Degradazione volontaria, "demone della modernità". Se l’uomo moderno arrivasse a capire qual è il vero oggetto del suo odio, e cioè "se stesso", forse ne avrebbe paura e comincerebbe a chiedersi dove ha cominciato a sbagliare
di Francesco Lamendola
Abbiamo più volte sostenuto che la civiltà moderna è, nella sua essenza, demoniaca, e tale affermazione sarà senza dubbio apparsa eccessiva a tutte le anime belle che vorrebbero tenere il piede in due scarpe, sentirsi moderne ma anche critiche della modernità: e, in definitiva, tenersi in caldo i vantaggi, reali o supposti, che da essa derivano, rifiutandone però gli svantaggi, i rischi, i pericoli, il che è un atteggiamento cinico e opportunistico tipicamente moderno. Queste anime belle ci domandano quali sono i segni, gli indizi che la civiltà moderna è la civiltà del diavolo; e paiono voler dire che, se saremo in grado di mostrarli, allora, forse, saranno disposte ad accettare in qualche modo l’idea.
Di indizi e di segni, invero, ce ne sono così tanti, che vi sarebbe l’imbarazzo della scelta; uno, tuttavia, ci sembra che emerga con particolare evidenza, solo che si sia disposti a guardarlo bene in faccia, per così dire, senza indietreggiare davanti alle logiche conclusioni che ne derivano: ci riferiamo alla smania, ora furiosa, ora tranquilla, di degradazione, e soprattutto di auto-degradazione, che emerge chiaramente da tanta parte della poesia, della letteratura, del teatro, del cinema, della musica, dell’arte, dell’architettura, dell’urbanistica, della filosofia moderna. È una nota diffusa, capillare, onnipresente, che tende a sfuggire allo sguardo, ma solo perché è divenuta praticamente il paesaggio normale della modernità, per cui abbiamo finito per non farci più caso e per considerarla qualcosa di ovvio, e della cui assenza, semmai, ci stupiremmo. Il pubblico della società moderna si è talmente assuefatto a questo particolare aspetto del paesaggio umano, che non se ne duole, non se ne lamenta, non ci trova nulla di strano, allo stesso modo che una umanità ridotta a vivere nelle cantine, nelle fogne, nelle discariche, non si lamenta più, dopo due o tre generazioni, del chiuso, della mancanza di luce e d’aria fresca, e si stupirebbe, semmai, davanti allo spettacolo di un fiore che sboccia, o del profumo portato dal vento. Ma quando, fra dieci o ventimila anni, qualcuno verrà a frugare tra le rovine del nostro mondo, troverà un elemento inconfondibile per orientarsi nella varietà degli stili: troverà che l’elemento caratterizzante della civiltà moderna, dell’arte moderna, del pensiero moderno, è la voluttà di degradazione e di auto-degradazione, che distingue immediatamente i prodotti della modernità da quelli della civiltà greca, o della civiltà cristiana, o della civiltà rinascimentale. Nella filosofia di Heidegger e di Sartre, nei romanzi di Bataille o di Genet, nel teatro di Pirandello o di Beckett, nel cinema di Pasolini o di Fassbinder, nell’orinatoio di Duchamp e nella merda d’artista di Piero Manzoni, e il tristo elenco potrebbe seguitare per pagine e pagine, e comprenderebbe i nomi di Moravia, di Gadda, di Joyce, dei fratelli Mann (quanto male ha fatto, al gusto e all’immaginario del pubblico, l’Angelo azzurro di Heinrich, con o senza le lunghe gambe di Marlene Dietrich davanti alle quali si accuccia e guaisce come un cane il povero professor Unrat), in tutta questa marea fangosa ciò che emerge è una volontà diabolica di abbassare, sporcare, insozzare, degradare il più possibile la creatura umana, sprofondarla nel fango, nei liquami, nel vizio e nelle turpitudini più abominevoli, godere del suo avvilimento, con l’amara soddisfazione di Jonathan Swift davanti alla regressione fecale degli Yahoo, ma senza la sua vibrante moralità offesa, bensì per un gusto sempre più esplicito e sempre più satanico di trascinare nella rovina Sansone con tutti i Filistei, vale a dire, fuor di metafora, di sprofondare l’umanità, per una forma di rivalsa, nello stesso fetido pantano nel quale gli artisti, gli scrittori, i registi, i pensatori e tutta la pletora degli intellettuali rancorosi e parassiti si sono scavati la tana, nutrendosi di sporcizia come le mosche nella sozzura escrementizia.
A semplice titolo di esempio, ma potremmo scegliere altri cento o mille nomi, prendiamo i romanzi di Cesare Pavese, uno scrittore nel quale, ameno, vi è una tensione morale verso l’esterno del pantano della modernità, tensione che non c’è in Gadda o in Moravia, e la cui stessa vita testimonia la fatica di muoversi e scrivere entro un orizzonte spirituale così asfittico, come quello che la cultura dominante (e i compagni comunisti, in quel caso) volevamo cucirgli addosso, etichettandolo come neorealista, per poterlo arruolare a forza nelle loro file. Ecco cosa scriveva, su questo particolare aspetto della sua narrativa, il critico Roberto Cantini, con speciale riferimento alla trilogia de La bella estate, e specialmente all’ultimo dei tre romanzi, Tra donne sole (da: C. Pavese, La bella estate, Torino, Einaudi, 1949, e Milano, Mondadori, 1969, pp. 20-22):
Sembra che Pavese, in questi tre romanzi, e particolarmente nell’ultimo, abbia provato un gusto segreto nel degradare i suoi personaggi, e in definitiva se stesso, per padroneggiarli meglio, per imprimervi il fuoco della sua ira, della sua solitudine e disperazione. Non c‘è nulla di più assoluto e nudo dello squallore: e ogni pagina di questo libro ne è compenetrata, fino ad arrivare nel terzo romanzo, “Tra donne sole”, a una raffigurazione quasi grafica di codesto squallore nell’atelier di moda che la protagonista Clelia monta a fatica, tra le rovine di una Torino dopoguerra e le torture morali che affliggono tutti i personaggi. Clelia compresa, con la sua aria di finta superiorità. Né si ha mai, o quasi mai, una delimitazione completa di cose, personaggi, paesi, ambienti interni; la maniera di Pavese si mota qui fatta di contrazioni, di ammicchi, di illuminazioni violente: come un faro che penetri istantaneamente nella notte – in quella che doveva essere poi la sua tragica notte – e dopo aver rivelato per un momento un viso, una mano, un caseggiato, un cieco buco nel cielo, subito si spegne assurdamente, lasciando al lettore di immaginare il resto, o di non immaginarlo seguendo semplicemente la mimica delle parole. In questo modo egli contribuisce a ingigantire la disperazione e la noia dei singoli personaggi che immerge in un gelido orrore. […]
“La bella estate” – che al suo apparire suscitò commenti e critiche contrastanti – è parte cospicua della produzione di Pavese. In essa affiora il complesso dello scrittore verso le donne, la sua paura di vivere, il suo terrore del sesso: e (come si è accennato) c’è una qualità “grafica” di scrittura difficilmente raggiungibile. Lo attestano la strana amicizia di Amelia e di Ginia, col conseguente apporto sessuale reciproco, nel primo dei tre romanzi; Poli “debosciato mitico” (G. Manacorda), come è stato giustamente osservato – che si porta donne e uomini nella sua villa in collina, sofisticando all’infinito lui e gli altri, sul senso della vita (nel “Diavolo sulle colline”, il secondo romanzo), e infine Clelia, personaggio solo in apparenza “positivo”, in realtà stravagante e ossessivo, che smaschera la propria personalità in una affermazione sconcertante: “Io se non dovessi lavorare avrei vizi terribili”. Clelia è la protagonista dell’ultimo dei tre romanzi, che si chiude col suicidio di Rosetta e nel quale Pavese scrive: “Una volta almeno i suicidi li seppellivano di nascosto”. Tutti questi personaggi sono il punto focale della follia di Pavese, sono i grandi vermi che abitavano nel suo cervello e a cui ha saputo dare la forma più sapiente. […]
Abbiamo prima parlato di una volontaria “degradazione” di Pavese ne “La bella estate”. Non si deve però credere che questo termine venga usato materialmente, o, per meglio dire, con un pesante significato materiale. Questa degradazione è il risultato della tecnica di Pavese, nonché evidentemente della sua esperienza interiore. Non si dimentichi il celebre motto di Flaubert sul suo romanzo “Madame Bovary”: “M.me Bovary c’est moi” e neppure quegli altri grossi vermi che avevano un sicuro e provvidenziale alloggio nella testa di Charles Baudelaire.
In ogni modo Cesare Pavese deve essere letto soprattutto per quel che è, per quell’unico “ismo” che gli appartiene. Egli è uno scrittore realista, neorealista…
Cesare Pavese
Questa pagina di prosa, con le sue contorsioni e perversioni intellettuali, è un buon esempio della strana maniera con cui la critica si pone di fronte al fenomeno della degradazione artistica e umana, anche nei casi in cui lo vede e lo riconosce perfettamente. A parte la conclusione, agghiacciante, che vuole appioppare al povero Pavese l’unico “ismo” che non gli appartiene, quello di neorealista, del resto in linea con la pressione ideologica da sempre esercitata dai “compagni” sull’opera e sulla stessa personalità dello scrittore piemontese, fin dai banchi del liceo, con l’esiziale influenza del professor Augusto Monti; a parte questo, si noti con quanta disinvoltura viene indicata la volontà di degradazione dei personaggi pavesiani, e di Pavese stesso, salvo poi esorcizzare la portata di tale affermazione in due maniere.
Degradazione volontaria, demone della modernità
di Francesco Lamendola
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