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sabato 31 marzo 2018

L’esatto contrario di una eresia

TRADIZIONALISTI "VERI CATTOLICI"



Tradizionalisti o semplicemente "veri cattolici"? i timori di padre Gioacchino Ventura non erano esagerati: il pelagianesimo sta rientrando in grande stile nella Chiesa cattolica è "l’eresia" che compendia tutte le altre eresie 
di Francesco Lamendola  

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I cattolici progressisti e modernisti, vale a dire gli eretici progressisti e modernisti che si nascondono dietro la maschera del cattolicesimo, hanno creato una parola con la quale bollare a fuoco i cattolici veri, i quali, naturalmente, hanno il torto di opporsi ai loro disegni e, in particolare, al loro tentativo di modificare la dottrina, rivoluzionare la liturgia e impadronirsi del vertice della Chiesa: questa parola è tradizionalismo.
Specialmente a partire dal Concilio Vaticano II, l’evento che fa da discrimine fra la vera Chiesa cattolica e la neochiesa massonica e gnostica, l’espressione “cattolici tradizionalisti” acquista sempre più un significato inequivocabilmente negativo; e, a partire dalla scomunica di monsignor Lefebvre, nel 1988, si carica ancor più di valenze negative, perché indica la prossimità con un movimento di scomunicati; e poco importa che Lefebvre e gli altri quattro vescovi da lui ordinati siano stati scomunicati per ragioni meramente disciplinari e non dottrinali: né avrebbe potuto essere altrimenti, visto che nessuno ha potuto trovare la benché minima parola o azione eretica da parte loro, ma, al contrario, una fedeltà assoluta alla Chiesa e ai suoi insegnamenti di sempre. Quanto ai vertici della Chiesa, alle Conferenze Episcopali, al Collegio dei cardinali e ai sommi pontefici, sia prima che dopo il 1988, hanno giocato d’astuzia, ponendosi, sul modello politico della vecchia Democrazia Cristiana, in una posizione centrista fra “modernisti” e “tradizionalisti”, come se i due opposti “estremismi” fossero equivalenti, mentre il modernismo è una eresia, condannata formalmente come tale da san Pio X nel 1907, mentre il tradizionalismo, nell’accezione comune del termine è, semplicemente, una posizione di fermezza e intransigenza nella dottrina e nella fede cattolica, dunque l’esatto contrario di una eresia.

Ultimamente, però, essendo i modernisti arrivati a occupare i vertici della Chiesa, al culmine della loro progressiva marcia di avvicinamento, e avendo conquistato gran parte degli spazi e praticamente tutti gli organi di stampa e d’informazione, il linguaggio politicamente corretto da loro adottato non è più quello di una immaginaria equidistanza fra due estremismi, ma, di fatto, è quello del modernismo, anche se non hanno il fegato di dirlo chiaro e tondo, per cui di estremismi ne è rimasto una solo, quello dei tradizionalisti. Il che, se le persone riflettessero solamente un poco, invece di lasciarsi condizionare e manipolare dalle parole d’ordine della cultura dominante, farebbe apparire ancor di più la natura ortodossa e benemerita di codesti cosiddetti tradizionalisti, i quali sono gli unici, ormai, a tenere alto il vessillo della vera fede cattolica e della vera Chiesa cattolica, custodendo con immutata fedeltà il Deposito della fede e il significato della divina Rivelazione. E se tutto ciò si può qualificare in termini di “intransigenza”, ebbene, che sia benedetta l’intransigenza di chi non scende a patti con i vecchi e nuovi nemici della Chiesa, sia esterni che interni, i giudei, gli islamici, i luterani, i massoni, ma dichiara ad alta voce la sua costante e immutabile fedeltà al Magistero di sempre, la sua indefettibile lealtà verso ciò che, nel corso di duemila anni, la Chiesa, la Sposa di Cristo, peccatrice e meretrice ma tuttavia santa, una, cattolica, apostolica e romana, ha tramandato ed insegnato per la salvezza degli uomini. E lasciamo pure che dei teologi come Alberto Maggi dicano che Gesù Cristo non è morto per redimere l’umanità dai suoi peccati, ma per l’avversione del clero dovuta a ragioni economiche, e che non si va in paradiso per contemplare Dio, perché la cosa sarebbe piuttosto noiosa; che il vescovo di Crato, in Brasile, tenga conferenze ai “fratelli” massoni, in maniche di camicia, mentre lo ascoltano in grembiulino, perché siamo tutti figli di Dio; che padre Benedito Ferraro, nella sua lectio magistralis alla pontificia università di San Paolo del Brasile, affermi che Dio è, tutt’insieme, padre e madre, donna e nero, bisessuale e transessuale; e via di questo passo, da un’eresia all’altra, senza pudore, senza decenza, senza alcun senso del limite, ma, in compenso, sempre più attivamente e decisamente sostenuti, lodati e incoraggiati dai vertici attuali della neochiesa.

00 Gioacchino Ventura dei Baroni di Raulica
Gioacchino Ventura di Raulica

In realtà, il “tradizionalismo” è una posizione filosofica, all’interno della cultura cattolica, che si colloca in uno scenario ben definito, intorno alla metà del XIX secolo, e che trova la sua figura più rappresentativa in un gesuita molto colto ed eccellente oratore, un pensatore fine e originale, inizialmente influenzato da de Bonald e da Lamennais: Gioacchino Ventura di Raulica, originario di una nobile famiglia siciliana (Palermo, 1792-Versailles, 1861). Ecco come egli stesso ha esposto il proprio pensiero in un grosso volume, oggi difficilmente reperibile, La Tradizione (Milano, Turati, 1857), ma che viene parzialmente riportato da padre Felice Cordovani, in religione Mariano (1883-1950), un domenicano che fu a lungo professore di teologia e rappresentò la scuola tomista sotto i pontificati di Pio XI e Pio XII, mentre, politicamente, fu dapprima vicino alle posizioni di Luigi Sturzo, poi, dopo la caduta del fascismo, al quale era stato avverso, a quelle di Alcide De Gasperi (in: M. Cordovani, Corso universitario di teologia cattolica, vol. 1, Il Rivelatore, Roma, Editrice Studium, 1945, pp. 116-119):
Che cos’è il tradizionalismo? È un sistema avente per base il principio dell’impossibilità che l’uomo SFORNITO D’OGNI INSEGNAMENTO, PRIVO D’OGNI TRADIZIONE, possa scoprire, indovinare il mondo spirituale e morale. È pertanto un sistema che prende le mosse dal fatto costante, universale (perciocché esso fatto si è prodotto sempre e sempre si rinnova in tutta l’umanità) che l’uomo non conosce il mondo degli spiriti e dei doveri, non ha le prime nozioni di Dio dell’anima, della legge divina e della vita futura se non per via dell’insegnamento domestico, il quale, alla sua volta, altro non è se non l’eco della Tradizione. Ma se l’uomo, possedendo queste nozioni, non ha potuto procacciarle a se stesso, e se ha dovuto riceverle dai suoi parenti e dai suoi maestri” [risalendo indietro si arriva al primo uomo, che le ha apprese da Dio;…] in pari modo, dal momento in cui si riconosce l’impossibilità che l’uomo abbia dato a se stesso la vita intellettuale mediante la scoperta della verità, si arriva necessariamente alla verità non meno grande di un Dio RIVELATORE. […]
Ogni ragione è ammaestrata; l’uomo sfornito di ogni insegnamento, privo d’ogni tradizione, è un essere fuori della sua propria natura, è un essere chimerico: tutto il tradizionalismo sta in queste due sentenze. […]
La filosofia tradizionalista comincia dal fondare nello spirito dei suoi allievi i seguenti fatti, la cui verità è innegabile.
1) Che tutte le verità concernenti Dio, la creazione, la spiritualità e l’immortalità dell’anima, la legge morale e la vita futura, anche in quanto appartengono all’ordine naturale e non sono al di sopra del potere della ragione, sono state rivelate al primo uomo nel punto stesso della sua creazione, che gli sono state affidate e che sono state accettate da esso “per modum fidei”, al par di quelle che erano dell’ordine soprannaturale; e che fu necessario che Dio operasse così.
2) Che, fin dal principio, queste medesime verità sono state trasmesse  e che lo son sempre di generazione in generazione per via di insegnamento e di tradizione. In guisa che ciò che Dio rivelò egli stesso al primo uomo, a fine che lo credesse in prima sulla sua parola (fede), salvo che più tardi ne comprendesse una parte  e se ne rendesse conto colla propria ragione (scienza), la Chiesa, i genitori, i maestri avessero ad insegnarlo o rivelarlo ai fanciulli, a fine che lo credano alla loro volta sull’autorità della loro testimonianza sempre “per modum fidei” (fede), salvo che più tardi lo intendano, in parte, mediante la riflessione e il raziocinio quando e quanto essi ne saranno capaci (scienza).
3) Che le cogitazioni suddette non sono entrate nel mondo pel fatto dell’insegnamento filosofico, ma che, per il contrario, hanno preceduto sempre e dovunque l’esistenza della filosofia e dei filosofi; che non hanno conservato la loro certezza intera e pura d’ogni errore se non colà dov’erano sostenute dalla rivelazione che si chiama positiva, esistente simultaneamente colla rivelazione storica e tradizionale come accadde un tempo presso gli Ebrei e più tardi appresso i cristiani; e che, per conseguenza hanno una certezza indipendente da qualunque dimostrazione razionale, una certezza fondata sopra il testimonio e l’insegnamento della Chiesa, della famiglia e della società umana tutta quanta; che in una parola non posano sulla certezza filosofica.
4) Che ogni uomo che viene in questo mondo impara primieramente a credere in Dio, conosce la creazione, la spiritualità dell’anima, ecc. per via di insegnamento e di tradizione; e che detto insegnamento è investito di tutte le condizioni  d’una vera certezza. Imperocché è Dio che ha voluto che queste cognizioni fossero in prima trasmesse per questo mezzo, “per modum fidei”, affinché tutti potessero parteciparne “agevolmente senza mescolanza di errore e con una certezza inconcussa” (S. Tommaso), il che sarebbe impossibile per mezzo del raziocinio o della filosofia. Onde nasce che, regolarmente parlando, la filosofia non deve dimostrare coteste verità per darne la COGNIZIONE – son cognite per altri mezzi – né per darne la certezza – si reggono sopra un altro fondamento; ma sì per giustificarne, con ragioni prese dalla sua propria sfera, la fede e la credenza già esistenti… Scopo della filosofia non è già lo scoprire, per via della ragione, le verità summentovate… ma lo scopo della filosofia è di giustificare questa credenza e di assodarla.

Come si vede, citando anche l’autorità di san Tommaso d’Aquino, il padre Ventura se la prende con quelli che definisce “semipelagiani”, cioè quei cattolici i quali, troppo fiduciosi nelle capacità della ragione, tendono ad attribuire all’uomo la possibilità di comprendere l’esistenza di Dio e la legge da Lui stabilita, senza bisogno della Rivelazione, o attribuendole un ruolo non essenziale, e, di conseguenza, sminuiscono la necessità assoluta della grazia di Dio affinché l’uomo possa vivere nell’osservanza dei suoi comandanti e possa evitare il peccato.
In effetti, a proposito dei limiti della ragione e della necessità che essa sia sempre illuminata, sorretta e ispirata dalla Rivelazione divina, san Tommaso scrive testualmente (Summa Theologiae, quaest. II, art. IV):
È necessario all’uomo il credere e il ricevere per modo di fede, “per modum fidei”, non solamente le cose che sono al di sopra della sua ragione, ma quelle ancora ch’essa può conoscere, e ciò per tre ragioni: la prima, affinché l’uomo giunga più presto alla cognizione della verità divina; la seconda, affinché la cognizione di Dio sia alla portata di tutto il mondo; la terza, affinché si abbia la certezza. Di fatti l’umana ragione è molto fallibile nelle cose divine: testimoni ne sono i filosofi, che, anche nelle cose umane, sono caduti colla loro ragione in errori e contraddizioni. Perché dunque possano gli uomini avere di Dio una cognizione certa e fuori da ogni dubbio, ha bisognato che le cose divine fossero loro trasmesse per modo di fede, come dette da Dio, che non può mentire. 

Tradizionalisti o semplicemente veri cattolici?

di Francesco Lamendola

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