcune considerazioni che avvalorano quanto riportato dalla Santa di Siena.
Si domanda egli infatti: “Ma i mondani, come mai vivendo tra’ peccati, tra’ piaceri terreni, e tra occasioni pericolose possono sperare una felice morte? Dio minaccia a’ peccatori che in morte lo cercheranno e non lo troveranno: «Quaeretis me, et non invenietis» (Is 55,6). Dice che allora sarà tempo non di misericordia, ma di vendetta. “Ego retribuam in tempore” (Dt 32,35).
E nel citare S. Giovanni, riguardo alle parole di Gesù Voi mi cercherete, e non mi troverete, ma morirete nel vostro peccato, S. Alfonso commenta: “È vero che in qualunque ora si converte il peccatore Dio ha promesso di perdonarlo; ma non ha detto che il peccatore in morte si convertirà; anzi più volte si è protestato che chi vive in peccato, in peccato morirà. Ha detto che chi lo cercherà in morte, non lo troverà. Dunque bisogna cercare Dio, quando si può trovare: “Quaerite Dominum, dum inveniri potest” (Is 55,6).
Però, quasi a consolazione, aggiunge un pensiero di S. Geronimo: “Di centomila peccatori che si riducono sino alla morte a stare in peccato, appena uno in morte si salverà”
Non dà invece nessuna speranza S. Vincenzo Ferrerio il quale dichiara: “Sarebbe più miracolo che uno di questi tali si salvasse, che far risorgere un morto. Che dolore, che pentimento vuol concepirsi in morte da chi sino ad allora ha amato il peccato?”
Anche S. Paolo, nella lettera ai Galati, è dello stesso avviso: “Non vi fate illusioni; non ci si può prendere gioco di Dio. Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato. Chi semina nella sua carne, dalla carne raccoglierà corruzione; chi semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna.”
Commenta S. Alfonso: “Sarebbe un burlare Dio vivere disprezzando le sue leggi, e poi raccoglierne premio e gloria eterna; ma Deus non irridetur”.
Sono molte e dettagliatamente esposte le terribili pene a cui vanno incontro i dannati, la prima delle quali è la privazione della vista del Signore, il cui volto nemmeno alla Resurrezione dei morti, quando Egli si presenterà in tutto il suo fulgore di Re e Giudice, potranno guardare se non in forma offuscata e tremenda, al contrario dei giusti, che a tale visione gloriosa esulteranno di gioia.
Altrettanto ben descritte sono le meraviglie che attendono in Cielo quelli che si salvano, come anche le gioie che vivono i beati in Paradiso, mentre coloro che sono arrivati dinnanzi a Dio in stato di grazia imperfetta otterranno la misericordia della purificazione in Purgatorio.
Conviene quindi star sempre pronti con le lampade accese per non imitare le vergini stolte (Mt 25, 1-12) affinché possiamo essere come quelli di cui nell’Apocalisse sta scritto “Beati i morti che muoiono nel Signore.” (Ap  14,13)

Paola de Lillo

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