Si deve combattere "la buona battaglia". La Verità e l'errore non stanno sullo stesso piano ontologico: opinare "come se fossero equivalenti", sarebbe un abbandonarsi al "relativismo", un tradimento verso la Verità che è Dio
di Francesco Lamendola
Abbiamo detto, in più occasioni, che la vita è una guerra del bene contro il male e che il vero cristiano non è un pacifista, bensì un uomo di pace, ma nel senso che Gesù dà a questa parola: mai una resa unilaterale davanti al mondo. Il concetto si può esprimere così: per il cristiano, tutta la vita, dalla fanciullezza alla morte, non è che un’unica, buona battaglia; una battaglia che deve essere combattuta, perché rifiutarsi di combattere è la stessa cosa che aprire le porte al nemico e permettergli di compiere ogni sorta di malvagità, non solo contro i cristiani, ma contro tutti gli uomini, dal momento che il nemico, anche se lusinga e accarezza i peggiori vizi dell’umanità, in realtà ha un solo scopo: trascinarli tutti alla perdizione. Anche da ciò si vede il grado di follia e di infedeltà di quei pastori, di quei vescovi, i quali, disobbedendo alle stesse leggi della Chiesa, rifiutando di nominare, nelle loro diocesi, dei sacerdoti esorcisti: è come se consegnassero le anime dei fedeli nella bocca del demonio. E da ciò si vede la gravità inaudita e il danno incalcolabile che hanno provocato le parole di Sosa Abascal, il generale dei gesuiti, a proposito della inesistenza del diavolo, da lui ridotto a un mero simbolo del male. Anche in quel caso, è come se le anime fossero state ingannate e spinte in una situazione di estremo pericolo, proprio da colui che ha ricevuto la sacra missione di difenderle sempre, a ogni costo: anche a costo della sua stessa vita. Ma si tratta, evidentemente, di falsi pastori e di falsi sacerdoti: perché un vero sacerdote non direbbe e non farebbe mai cosa alcuna che possa mettere in pericolo le anime affidategli dalla pietà divina, né si macchierebbe di un così abominevole tradimento verso Gesù Cristo. Il quale, con i demonio, non scherzava: né quando metteva in guardia contro le sue male arti, né quando esorcizzava i posseduti. Ma Gesù, evidentemente, non aveva letto i libri di teologia della svolta antropologica, non era stato illuminati dallo spirito del Concilio Vaticano II e resta legato a delle forme di religiosità popolare, diciamo un po’ superstiziosa: non aveva le sottili finezze intellettuali di un Sosa, di un Kasper, di un Rahner. E nemmeno la misericordia di un Bergoglio…
Insomma, a dirla in breve, e a dirla tutta, il cristiano deve essere un guerriero: un guerriero mite, ma non disarmato; fiducioso, ma non ingenuo; pacifico, ma non pacifista; benevolo, ma non buonista; arrendevole, ma solo per ciò che riguarda il suo ego: per ciò che riguarda le cose di Dio, deve essere, al contrario, deciso e intransigente. Lo chiameranno fanatico? Non ci farà caso; lui sa cos'è il fanatismo: è credere in qualcosa in maniera irragionevole e ottusa; ma lui non crede in qualcosa, crede nella Verità stessa; e non ci crede in maniera irragionevole, bensì secondo ragione, fin dove la ragione può legittimamente arrivare; né considera l'intransigenza un difetto, se si applica a ciò che è essenziale. La Verità è essenziale: l'uomo non può vivere al di fuori di essa; o meglio, non può vivere bene lontano da essa. Ma la Verità è Dio, e non un dio qualunque, ma il Dio verso il quale tutto converge, la ragione naturale e la Rivelazione soprannaturale: il Dio annunciato da Gesù Cristo e impersonato in Gesù Cristo: Chi ha visto me, ha visto il Padre. Inoltre, il cristiano sa perché la sua coerenza e la sua combattività danno tanto fastidio: perché sono in contrasto con lo spirito del mondo, che è spirito di accomodamento il quale non scaturisce da benevolenza e generosità, ma da egoismo, pigrizia e desiderio di non essere disturbati dagli altri. Io non disturbo te e tu non disturbare me, anche se io e te facciamo delle cose ignobili. Ma il cristiano non accetterà mai di entrare in un tale ordine di idee. Per il cristiano, la Verità e l'errore non stanno sullo stesso piano ontologico: opinare ed agire diversamente, cioè come se fossero equivalenti, sarebbe un abbandonarsi al relativismo e al soggettivismo, cioè un tradimento verso la Verità, che è Dio. E il cristiano non scherza con le cose di Dio: le prende molto, ma molto sul serio. Di conseguenza, prende sul serio anche le cose che si oppongono a Dio; e la prima di esse è l'azione nefasta esercitata dal demonio, sia individualmente, sulle anime, sia collettivamente, e sull’insieme della storia umana.
Ecco perché il cristiano non può tollerare un sacerdote che dice: Il diavolo non esiste; ecco perché non può tollerare un vescovo che dice: Io non voglio esorcisti nella mia diocesi. Entrambi vanno contro la Verità e contro la carità dovuta al prossimo: perché ingannare le anime su cose di tale importanza equivale a gettarle in una condizione di estremo pericolo. L'uno e l'altro hanno peccato direttamente contro Dio: perché la Verità è Dio e Dio è la Verità; e perché ingannare le anime riguardo alla salvezza vuol dire infrangere la più importante delle tre virtù teologali: la carità. Entrambi andrebbero cacciati dalla Chiesa cattolica a pedate nel sedere: non un prete come don Minutella, il quale, pur con i suoi limiti, non ha insegnato alcuna dottrina falsa e pericolosa, ma quel sacerdote e quel vescovo, i quali sono venuti meno al comandamento fondamentale: l'amore verso Dio e verso il prossimo. Forse l'arcivescovo di Palermo, che ha cacciato dalla sua parrocchia don Minutella e, pare, lo ha sospeso a divinis, avrebbe fatto meglio, fra un giro in bicicletta e l'altro all'interno della sua cattedrale, a riflettere che Dio può perdonare qualunque peccato, ma, per bocca di Gesù Cristo, sappiamo che non perdona il peccato contro lo Spirito Santo. Ma quell'arcivescovo non solo non ha fatto una simile riflessione: non ha neppure voluto incontrare i parrocchiani della chiesa di San Giovanni Bosco, che gli chiedevano un colloquio dopo la sospensione del loro parroco. La "chiesa della misericordia" sempre più rivela il suo vero volto: altro che ponti, altro che dialogo, altro che apertura: i ponti, il dialogo e le aperture sono sempre e solo per i nemici della vera Chiesa, per gli abortisti, gli immigrazionisti, gli omosessualisti: per i veri cattolici non c'è misericordia, non c'è ascolto. Ci sono le aule di tribunale, perché codesti signori sempre più spesso ricorrono alle querele e alle azioni legali per zittire qualunque dissenso. In linea con il loro grande ispiratore e supremo modello, del resto, il falso papa Bergoglio: il quale ha dato l'esempio ignorando i dubia dei quattro cardinali su Amoris laetitia, e ignorando anche la loro richiesta, inoltrata personalmente da Caffarra, di una udienza privata; e il quale non si abbassa a spiegare ai Francescani e alle Francescane dell'Immacolata per quale ragione li stia trattando, da più di quattro anni, come degli appestati, dei sovversivi, dei potenziali delinquenti. Il tutto mentre si pavoneggia nelle piazze, sugli aerei, nelle chiese e perfino nei conventi di clausura, portando ovunque il suo sfrenato narcisismo, la sua smania di apparire, la sua risata sguaiata, il suo gusto per la battuta grossolana, e qualche volta anche irriverente o blasfema, che strappa, però, l'applauso del mondo. Perché il mondo gode di vedere sul soglio di san Pietro un tale "papa"; il mondo gode di tutto ciò che porta scandalo, turbamento e confusione dentro la Chiesa, perché ciò la indebolisce e la rende meno credibile, perciò anche più vulnerabile ad ulteriori, futuri attacchi. Il mondo odia la Chiesa perché essa custodisce il Deposito della fede, e il Deposito della fede custodisce la Verità. Il mondo odia la Verità, come ha predetto con estrema chiarezza Gesù Cristo (Gv, 15, 18-19): Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia.
Ora, se il cristiano sa che la vita è una milizia, e se sa che la sua battaglia non è solo contro delle forze umane, ma anche contro gli spiriti del male, non si meraviglia di incontrare l'incomprensione e la disapprovazione del mondo; non si meraviglia delle maldicenze, delle denigrazioni, delle calunnie; non si meraviglia se proprio coloro i quali dovrebbero sostenerlo, consigliarlo, incoraggiarlo, lo attaccano, lo condannano, lo svillaneggiano e lo umiliano pubblicamente. Non hanno trattato così anche Gesù? Il quale ha anche detto (id., 20-21): Ricordatevi della parola che vi ho detto: Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra. Ma tutto questo vi faranno a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato.
E il cristiano sa che la buona battaglia va combattuta comunque, e che egli ne uscirà sempre vincitore, perché Dio sarà sempre accanto a lui e non accanto ai suoi falsi seguaci, tutti protesi a trovare un comodo compromesso con il mondo, cioè - per parlare chiaramente - con le forze del male; e che, per riuscirci, devono per prima cosa sacrificare i testimoni della Verità, i quali sono divenuti simili a delle pietre d'inciampo sul loro perverso cammino di apostasia e di tradimento. Rileggiamo quel che dice di sé san Paolo, giunto quasi alla fine della sua vita (2 Timoteo, 4, 6-18):
Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione. Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Non se ne tenga conto contro di loro. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché per mio mezzo si compisse la proclamazione del messaggio e potessero sentirlo tutti i Gentili: e così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi salverà per il suo regno eterno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.
Chi combatte la buona battaglia sa di non doversi aspettare aiuto o sostegno dagli uomini, nemmeno dai cosiddetti cristiani, molti dei quali, anzi, saranno i primi ad attaccarlo, e i più maligni a godere delle sue sofferenze. Non importa. Egli confida in Dio, giusto giudice, che è la Verità: è da Lui che riceverà la sua ricompensa, in Lui che troverà il premio e la pace.
Si deve combattere la buona battaglia
di Francesco Lamendola
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L’importanza salvifica della Regola della Fede
La Dottrina non genera odio. Sia l’esperienza che la ragione ci dicono che verità e amore stanno insieme e che verità e libertà sono concetti gemelli, mentre invece menzogna e odio, ideologia e violenza, compongono una nefasta alleanza. Affermare il cristianesimo come dogmatico significa dire che esso è fondato sull’autorivelazione storica di Dio. Significa dire che il Verbo fatto carne ci ha trasmesso la pienezza della verità e della vita.
Qual è l’importanza della dottrina cristiana per la vita dei fedeli? Alcuni teologi e vescovi presentano un’idea della dottrina che assomiglia fortemente a ciò che propone il filosofo italiano Gianni Vattimo nel suo libro intervista Verità o fede debole? Dialogo su cristianesimo e relativismo. In quest’opera, il noto pensatore post-moderno esorta la Chiesa cattolica ad abbandonare le affermazioni veritative che essa collega alla fede. Nell’ottica di Vattimo, le verità assolute sono fonte di conflitto e di violenza, mentre invece la vera forza del cristianesimo si trova nella pratica della carità. La famosa affermazione di Aristotele Amicus Plato sed magis amica veritas - Platone è un amico ma la verità è la più grande amica - dovrebbe quindi essere cancellata. È possibile per la Chiesa seguire le indicazioni di Vattimo? È pensabile che la confessione di verità di fede specifiche non sia più necessaria alla salvezza? Oppure c’è una regula fidei - una regola della fede - che contiene il nucleo delle verità rivelate e che tutti i cristiani devono confessare per porsi nel giusto rapporto con Dio e con il prossimo?
La tesi di Vattimo non è né originale né ragionevole. Nel suo Storia naturale della religione (1757), il filosofo scozzese David Hume - in accordo con altri pensatori scettici e agnostici di origine inglese e francese - ha affermato che sulla pretesa cristiana di una verità assoluta gravava la colpa delle devastanti guerre civili che si erano combattute in Gran Bretagna e in Francia. Secondo lui, per trovare una base di una coesistenza pacifica e tollerante tra persone di diversa provenienza, era necessario orientarsi verso un tipo di cristianesimo ridotto alle opere di carità oppure ad una religione e ad una moralità naturali che non si appellavano a nessuna rivelazione soprannaturale. Secondo questa prospettiva, Gesù incarnava l’amore. Egli ha pensato e vissuto una moralità di autentica bontà umana. I dogmi della Chiesa sono considerati come costrutti mentali che permettono al clero di difendere e accrescere il proprio potere. Per i sostenitori di questa opinione, Gesù voleva un cristianesimo libero dai dogmi - ed è precisamente questo tipo di cristianesimo che corrisponde alle esigenze del nostro tempo. Secondo questa prospettiva, oggi abbiamo bisogno di un umanesimo senza metafisica, senza rivelazione, e senza una moralità ostile alla vita. All’inizio del movimento ecumenico, prima e dopo la Prima Guerra Mondiale, veniva spesso menzionato il seguente motto: “La dottrina separa, la vita unisce”.
Più recentemente, l’egittologo Jan Assmann ha portato avanti la tesi che la fede biblica nell’unico Dio aveva soppresso la tolleranza propria del politeismo (cf. The Price of Monotheism). Egli sostiene che il monoteismo per sua natura ammette solamente la confessione nell’unico Dio di Israele, così da reprimere il culto delle altre divinità - insieme ai loro adoratori, se necessario. Eppure si potrebbe domandare se l’identificazione del monoteismo con la violenza e del politeismo con la tolleranza resista ad una verifica empirica. I fatti storici parlano una lingua completamente diversa. Si considerino, per esempio, le persecuzioni che gli ebrei hanno subito a motivo della loro fedeltà all’unico Dio e Creatore di tutto. Il martirio dello scriba Eleazaro e dei sette fratelli (2 Mac 6, 18- 7, 42) è appena un esempio. Lo stesso vale per le persecuzioni dei cristiani sotto l’Impero Romano nel corso dei primi tre secoli del cristianesimo. Ai nostri giorni, ogni anno migliaia di cristiani nel mondo testimoniano con le loro vite la verità che l’amore di Dio è più forte dell’odio del mondo. Essi sono martiri della verità, la verità che è Dio stesso e che si fonda in lui. Chiunque, di fronte alla sofferenza e alla morte dei martiri, affermi che il nuovo monoteismo e la loro confessione di Cristo sia una sorgente di violenza, dimostra un grado di sconsideratezza, che arriva a disprezzare l’umanità. L’accusa che la fede nella verità di un unico Dio implichi una propensione a ricorrere alla violenza, è in se stessa un’espressione di violenza mentale, che in Occidente porta all’aggressione verbale contro i cristiani devoti.
Ma l’identificazione del monoteismo con la violenza non risulta carente solamente nel confronto con una verifica empirica. Essa contraddice anche la logica basilare. La violenza è il solo strumento che la verità non può usare per farsi riconoscere. Dopotutto, la verità è volta alla conoscenza, che si realizza solo quando la verità è liberamente accolta dalla ragione. Pertanto, per aiutare qualcuno a raggiungere questa conoscenza – per aiutare qualcuno a pervenire alla conoscenza della verità - non è possibile ricorrere alla violenza, ma si devono utilizzare argomenti razionali che cercano di convincere. La verità può essere denunciata come una sorgente di violenza solamente quando si arriva ad affermare in modo apodittico che il relativismo è la sola posizione corretta da tenere di fronte alla verità, che in ultima analisi è inconoscibile.
È invece la menzogna, nella misura in cui non riesce a prevalere con la forza dell’argomentazione, che necessariamente dà origine alla violenza o al rischio della violenza. Oltre a ciò, ci può essere l’attrattiva dei beni mondani a sedurre il credente ad allontanarsi dalla vera fede. Parlando all’ultimo dei fratelli Maccabei, “il re esortava… non solo a parole, ma con giuramenti prometteva che l'avrebbe fatto ricco e molto felice se avesse abbandonato gli usi paterni, e che l'avrebbe fatto suo amico e gli avrebbe affidato cariche” (2 Mac. 7, 24). Questa scena è attinente ai problemi attuali, come lo è la reazione del tiranno di fronte alla fedeltà di un vero israelita: “Il re, divenuto furibondo, si sfogò su costui più crudelmente che sugli altri, sentendosi invelenito dallo scherno” (2 Mac. 7, 39). Come negli ultimi giorni Gesù non aveva minacciato i suoi persecutori, ma aveva pregato per loro mentre pendeva dalla croce, così anche qui possiamo riconoscere il frutto non violento di ogni martirio: “Così anche costui passò all'altra vita puro, confidando pienamente nel Signore” (2 Mac 7, 40).
I critici più acuti delle ideologie totalitarie (come George Orwell in La Fattoria degli animali, Alexander Solzhenitsyn in Arcipelago gulag, o Eugene Kogon in Der SS-Staat) hanno rintracciato il fallimento degli stati particolarmente violenti, come l’Unione Sovietica o la Germania nazista, nelle menzogne sulle quali essi erano edificati. In questi sistemi, la solidarietà con i membri della stessa classe o etnia aveva più valore della verità e del rispetto per la nostra comune umanità. Mielke, Ministro della Sicurezza di Stato della Repubblica Democratica Tedesca, che fu responsabile di centinaia di esecuzioni presso il Muro di Berlino, dovette affrontare domande cruciali nel primo parlamento democraticamente eletto dopo la caduta della Cortina di ferro. Cercando di scusarsi per i suoi misfatti, aveva balbettato: “Ma io vi amo tutti”.
Sia l’esperienza che la ragione ci dicono che verità e amore stanno insieme e che verità e libertà sono concetti gemelli, mentre invece menzogna e odio, ideologia e violenza, compongono una nefasta alleanza. La primordiale esperienza della verità di Dio da parte di Israele è legata alla sua liberazione dal potere di Faraone. Il popolo viene liberato da Dio, il quale fa un’alleanza con lui. Il Dio del monte Sinai, che rivela la verità su di sé dicendo: “Io sono colui che sono” (Es. 3, 14), è anche il Dio dell’esodo, che libera il suo popolo: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù” (Es. 20, 2).
Colui che ha creato tutti gli esseri umani vuole anche salvare tutti gli esseri umani. “Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti” (1 Tim. 2, 5-6). Dio non è il dittatore prepotente del Cielo che esige una cieca obbedienza, ma il nostro Salvatore, “il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1 Tim. 2, 4). E i suoi apostoli non vengono come propagandisti di una dottrina terrena di salvezza “con eccellenza di parola o di sapienza” (1 Cor. 2, 1), ma come “ministri della Parola” (Luca 1,2), come i suoi “testimoni fino agli estremi confini della terra” (Atti 1,8), come predicatori e maestri dei gentili “nella fede e nella verità” (cf. 1 Tim. 2, 7).
La verità di Dio in Cristo e nella sua Chiesa resta il fondamento e la sorgente dell’amore di Dio e del prossimo, un amore che è il compimento di tutta la legge. Platone era nel giusto quando subordinava la sua venerazione per Omero alla verità (Repubblica 595bc), e Aristotele applicava questo principio allo stesso Platone, suo maestro (Etica nicomachea 1096a). La sentenza criticata da Vattimo resta irrevocabilmente in vigore: Amicus Plato sed magis amica veritas. Qualsiasi distorsione della relazione tra simpatia soggettiva e verità morale viene esclusa.
L’indicazione di Vattimo alla Chiesa cattolica nasconde una tentazione diabolica che promette un successo solo apparente: se vuoi entrare in contatto con le persone ed essere amato da tutti, fai come Pilato, lascia da parte la verità ed evita la Croce! Gesù avrebbe potuto evitare la morte se solo fosse rimasto concentrato sul suo messaggio relativo all’amore incondizionato del Padre celeste. Perché opporsi al diavolo, il vero sovrano di questo mondo, il “padre della menzogna” e “omicida fin dal principio” (cf Gv. 8, 44)? Cristo stesso è responsabile della sua morte, e la Chiesa non avrà nessuna prospettiva in questo mondo se non seguirà il sentiero della sapienza e del potere mondano! Possiamo rispondere a questa tentazione con la Sacra Scrittura, che ci ricorda il vero messaggio evangelico: “Dio è luce e in lui non ci sono tenebre. Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in pratica la verità” (1 Gv. 1, 5-6). Noi crediamo in Gesù e lo seguiamo perché egli è la Verità. In quanto Verità-in-persona egli costituisce il fondamento e il criterio di ogni verità. Coloro che appartengono a Dio e dimorano in Cristo “conosceranno la verità” e la verità li renderà liberi (cf. Gv. 8, 32). San Giovanni Paolo II disse che se avesse dovuto scegliere di conservare un solo versetto del Vangelo, avrebbe scelto questo.
Quale, allora, l’errore fondamentale dello scetticismo metafisico e del relativismo morale? Potrebbe essere il fatto che essi confondono la verità con la teoria. La teoria sarà certamente sempre qualcosa di lontano dalla vita quotidiana. Al contrario, in Cristo la conoscenza della verità di Dio e l’osservanza dei suoi comandamenti nella vita di ciascuno vanno sempre insieme. In lui “la luce è venuta nel mondo” (Gv. 3, 19). Tutti coloro che giustificano le proprie azioni malvagie odiano la luce e amano le tenebre, nascondendo le loro azioni malvagie dalla luce della verità. Verità e moralità sono interdipendenti. Questa è la novità radicale del cristianesimo. Non ci può essere alcuna contraddizione tra la fede che si confessa e la vita vissuta in conformità con i comandamenti di Dio. “Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio” (Gv. 3, 21).
La nostra salvezza eterna dipende dalla concreta accettazione delle verità di fede? A questo punto siamo in grado di vedere la risposta alle nostre domande iniziali. Il relativismo riguardo alla verità limita la salvezza alle gioie mondane, al piacere dei sensi, all’appagamento emotivo. Ciò che si perde di vista, allora, è il fatto che Dio è l’origine e il fine degli esseri umani. Egli stesso è il fine della nostra ricerca infinita di verità e felicità. Dimenticando Dio, noi perdiamo il nostro vero essere.
La fede in Cristo contiene già in sé tutte le verità. In Gesù Cristo, il Verbo incarnato, la fede in lui e la conoscenza di lui diventano un’unica cosa. Egli è l’unica Parola divina che è divenuta carne. Le parole umane che costituiscono l’insegnamento di Gesù sono passate nell’ “insegnamento degli apostoli” (Atti 2,42) e nella dottrina della fede della Chiesa. Esse rendono presente l’unica verità di Dio e ci comunicano la vita divina (cf. Gv. 6, 68). Per questo Gesù può dire ai suoi discepoli allora e oggi: “le parole che vi ho dette sono spirito e vita” (Gv. 6, 63). Perciò è impossibile separare l’atto di fede dai suoi contenuti, cioè dagli articoli del Credo. La fede non può essere una fiducia formale in una persona che resta per noi sostanzialmente sconosciuta nel suo essere e nella sua essenza, nella sua storia e nel suo destino. Amare una persona significa anche voler conoscere la verità di quella persona. Perciò il contenuto della fede è importante per la nostra salvezza. Gli articoli di fede non trasmettono proiezioni astratte e postulati morali. Essi sono piuttosto una confessione di Dio stesso che nelle sue parole e nelle sue azioni ci comunica se stesso come verità e vita (cf. Dei Verbum 2).
Dio, che è la verità, ci conduce nella verità. Dio ci rivela se stesso. Questo è il motivo per cui la nostra beatitudine dipende anche dalla nostra fede nel Credo della Chiesa che riguarda il Dio Uno e Trino. La nostra confessione battesimale non riguarda il nostro stato emotivo e neppure ciò che Gesù significa soggettivamente per noi o ciò che noi pensiamo che sia: un profeta, un maestro morale, o qualsiasi altra proiezione che gli esseri umani possono inventare nei loro sforzi di giustificare se stessi. Invece ciò che ci viene chiesto nel battesimo è se noi crediamo in Dio Padre che ci ha creato, in Dio Figlio che ci ha redenti e in Dio Spirito Santo che abita in noi e che è Signore e Datore della vita divina. “La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono” (Eb. 11, 1). Perciò “senza la fede è impossibile essergli graditi; chi infatti s'accosta a Dio deve credere che egli esiste e che egli ricompensa coloro che lo cercano” (Eb. 11, 6). Allora la fede è importante per la salvezza non solo in quanto comporta il credere che Dio ci perdonerà per amore di Cristo, come afferma la dottrina luterana sulla giustificazione. C’è anche un altro aspetto essenziale della fede, ossia la conoscenza di Dio. Questo significa che noi giungiamo alla conoscenza di Dio nelle verità che egli ha rivelato per la nostra salvezza (fides quae creditur). “Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza” (Rom. 10, 10). Se vogliamo essere salvati, dobbiamo credere “che Gesù è il signore e che Dio lo ha risuscitato da morte” (cf. Rom. 10, 9).
Il Cardinale John Henry Newman ha parlato della distinzione tra il criterio “liberale” di interpretazione della rivelazione cristiana e il criterio “dogmatico”. Il principio liberale accetta le verità che Dio ha rivelato in Cristo solo nella misura in cui sono coerenti con la ragione naturale, corrispondono al sentimento religioso o soddisfano i bisogni della società civile (cf. Apologia, c. 2). Il principio dogmatico, al contrario, è descritto da Newman in questi termini:
“dunque, vi è una verità; vi è una sola verità; l’errore religioso è per sua natura immorale; i seguaci dell’errore, a meno che non ne siano consapevoli, sono colpevoli di esserne sostenitori;… Il nostro spirito è sottomesso alla verità, non le è, quindi, superiore ed è tenuto non tanto a dissertare su di essa, ma a venerarla; la verità e l’errore sono posti davanti a noi per la prova dei nostri cuori; scegliere tra l’una e l’altro è un terribile gettar le sorti da cui dipende la nostra salvezza o la nostra dannazione; ‘prima di ogni altra cosa è necessario professare la fede cattolica’; ‘colui che vuole essere salvo deve credere così’ e non in modo diverso;… Questo è il principio dogmatico, che è principio di forza” (Lo sviluppo della dottrina cristiana).
Nel suo cosiddetto Biglietto Speech in occasione della sua elevazione al Cardinalato (1879), Newman spiega di nuovo il significato del liberalismo: “Il liberalismo in campo religioso è la dottrina secondo cui non c’è alcuna verità positiva nella religione, ma un credo vale quanto un altro… [Questo liberalismo] è contro qualunque riconoscimento di una religione come vera. Insegna che… la religione rivelata non è una verità, ma un sentimento e una preferenza personale; non un fatto oggettivo o miracoloso; ed è un diritto di ciascun individuo farle dire tutto ciò che più colpisce la sua fantasia… [La religione rivelata] non è affatto un collante della società”.
Affermare il cristianesimo come dogmatico, al contrario, significa dire che esso è fondato sull’autorivelazione storica di Dio. Significa dire che il Verbo fatto carne ci ha trasmesso la pienezza della verità e della vita. Significa affermare che per il potere dello Spirito Santo, la Chiesa, nella sua predicazione e nella sua cura pastorale, rende testimonianza alla verità di Dio, comunicandoci la vita divina nei sacramenti. Perciò “la Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto, dà sempre all'uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza per rispondere alla sua altissima vocazione; né è dato in terra un altro Nome agli uomini, mediante il quale possono essere salvati” (Gaudium et spes, 10).
Gerhard L. Müller
http://www.lanuovabq.it/it/limportanza-salvifica-della-regola-della-fede
Il San Giuseppe di don Camillo riemerge dalle acque
Nel Mantovano riemerge dal Po un San Giuseppe. Il parroco di Brescello, successore di don Camillo, lo riconosce: "E' la statua del presepe travolta dalla piena del Grande Fiume a dicembre. Un segno dal Cielo per dirci che il paese dopo l'alluvione deve rialzarsi". E con tempistica perfetta: il ritrovamento nella Novena del Santo. Perché il Cielo è esplicito nel farsi comprendere.
Se fosse stato un racconto uscito dalla penna di Guareschi si sarebbe chiamato: “Il San Giuseppe che riemerge dalle acque”. Il riferimento al padre del Mondo Piccolo non è casuale, anzi è proprio voluto perché certe storie poteva raccontarle solo lui. Ma anche perché questa storia ha come teatro proprio Brescello, il paese reso immortale grazie alle vicende di Peppone e don Camillo: fede popolare e segni celesti e un don Camillo moderno ma non meno attento nel cogliere i messaggi del divino che arrivano.
Succede questo. Nei giorni scorsi a Motteggiana, in provincia di Mantova, due agricoltori hanno ritrovato sulla riva del Grande Fiume una statua di San Giuseppe. Era sporca di fango, ma intatta. I due, colpiti per quel ritrovamento hanno pensato di scrivere al giornale locale per annunciare che l’avrebbero donata al vescovo della città virgiliana.
Ma sull’altra sponda reggiana del Po don Camillo, che oggi si chiama don Evandro Gherardi ed è il vero successore del personaggio guareschiano in quanto parroco di Brescello, è sobbalzato sulla sedia: “Ma quella è la nostra statua di San Giuseppe!”.
Che cos’era successo? Era successo che la statua era stata travolta dalla piena dell’Enza, uno degli affluenti del Grande Fiume che proprio nella frazione di Lentigione di Brescello si butta in Po. E da quel giorno era sparita tra il rammarico dei fedeli per non essere riusciti a metterla in salvo in tempo dalla piena.
Questa infatti era arrivata inaspettata nella notte di Santa Lucia, il 12 dicembre scorso e la statua del papà putativo era stata appena collocata, assieme a quella della Madonna e dei pastori, sul sagrato antistante la chiesa della piccola località, che guarda proprio il gigante delle acque che da queste parte è un po’ un mostro sacro, nel bene e nel male dato che ogni paese rivierasco sa che il Po toglie, ma dà anche.
Ebbene. Il presepe era stato allestito l’8 di dicembre come da tradizione, con la sola eccezione del Gesù Bambino che sarebbe arrivato a completare il quadro della Natività nella notte del 24 dicembre. Però la piena aveva travolto tutto, disperdendo la Sacra Famiglia, ma soprattutto provocando molti danni dai quali la piccola comunità oggi fatica ancora a riprendersi.
“Nei giorni successivi – ha detto don Evandro alla Nuova BQ – trovammo tutte le statue nei campi allagati in cui le acque si erano ritirate, ma all’appello mancava soltanto il San Giuseppe”. Da lì lo sconforto perché la scomparsa del “divino custode dell’eletta prole” era stata vissuta con un misto di pessimismo e fatalità.
Passano i mesi e la vita a Lentigione ha cercato di riprendere anche se con grande difficoltà. “Lentigione è un Paese in ginocchio, molte attività commerciali sono ancora chiuse tanto che alcuni abitanti stanno pensando seriamente di lasciare il paesino per andare altrove”, dice il don. Insomma: c'è il serio rischio di un'emigrazione forzata causata da un evento naturale. Il Grande Fiume dà, ma anche toglie.
Nei giorni scorsi il ritrovamento della statua, che nel corso di questi mesi ha fatto più di 60 km in direzione est per andare ad arenarsi, intatta, ma sporca, sulla riva lombarda del Po, dove gli agricoltori l’hanno salvata come un Mosè infreddolito.
“E’ stata una sorpresa, un segno del Cielo – ha detto don Evandro – e noi che crediamo sappiamo che niente arriva a caso”. La comunità è felicissima per questo ritorno a casa che verrà ufficializzato da una cerimonia nei prossimi giorni con il vescovo di Mantova, destinatario iniziale del dono che, una volta conosciuta la storia ha accettato volentieri di presenziare alla cerimonia di riconsegna.
Don Evandro, che è uomo combattivo e di fede dice che “con questo ritrovamento il Cielo ci vuole dire qualche cosa di importante: non bisogna perdere la speranza, neanche quando tutto sembra crollare o sembra perduto”, come è la sensazione di chi vede che tutto viene trascinato via dalla potenza delle acque.
Questa è la storia, che a buon diritto potrà essere raccontata con i contorni leggendari per i prossimi secoli, come prova della fede di un popolo abituato ancora a scrutare i segni del Cielo e a lasciarsi docilmente plasmare.
Ma ciò che è di più straordinario è un altro fatto che non è sfuggito ai fedeli. Poteva essere recuperato in febbraio oppure in aprile. Invece il ritrovamento è avvenuto il 10 di marzo, all’inizio di quella che tradizionalmente la Chiesa definisce la Novena di San Giuseppe. Lunedì infatti sarà la solennità del Santo e il fatto che il ritrovamento sia avvenuto proprio durante il periodo che liturgicamente prepara alla sua festa non può non essere visto come una semplice coincidenza. Perché quando il Cielo parla è abbastanza esplicito nel farsi comprendere anche ai cuori più duri.
Andrea Zambrano
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