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lunedì 19 marzo 2018

La speranza "una virtù rischiosa"?

LA DUPLICE DISPERAZIONE


La duplice disperazione dell’uomo moderno. E la dimensione della "speranza soprannaturale" ? i falsi preti e il falso papa acuiscono i dubbi tormentosi dell'uomo moderno, si direbbe che godano ad accrescerne la sua disperazione 
di Francesco Lamendola  

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L’uomo moderno è profondamente abbattuto e infelice; ed è abbattuto e infelice perché la sua anima è rosa dalla disperazione. La sua disperazione è più o meno ben dissimulata, ma è profonda, cupa, quasi inguaribile; ed è così compenetrata con la sua natura, che dire modernità e dire disperazione è praticamente la stessa cosa. La ragione di questa compenetrazione è duplice: l’uomo moderno è doppiamente disperato - l’osservazione è di Franco Bertini, e noi la sviluppiamo ulteriormente -, sia perché non accetta la sua condizione di creatura finita, e quindi mortale, sia perché, nello stesso tempo, si rende conto di non poter sfuggire a se stesso, al proprio io finito, e quindi di non poter sottrarsi allo spettacolo del suo continuo morire, del suo quotidiano, incessante venir meno.
Qualcuno potrebbe obiettare che l’uomo ha sempre saputo di essere mortale e che, pertanto, la sua angoscia di morte non è una caratteristica specificamente moderna. Rispondiamo che l’uomo ha sempre saputo di essere mortale, ma non ha mai pensato, fino alle soglie della modernità, di estinguersi nel nulla con la propria morte. Al contrario, ha sempre pensato che la morte fosse l’inizio della vita vera: pensiero che si è enormemente espanso e perfezionato col cristianesimo, perché anche i greci e i romani – per limitarci al solo ambito della nostra civiltà – credevano, in linea di massima, in una sopravvivenza dell’anima alla morte fisica, e nondimeno, di fatto, guardavamo alla vita terrena come alla vita vera, alla vita piena; mentre il cristianesimo ha rovesciato la prospettiva, e ha fatto della vita eterna il proprio baricentro, e della vita terrena una semplice preparazione, e, di conseguenza, un pellegrinaggio. L’uomo cristiano, specialmente nell’epoca medievale, sapeva, sì, di dover morire, ma non ne era disperato, perché sapeva fin dalla sua infanzia che il suo vivere terreno sarebbe sfociato nel gran fiume dell’eternità; quel che lo teneva in ansia, semmai, era il timore dell’inferno, cioè dell’eterna dannazione, non quello della morte in se stessa. Laudato si' mi' Signore per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare: guai a quelli che morrano ne le peccata mortali; beati quelli che trovarà ne le tue santissime voluntati, ka la morte secunda [cioè la condanna, al momento del Giudizio finale, per le anime malvagie] no 'l farrà male: così san Francesco d’Assisi, nel Cantico delle creature. Ed è per questo che, come ebbe a dire la storica francese Régine Pernoud, Se vi fu, nella storia, un’epoca di gioia, questa fu il Medioevo (che è anche il titolo di un nostro articolo, pubblicato sul Corriere delle Regioni il 15/12/2016 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 31/12/17).

Ma poi è arrivata la modernità: che si è andata preparando nella tarda Scolastica, verso la fine del Basso Medioevo, è emersa pienamente con l’umanesimo e poi si è affermata in maniera sempre più invasiva con l’illuminismo. La caratteristica della civiltà moderna è l’affermazione dell’autonomia del naturale dallo spirituale, cioè della natura dalla grazia, della natura senza la grazia. Ciò ha comportato, sin dal principio, una tendenza al corto circuito: come può, la creatura, fare perno su se stessa? Come può pascersi solamente del finito? Come può affermare se stessa, se non poggia i piedi su di una realtà effettivamente autonoma, perché è accidente e non sostanza, non possiede in se stessa le ragioni del proprio esistere, ma li poggia su qualcosa che è altro da sé, su Qualcosa (o piuttosto Qualcuno) che esiste indipendentemente da lei, e a cui deve tutto il proprio essere? è evidente che si tratta di una pretesa contraddittoria: il finito non può farsi misura a se stesso; il finito riceve la propria misura dal ciò che è infinito: l’uomo, quindi, per poter trovare il proprio equilibrio, deve riconoscersi creatura, deve riconoscersi indigente: se gonfia il petto e ardisce affermare se stesso, eccede il proprio statuto ontologico e brancola nel vuoto. La disperazione dell’uomo moderno è figlia di questo brancolare nel vuoto: è figlia del fatto che egli vede la propria condizione finita, e quindi mortale, ma vorrebbe negarla, e, nello stesso, vede bene che non lo può fare, se non a parole, cioè barando al gioco con se stesso. Il che non lo rassicura affatto.
Uno dei più acuti analisti della disperazione dell'uomo moderno è stato Soren Kierkegaard, il quale, ne La Malattia mortale, scriveva (in: S. Kierkegaard, Le grandi opere filosofiche e teologiche, a cura di Cornelio Fabro, Milano Bompiani, 2013, pp. 1673-1677):
Quando il maggiore pericolo è la morte,  si spera nella vita; ma quando si conosce il pericolo ancora più terribile, si spera nella morte. Quando il pericolo è così grande che la morte è divenuta speranza, allora la disperazione nasce venendo a mancar e la speranza di poter morire.
In quest’ultimo significato la disperazione è chiamata la malattia mortale: quella contraddizione pensa, quella malattia nell’io di morire eternamente, di morire e tuttavia di non morire, di morire la more. Poiché morire significa che tutto è passato, ma morire la morte significa vivere, sperimentare  il morire; e sperimentare; e sperimentare questo tormento per un solo momento vuol dire sperimentarlo in eterno.
[…] Lungi dall’essere un conforto per il disperato, il fatto che la disperazione non lo sì distrugge è piuttosto il contrario; quel conforto è precisamente il suo tormento, è ciò che mantiene in vita il dolore che rode la vita nel dolore; infatti, appunto per questo egli non si è disperato, ma si dispera; non poter distruggere se stesso, non poter sbarazzarsi di se stesso, non poter annientarsi. Questa è la formula della potenziazione della disperazione; il salire della febbre nella malattia dell’io. […]
Essere salvato da questa malattia mediante la morte è impossibile, perché la sua malattia e il suo tormento così come la sua morte è proprio questo di non poter morire.  Tale è lo stato dell’anima in disperazione.
Tuttavia, la disperazione dell'uomo moderno è più sottile di quanto non possa apparire a prima vista. Non deriva soltanto dal fatto che egli, creatura mortale, nega il suo status creaturale, rifiuta di cercare e adorare il suo Creatore e vorrebbe farsi il piccolo dio di se stesso, ma vede bene di essere un dio mortale, il che lo riempie di sgomento e di angoscia; la sua disperazione deriva anche dalla contemplazione dello spettacolo della sua vita mortale che gli sfugge; egli si vede morire e non può farci nulla; si vede avanzare verso il nulla della morte e si sente impotente, frustrato, rabbioso; la sua ragione gli proibisce di sperare, ma qualcosa in lui si ribella, la sua natura profonda aborrisce al pensiero del nulla eterno e gli morde il cuore con la nostalgia di quella vita eterna della quale si è interdetto, da se stesso, anche la semplice ed umana speranza. A ciò si aggiunge un ulteriore ed inconscio rammarico: perché quella speranza, non sul piano meramente umano, ma sul piano soprannaturale, egli l'aveva, o meglio, l'avevano i suoi padri: la speranza cristiana, che è una virtù teologale ed è l'attesa fìduciosa che si realizzi il bene promesso da Colui che non può mentire, perché è la Verità stessa. E malissimo ha fatto, il signor Bergoglio, nell'ottobre 2013 (era stato eletto papa da pochi mesi) a definire la speranza "una virtù rischiosa": perché le virtù teologali sono cosa ben diversa dalle virtù umane e nessuna è rischiosa, nel senso umanamente dato a questo termine, se non per chi ha perso il bene della fede. L'uomo moderno ha perso quel bene ed è per questo che in lui vi è anche la nostalgia di un bene perduto, che valeva a placare la sua ansia di fronte al pensiero della morte. Di tutto l'uomo moderno aveva bisogno, tranne che di sentirsi dire dal papa che la speranza è una virtù rischiosa, cosa che può servire solo ad aumentare i suoi dubbi, le sue insicurezze, e, in ultima analisi, la sua disperazione. 
E che quelle parole, sbagliate e imprudenti, non siano state dette a caso, cioè in buona fede, lo prova la precisazione che il signor Bergoglio ha voluto fare in quella occasione, quando ha soggiunto che la speranza è una virtù rischiosa perché si nasconde nella vita. Dicendo così, ha ribadito di considerare la speranza una virtù puramente umana, mentre qualsiasi studente del primo anno di teologia, o un qualsiasi ragazzino che frequenta il catechismo in vista della prima Comunione, sa che la speranza, virtù teologale, viene da Dio, è un dono di Dio, non si nasconde affatto nella vita ma scende dal Cielo direttamente nel cuore dell'uomo. E poi, perché insistere sul rischio, sulla difficoltà di trovare ciò che è nascosto, e che quindi non si vede facilmente? Perché non esporre la vera dottrina cattolica, basata sulla fiducia piena e incondizionata nelle promesse di Dio? Chiedete e vi sarà dato; bussate e vi sarà aperto; cercate e troverete, sta scritto nel Vangelo. Questa è la Parola di Dio: una Parola che conforta, che smorza l'angoscia, che disperde i neri fantasmi della disperazione. Gesù parlava così: insegnava, e intanto rassicurava i dubbiosi, rincuorava i timorosi; i falsi preti e il falso papa acuiscono i dubbi tormentosi dell'uomo moderno, si direbbe che godano a  versare il sale sulle sue ferite, ad accrescere la sua disperazione. Ma non bastava ancora; evidentemente, al signor Bergoglio non pareva sufficiente la quantità di dubbio, perplessità, turbamento che aveva instillato nel cuore dei fedeli, nel corso di quella sciagurata omelia dalla casa di Santa Marta; bisogna rincarare ulteriormente la dose. Ed ecco il seguito: Dove siamo ancorati noi, ognuno di noi? Le nostre regole, i nostri comportamenti, i nostri orari, i nostri clericalismi, i nostri atteggiamenti ecclesiastici, non ecclesiali, eh? Siamo ancorati lì? Tutto comodo, tutto sicuro, eh? Quella non è speranza. E il clero, stupido o servile, ad applaudire questo inaudito discorso; la stampa ex cattolica, Famiglia Cristiana in testa, a celebrarne le lodi; i fedeli, zitti, forse col cuore turbato, ma zitti: ha parlato il papa, e il papa sa quel che dice. Magari fosse vero. Ebbene, noi diciamo che se il diavolo in persona avesse voluto spargere il mal seme del dubbio, dell'amarezza, dello scoraggiamento, non avrebbe saputo trovare parole diverse da quelle adoperate dal signor Bergoglio.
A parte le solite frecciate velenose contro il "clericalismo" (buffo, da parte di un papa; e dove lo vede, poi, tutto questo clericalismo, tranne che alla sua corte?) e anche contro tutto ciò che è "ecclesiastico", e questo non è solamente buffo, ma è perfido, perché sicuramente nasce da malanimo verso la Chiesa come essa è; a parte questo, quel che appare evidente è la volontà maligna di destabilizzare le anime, metterle in crisi, ma non nel senso salutare di distruggere le false sicurezze per infondere le vere, bensì solo per il piacere di gettare le anime nella confusione, togliendo loro tutti i punti di riferimento. Quelli, aggiungiamo noi, che la Chiesa ha sempre insegnato; quelli che il Magistero ha ribadito fino a ieri. E poi, quale spaventosa, e per di più voluta, confusione concettuale! Le nostre regole? Nossignore: i Comandamenti di Dio. I nostri orari? Ma per piacere: con quale diritto egli equipara la legge morale del cristiano a un tabellone ferroviario? Proprio lui, che ama dire: Chi sono io per giudicare?, si permette, invece, di giudicare in maniera sferzante, sarcastica, sprezzante, tutti quelli che, a suo giudizio, sono cristiani ipocriti, perché fondano la loro speranza sulle certezze cristiane. Non ne ha il diritto! Con quale pretesa egli si impanca a giudice della speranza altrui? Chi lo autorizza a farsi giustiziere delle intenzioni dei cattolici? Come tutti progressisti, egli questo diritto se lo dà da solo, perché si ritiene moralmente migliore. Migliore anche intellettualmente: da buon seguace del pensiero debole, non sopporta che qualcuno abbia delle certezze. La cosa gli dà fastidio, lo irrita. Gli sembra una dimostrazione lampante di arroganza, di superficialità, di disonestà. Per farlo contento, i fedeli dovrebbero essere tutti pieni di dubbi, di insicurezze, di punti interrogativi. Forse, così, si sentirebbe meno solo. Forse Bergoglio è il prototipo dell'uomo moderno, faustiano, demoniaco: non solo ha perduto la speranza cristiana, ma odia il fatto che qualcuno ce l'abbia ancora. 

La duplice disperazione dell’uomo moderno

di Francesco Lamendola

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