ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

domenica 15 aprile 2018

Quando si conosce la verità

Rolando e il carnefice, misericordia nella verità

Oggi nella Pieve di San Valentino, dove è sepolto il corpo del 14enne seminarista Beato Rolando Rivi, ucciso dai partigiani rossi, avverrà un evento di portata storica: la figlia del comandante che premette il grilletto chiederà perdono per quel fatto. Un gesto unico, che mostra come la riconciliazione vera sia possibile solo quando si conosce la verità. Quante morti però sono rimaste ancora sotto la cappa della vulgata. 


                                         La beatificazione di Rolando Rivi


E’ davvero di portata storica l’evento che si svolgerà oggi 15 aprile in diocesi di Reggio Emilia. Per la prima volta nella Pieve di San Valentino di Castellarano, avverrà un incontro di riconciliazione tra i famigliari del beato Rolando Rivi, seminarista 14enne ucciso barbaramente da un comandante partigiano nel 1945 e la figlia di quest’ultimo.


L’evento è stato seguito dal comitato Amici di Rolando Rivi che sta curando nei minimi dettagli la giornata che vedrà la presenza anche del vescovo di Reggio Emilia Massimo Camisasca.

Un incontro storico dunque, che è anzitutto un momento di preghiera. E che viene a suggellare una riconciliazione piena a 73 anni di distanza da quei tragici fatti. La Nuova BQ seguirà la giornata di oggi nel corso della quale la signora Meris Corghi, figlia di Giuseppe Corghi, commissario politico del distaccamento Frittelli operante sulle montagne modenesi nel corso della Resistenza, racconterà del suo percorso di avvicinamento alla figura di Rolando Rivi.

In attesa di conoscere le modalità con le quali la donna è entrata a conoscenza di questo passato del padre, che per quel delitto scontò diversi anni di prigione prima di rifarsi una vita e una famiglia, giova fare qui solo una breve considerazione. Meris ha saputo soltanto alcuni anni fa, a seguito del clamore della vicenda della beatificazione del martire bambino, che suo padre era il responsabile di quel barbaro assassinio.

Sarà un racconto commovente, in cui idealmente la vittima e il carnefice si daranno finalmente la mano e che toccherà corde emotive profonde e che non potrà non fare riflettere sulla necessità della riconciliazione su una stagione del nostro passato che non è ancora stata definitivamente archiviata. Una stagione che gli storici faticano ancora a chiamare con il suo vero nome: guerra civile.

La diocesi ci ha tenuto a presentare la giornata come un grande e storico evento di riconciliazione. Una parola adatta a testimoniare quello che accadrà. Ma è proprio la riconciliazione l’approdo glorioso di un percorso che però è iniziato prima con un requisito indispensabile.

Meris infatti ha potuto perdonare soltanto quando ha saputo la verità. Quella verità che attendono ancora le tante vittime della stagione resistenziale, che hanno perso la vita sulla base di un semplice sospetto o soltanto per inimicizia politica. Quella verità che da parte della vulgata resistenziale si preferisce occultare per non infrangere il mito della Resistenza buona. I vincitori che impongono la storia sui vinti, ma che, come dimostrato da quegli storici sprezzantemente definiti revisionisti, è stata una congerie di avvenimenti all’interno dei quali, oltre alle istanze legittime di giustizia e libertà per un popolo che era oppresso, si cercò da parte di molti partigiani comunisti di preparare il terreno ad una rivoluzione comunista.

Non è un caso infatti che i personaggi che più furono feroci nelle esecuzioni sommarie, siano stati proprio i commissari politici, partigiani rossi specializzati nell’indottrinamento dei resistenti alla causa comunista. E proprio commissario politico era Giuseppe Corghi quando, assieme al comandante del battaglione Delciso Rioli, decise di freddare al grido di “un prete di meno domani” il giovane Rolando, reo soltanto di indossare la veste talare e di mettere in guardia i coetanei dal pericolo di una rivoluzione comunista che con gli agguati spesso arbitrari di alcuni partigiani diventava sempre più chiara nella popolazione.

Oggi così, solo grazie alla verità sui fatti può arrivare la riconciliazione. Come segno perfetto che il perdono può essere concesso o richiesto soltanto quando si conosce la verità dei fatti. Perché non c’è misericordia se prima non si fa verità. Solo allora, questa, come dice il Vangelo, ci farà liberi.

Ma per una verità che esce allo scoperto e si trasforma in balsamo della pace e della riconciliazione, ci sono dieci, cento, mille verità che su quella stagione non verranno mai a galla. Ci vorrebbe un Chi sa parli generalizzato non rivolto ad un caso specifico, ma a tutto quello sterminato martirologio di vittime della violenza rossa, coperte da una coltre di nebbia e di convenienza politica: quanti semplici cittadini, segretari comunali, simpatizzanti fascisti che non alzarono mai un dito contro nessuno, vennero freddati e poi fatti sparire? Ma anche medici, farmacisti, agricoltori, gente semplice vennero uccisi solo sulla base di un sospetto o di un pregiudizio? E in quanti casi i colpevoli non vennero mai scoperti? La quasi totalità. O meglio, non saltarono mai fuori, coperti da una macchina della propaganda che aveva nel Pci e nei reduci dell'Anpi i suoi sacerdoti. E quante giovani maestre vennero stuprate perché semplicemente figlie del "padrone", il proprietario terriero più ricco del Paese? 

Nella sola Campagnola Emilia venne trovata una fossa comune con decine di cadaveri. Nel cavoun (la grande cava) di quel pezzo sperduto di bassa padana furono individuati molti corpi grazie a una soffiata. I parenti poterono riconoscere i loro cari solo nel '91, grazie ad un orologio o brandelli di indumenti. Per loro non ci fu mai la consolazione della verità, e il loro dolore da cieco si fece ancor più livido di sbigottimento: i colpevoli di quell'eccidio, come di altri, non saltarono mai fuori. Coperti, appunto. E su di loro ormai i ricordi si stanno trasformando, con la morte degli ultimi testimoni, in oblio, allontanando per sempre ogni speranza di riconciliazione vera, proprio perché assente la verità dei fatti. 

E quanti preti furono trucidati senza colpevoli accertati? Spesso tratti in inganno, morivano con il viatico nel taschino o, se riuscivano ad accorgersi del tragico destino che si stava per abbattere su di loro, consumarono l'Eucarestia poco prima della raffica di mitra. 

Fare verità su quella stagione non è un’operazione culturale di revisionismo, né di occupazione ideologica di vessilli e insegne i cui proprietari ormai sono morti, ma è un moto che nasce da una coscienza finalmente redenta. Il modo migliore per operare quella riconciliazione che a tempo scaduto sta bussando alla porta della storia.

Andrea Zambrano
http://www.lanuovabq.it/it/rolando-e-il-carnefice-misericordia-nella-verita



Mentre l’editoria si spertica nel pubblicare, a cinque anni dall’elezione,  osanna giornalistici e commerciali a Papa Francesco – pensiamo all’ultima novità, Francesco. Il Papa delle prime volte di Gerolamo Fazzini e Stefano Femminis, con prefazione di Federico Lombardi e i contributi di Luigi Accattoli, Enzo Bianchi, Austen Ivereigh, Elisabetta Piqué, Andrea Riccardi, Paolo Rodari, Enzo Romeo, Antonio Spadaro, Luis Antonio Tagle, Andrea Tornielli (Edizioni San Paolo) – noi ci occupiamo di parlare di un saggio pubblicato recentemente da Città Ideale per volontà  del Sodalitium Equitum Deiparae Miseris Succurentis (Sodalizio Cavalleresco di Maria Soccorso dei Bisognosi): Cavalleria una Via sempre aperta. Si tratta di un testo retrò? No, si tratta di rimanere se stessi, anzi di riappropriarci dell’investitura che ci è stata consegnata con il sacramento della Cresima, quella di Milites Christi.

Nel libro, dove compaiono scritti di Mario Polia, Fra’ Mario Rusconi, Maurizio Angelucci, Cosmo Intini, Gianluca Marletta, Don Curzio Nitoglia, Raimondo Lullo, San Bernardo da Chiaravalle sta scritto che San Francesco d’Assisi, fu cavaliere, rimase cavaliere, anche dopo la conversione, e morì cavaliere. Dunque Francesco ebbe per tutta la sua esistenza uno spirito e uno stile da cavaliere. Ma chi è il cavaliere? È colui che si prefigge di proteggere e di difendere qualcuno e, al bisogno, di soccorrerlo. Signorilità, lealtà, coraggio, generosità sono i tratti distintivi del cavaliere. Nei Fioretti di San Francesco (CAPITOLO XVIII: FF 1848), dove si parla del Capitolo generale dell’Ordine che san Francesco tenne a Santa Maria degli Angeli, dove furono radunati oltre 5000 frati e dove andò a visitarli san Domenico di Guzman, troviamo scritto: « E veggendo sedere in quella pianura intorno a Santa Maria i frati a schiera a schiera, qui quaranta, ove cento, dove ottanta insieme, tutti occupati nel ragionare di Dio, in orazioni, in lagrime, in esercizi di carità; e stavano con tanto silenzio e con tanta modestia, che ivi non si sentia uno romore, nessuno stropiccìo, e maravigliandosi di tanta moltitudine in uno così ordinata, con lagrime e con grande divozione diceva: Veramente questo si è il campo e lo esercito de’cavalieri di Dio!”.
Il cavaliere di Dio, per esempio, non partecipa a docufilm, come ha recentemente fatto il Papa gesuita nel prodotto cinematografico, che ha concorso al premio Oscar di quest’anno, dal titolo Papa Francesco. Un uomo di parola e diretto dal regista tedesco Wim Wenders, che ha come interesse: l’inquietudine (non pace interiore), il viaggio come ricerca di sé (privo di radici e di identità) e la scoperta delle diversità (egualitarismo). Il cavaliere sa chi è, da dove viene e che cosa deve fare in un mondo creato da Dio e proprio perché appartiene a Dio difende, seconda giustizia, fede, valori, i più deboli, mantenendo fermo il principio gerarchico dell’ordine delle persone e delle cose. È un uomo al servizio di Dio, che sparge sicurezza e dà sicurezza sia spirituale, sia morale che materiale.
Anche sant’Ignazio di Loyola, fondatore dei Gesuiti, è sempre stato un cavaliere, sia prima che dopo la conversione. Ma l’elenco potrebbe continuare a lungo: lo spirito del milite lo ebbero pure Teresa d’Avila, Giovanna d’Arco, Teresa di Lisieux, i vandeani, i Cristeros, il beato Rolando Rivi, il beato Francesco Giovanni Bonifacio, martire sotto il regime di Tito nel periodo delle Foibe, sì proprio quel Tito che nel 1980 Sandro Pertini, il Presidente partigiano rosso, che i media hanno sempre presentato come il «più amato degli italiani», andò ai funerali in veste ufficiale e baciò la bandiera sporca del sangue degli infoibati e del beato Giovanni Bonifacio…
Ebbene, i cavalieri sono i testimoni, intrisi di amore indiviso che conquistano le anime perché sono conquistati da Cristo, che opera in loro, donando la Sua pace, ed essi, di rimando, irraggiano la pace che vivono interiormente. La vita del cristiano non è una faccenda solo privata, come fanno i protestanti o tanti pseudocattolici, ma anche pubblica, come sta scritto nella prefazione al libro che offre risposte valide in ogni tempo:
«[…] la vita spirituale non può interessare solo la devozione, il cuore, la vita privata. La vita è una, e comprende la contemplazione del Vero, il servizio del Signore Gesù, la lotta contro le proprie passioni, la difesa della Chiesa, la presenza di Cristo nella vita sociale: tutte cose inscritte nello spirito della cavalleria. […] Se non vi è questa visione d’insieme, la vita cristiana diventa slavata, diluita, questione “privata” della singola anima. Ma un’esistenza che non sia unitaria, un credo che non incida nelle scelte della vita, è insopportabile. Avere due volti, due modi di ragionare (uno nella devozione privata e uno nelle scelte pratiche della vita) è un abominio».
Allora che cosa significa essere cavaliere oggi? È molto semplice, oltre che molto appagante già su questa terra e redditizio per la vita futura: «raccogliere l’eredità dei veri cattolici che ci hanno preceduti e continuare a viverne lo spirito. Certo, basterebbe il Vangelo», c’è tutto, infatti, nel Vangelo, «ma occorre che questo venga predicato nella sua verità e integrità. Lo spirito della cavalleria non inventa nulla di nuovo, ma rinvigorisce e purifica un ideale di vita cristiana che sembra essersi perso nel mare dei compromessi, degli accomodamenti, dei mescolamenti con la mondanità». È proprio come insegna il cavaliere sant’Ignazio negli Esercizi Spirituali: ci sono due bandiere, non mille o un milione, non c’è biodiversità, ma due stendardi, due spiriti: «quello di Cristo e della cristianità, e quello del mondo e dell’anticristo. Non c’è una zona franca centrale in cui galleggiare, dando un colpo al cerchio e uno alla botte, volendo essere un po’di Cristo ma non totalmente», nello stile veltroniano: «Sì, ma anche».
Cristo è esigente, ci vuole tutti interi in Paradiso, non a spizzichi e bocconi: se vogliamo appartenergli, dobbiamo esserGli fedeli, in privato come in pubblico. Se così avviene, allora avvengono miracoli, privati e pubblici. Questa la Storia della cristianità autentica. Le biblioteche, gli archivi, le chiese, le cattedrali, le abbazie, i monasteri trasudano di questa mirabile Storia che la Chiesa non trasmette più, ma se non c’è più memoria, ovvero Tradizione, c’è rivoluzione continua e distruzione. Affrontare la vita al modo del cavaliere è avere pietà della miserabile Chiesa odierna, vogliosa di apparire, ma non di pescare anime. La cavalleria va conosciuta: «Non si può criticare quello che non si conosce; ecco perché dobbiamo conoscere lo “spirito” della Cavalleria prima di criticarla. Poi ognuno faccia le proprie scelte».
Qui non si parla di Re Artù e dei cavalieri della tavola rotonda, neppure di elmi, spade o lance, ma di coerenza con il proprio Credo. Altrimenti è apostasia, infatti coloro che la professano non sono più credibili e hanno bisogno, come i politici, di endorsement.
https://www.riscossacristiana.it/scriptorium-rubrica-quindicinale-di-cristina-siccardi/

«Domani un prete di meno»

Il martirio di Rolando Rivi
 


di Cristina Siccardi

Pubblicato sul sito Santi e Beati





«Domani un prete di meno», questa la motivazione che venne data dal commissario politico della formazione partigiana garibaldina che uccise nel 1945 il seminarista Rolando Rivi di 14 anni.

Ci furono molte vittime fra il clero italiano durante la Seconda guerra mondiale e la guerra civile. Vittime dei nazisti, come don Giuseppe Morosini (1913-1944), accompagnato al supplizio dal Vescovo che lo aveva ordinato sacerdote; il futuro Cardinale Luigi Traglia (1895-1977); oppure come tanti sacerdoti e parroci assassinati dai partigiani e militanti comunisti, anche oltre il 25 aprile, come don Umberto Pessina (1902-1946).


Scrisse il Vescovo di Reggio Emilia, Beniamino Socche (1890-1965), nel suo diario: «…la salma di don Pessina era ancora per terra; la baciai, mi inginocchiai e domandai aiuto (…). Parlai al funerale (…) presi la Sacra Scrittura e lessi le maledizioni di Dio per coloro che toccano i consacrati del Signore. (…) Il giorno dopo era la festa del Corpus Domini; alla processione in città partecipò una moltitudine e tenni il mio discorso, quello che fece cessare tutti gli assassinii. Io  ̶  dissi  ̶  farò noto a tutti i Vescovi del mondo il regime di terrore che il comunismo ha creato in Italia».

In Emilia Romagna e soprattutto nel «Triangolo della morte» (Bologna, Modena, Reggio Emilia) perirono barbaramente 93 sacerdoti e religiosi; la maggior parte a seguito delle vendette dei «rossi».
Fra le vittime anche Rolando Rivi, colpevole di indossare la talare.


Il Papa, il 27 marzo 2013, ha autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare i Decreti riguardanti 63 nuovi Beati e 7 nuovi Venerabili: molti sono martiri della guerra civile spagnola, dei regimi comunisti dell’Europa Orientale e del nazismo. Fra di loro c’è anche il giovane seminarista, del quale libri di storia e mass media hanno debitamente taciuto… per non sporcare l’ “eroica” memoria della Resistenza rossa.


Rolando Maria Rivi nacque il 7 gennaio 1931 a San Valentino, borgo rurale del Comune di Castellarano (Reggio Emilia), in una famiglia profondamente cattolica. Brillante e vivace, di lui si diceva:  «o diventerà un mascalzone o un santo! Non può percorrere una via di mezzo».
Con la prima Comunione e la Cresima divenne maturo e responsabile. Rolando, ogni mattina, si alzava presto per servire la Santa Messa e ricevere la Comunione.

All’inizio di ottobre del 1942, terminate le scuole elementari, entrò nel Seminario di Marola (Carpineti, Reggio Emilia). Si distinse subito per la sua profonda fede. Amante della musica, entrò a far parte della corale e suonava l’armonium e l’organo.

Quando stava per terminare la seconda media, i tedeschi occuparono il Seminario e i frequentanti furono mandati alle loro dimore. Rolando continuò a sentirsi seminarista: la chiesa e la casa parrocchiale furono i suoi luoghi prediletti.
Sue occupazioni quotidiane, oltre allo studio, la Santa Messa, il Tabernacolo, il Santo Rosario. I genitori, spaventati dall’odio partigiano, invitarono il figlio a togliersi la talare; tuttavia egli rispose: «Ma perché? Che male faccio a portarla? Non ho voglia di togliermela. Io studio da prete e la veste è il segno che io sono di Gesù».


Questa pubblica appartenenza a Cristo gli fu fatale.

Un giorno, mentre i genitori si recavano a lavorare nei campi, il martire Rolando prese i libri e si allontanò, come al solito, per studiare in un boschetto. Arrivarono i partigiani, lo sequestrarono, gli tolsero la talare e lo torturarono. Rimase tre giorni loro prigioniero, subendo offese e violenze; poi lo condannarono a morte. Lo condussero in un bosco, presso Piane di Monchio (Modena); gli fecero scavare la sua fossa, fu fatto inginocchiare sul bordo e gli spararono due colpi di rivoltella, una al cuore e una alla fronte. Poi, della sua nera e immacolata talare, ne fecero un pallone da prendere a calci.

Era venerdì 13 aprile 1945.
 http://www.unavox.it/ArtDiversi/DIV2445_Siccardi_Rolando_Rivi.html

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