ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 23 luglio 2018

L’ambigua interpretazione del ruolo della coscienza

HUMANAE VITAE, IL MODERNISMO “SOTTO ALTRI NOMI E’ ANCORA PRESENTE”

Mons. Melina, qual è il cuore della Humanae Vitae? È un orientamento ideale lasciato all’interpretazione della coscienza di ciascuno, come alcuni hanno sostenuto, o è una norma morale vincolante?
Il nucleo fondante dell’enciclica Humanae Vitae si trova nei paragrafi 12 e 14. Il n. 12 esprime in termini positivi il principio della “connessione inscindibile, stabilita da Dio, che l’uomo di sua iniziativa non può rompere, tra il significato unitivo e il significato procreativo che sono entrambi inerenti all’atto matrimoniale” – una dottrina, si dice, “spesso esposta dal magistero”. Inoltre, si esprime in termini negativi come norma conseguente, al n. 14: “È esclusa qualsiasi azione che, prima, al momento o dopo il rapporto sessuale, sia specificamente intesa a prevenire la procreazione – sia come fine che come mezzo“. L’atto contraccettivo è infatti definito come “intrinsecamente sbagliato” e “è un grave errore pensare che un’intera vita matrimoniale di relazioni altrimenti normali possa giustificare un rapporto sessuale deliberatamente contraccettivo“.

Queste affermazioni non possono essere interpretate come mere linee guida ideali valide per tutta la vita coniugale, perché l’insegnamento della Humanae Vitae fa esplicito riferimento ad ogni singolo atto coniugale. L’enciclica in questi due punti risponde chiaramente alla questione discussa e respinge la tesi (del ‘rapporto di maggioranza’ della Commissione che consigliava Paolo VI) che, in nome del cosiddetto “principio di totalità”, si pretende non si applichi ai singoli atti, ma solo alla vita matrimoniale nel suo insieme.
È un insegnamento dottrinale o solo disciplinare e pastorale?
Il n. 4 dell’enciclica del Beato Paolo VI afferma che questa risposta si fonda sulla “dottrina morale del matrimonio”, “fondata sulla legge naturale, illuminata e arricchita dalla rivelazione divina”, di cui il magistero della Chiesa non è l’autore, ma “custode e autentico interprete”Si tratta quindi di un pronunciamento dottrinale, basato sulla legge naturale, ma che gode anche della luce della rivelazione, data in modo autentico.
Le verità della fede e l’insegnamento morale non possono essere separati. Dal Concilio di Trento, poi dal Vaticano I e dal Vaticano II, la formula in fide et moribus indica l’oggetto di un autentico magistero, dato con l’aiuto dello Spirito Santo, che può essere oggetto di un insegnamento definitivo.
È infallibile nella Chiesa o discutibile? È riformabile?
Non si deve confondere un atto solenne del magistero con l’infallibilità. Il teologo [Mons. Ferdinando] Lambruschini, quando presentò alla stampa l’enciclica Humanae vitaepur negando che si trattasse di un atto solenne con la nota dell’infallibilità, la definì come un “pronunciamento autentico” della “dottrina cattolica“, con la qualifica di “non riformabilità“, che quindi chiedeva un “assenso leale e pieno, interiore ed esteriore. Va anche sottolineato che una dottrina può essere infallibile, anche se non è stata insegnata con un atto solenne del Magistero, che ne definisce la formula. Infatti, il cardinale Joseph Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, disse: “Secondo la definizione del Vaticano I e l’insegnamento del Vaticano II nella Lumen Gentium 25, il magistero del Papa gode del carisma dell’infallibilità quando proclama con atto definitivo una dottrina riguardante la fede e la morale. Anche l’intero corpo episcopale beneficia della stessa infallibilità, quando conservando il vincolo di comunione in se stesso e con il Successore di Pietro, insegna una proposizione da considerare definitiva. Ciò significa che il magistero può insegnare una dottrina riguardante la fede e la morale come definitiva, o con un atto definitivo (giudizio solenne) o con un atto che non ha la forma di una definizione (Introduzione alla Lettera Apostolica Ordinatio Sacerdotalis, 28 ottobre 1995).
L’insegnamento della Humanae Vitae fu insegnato da Paolo VI, Giovanni Paolo II e dai papi successivi, ricordando il costante giudizio dei vescovi cattolici su questo punto, come appartenente alla legge morale naturale, e quindi come verità definitiva, che la Chiesa non può cambiare. Questa dottrina di Humanae Vitae è stata poi accolta, e lo è stata da 50 anni, dal magistero ordinario dei vescovi, sparsi in tutto il mondo (segno di questo consenso è il Sinodo sulla Famiglia del 1980, e quello del 2014 e 2015). È necessario, quindi, concludere che questo insegnamento è definitivo, il che giustifica le chiare parole di san Giovanni Paolo II: “Ciò che la Chiesa insegna sulla contraccezione non appartiene a questioni liberamente contestabili tra i teologi. Insegnare il contrario equivale a indurre in errore la coscienza morale dei coniugi” (discorso 5 giugno 1987). Queste parole sono valide ancora oggi: chi mette in dubbio il valore irreformabile della dottrina della Humanae Vitae “trae in inganno la coscienza morale dei coniugi”.
Può esserci un’evoluzione della dottrina di Humanae Vitae?
Lo sviluppo della dottrina può certamente avvenire a condizione che non significhi negazione o contraddizione con quanto il Magistero ha insegnato prima: eodem sensu, eademque substantia(Vaticano I). La coerenza vitale con la Tradizione, senza aggiunte spurie e senza perdita di elementi essenziali, è una condizione per lo sviluppo organico, come insegnò il beato John Henry Newman. Altrimenti, cadiamo nel modernismo, che pretende di trasformare la dottrina dall’interno, adattando le sue formule alla coscienza e all’esperienza religiosa dei tempi. Fu proprio Paolo VI, in un’udienza del 19 gennaio 1972, a denunciare la sopravvivenza del modernismo, che “sotto altri nomi è ancora presente“, perché è espressione di una serie di errori che potrebbero “rovinare totalmente la nostra concezione della vita e della storia”.
Si presume che ci siano “cambiamenti di paradigma” che, pur sostenendo di non cambiare la dottrina, ne distorcono di fatto il significato, poiché rendono buono ciò che prima era male e male ciò che prima era bene. Lo spazio per lo sviluppo della dottrina è quello di un approfondimento antropologico e teologico, come è avvenuto nella “teologia del corpo” di San Giovanni Paolo II. Il limite proposto dalle norme morali negative, che riguarda le azioni intrinsecamente cattive, rappresenta un punto di verifica che uno sviluppo della dottrina non equivalga alla sua perversione. “Il cielo e la terra passeranno, le mie parole non passeranno”dice il Signore.
Qual è il rapporto tra norma e coscienza? In che senso c’è un primato di coscienza?
Il punto decisivo del dibattito attuale riguarda il rapporto tra la norma, insegnata da Humanae Vitae, e la coscienzaalla quale si vorrebbe attribuire il primato. Va ricordato che Papa Francesco in Amoris Laetitia, auspicando un migliore coinvolgimento della coscienza delle persone nella pratica della Chiesa, ribadisce che è necessario innanzitutto “favorire lo sviluppo di una coscienza illuminata, formata e guidata dal discernimento responsabile e serio del proprio pastore” (n. 303). Certamente è il giudizio della coscienza che determina il valore concreto di un atto, ma la coscienza morale deve essere formata nella sua dipendenza dalla verità sul bene e sul male.
Qui il punto decisivo è il magistero di San Giovanni Paolo II nell’enciclica Veritatis splendor, che non può essere dimenticato o messo da parte. Essa esclude la concezione autonoma o creativa della coscienza, che non è la fonte per decidere ciò che è bene e ciò che è male, poiché “profondamente impressa in essa [è] un principio di obbedienza nei riguardi della norma oggettiva (n. 60), l’espressione della verità sul bene e non un decreto arbitrario e mutevole di un’autorità umana. Per questo motivo “le circostanze o le intenzioni non possono mai trasformare un atto intrinsecamente malvagio in virtù del suo oggetto in un atto ‘soggettivamente’ buono o difendibile come scelta”. (No. 81).
Per quanto riguarda la discussione nel periodo del Sinodo sulla Famiglia, quali vantaggi ha portato al tema della Humanae vitae?
Se poi si considera lo sviluppo della discussione sinodale, si deve notare che l’ambigua interpretazione del ruolo della coscienza nell’applicazione della norma dell’Humanae Vitae 14, contenuta nello instrumentum laboris (137), preparato per l’Assemblea sinodale del 2015, non solo è stata oggetto di grande protesta (appello di 200 teologi moralisti), ma è stata effettivamente messa da parte dai padri sinodali nel documento finale e ciò indica, al di là delle manipolazioni mediatiche, quale fosse la loro vera intenzione.
C’è chi afferma che il vero sentimento di Paolo VI sarebbe stato molto più permissivo della lettera della Humanae vitae e dell’interpretazione poi affermata dalla Chiesa.
Paolo VI non era una banderuola meteorologica. Il giornalista della BBC che annunciò la pubblicazione dell’enciclica il 25 luglio 1968, confessò di ammirare il Papa, proprio per il coraggio di andare controcorrente, di fronte all’enorme pressione mediatica (e non solo). Sembra, dunque, veramente meschino e pietoso cercare di far apparire il beato Paolo VI come una persona timida, che per paura si sarebbe arresa alla questione decisiva della Humanae Vitae sotto la pressione curiosa dei tradizionalisti mentre il suo sentimento sarebbe stato diverso, con l’assurda pretesa di riconoscersi oggi come veri interpreti del suo sentimento profondo, (con l’assurda pretesa) che negli anni del dibattito quando lui fu aspramente contestato egli si sia schierato con il dissenso pubblico che tanto lo ha amareggiato.
Come giudica le interpretazioni sciolte che minano il valore normativo dell’enciclica del beato Paolo VI?
Altrettanto strumentale è l’interpretazione “spiritualista” di un’enciclica, dedicata ad illustrare un ideale e dei principi, ma senza giungere ad alcuna conclusione normativa e pratica (‘il problema della Humanae Vitae – si dice – non può essere ridotto a: pillola Sì, pillola No!’), che sarebbe affidata al primato della coscienza soggettiva.
In realtà la Humanae vitae è l’opposto di questo gnosticismo spiritualistico o di questo “docetismo morale” (R. Brown): È un’enciclica che parla della carne e della sua concretezza della intimità coniugale, perché sa bene che è lì che si decide la verità dell’amore, dell’autenticità delle relazioni e, in fondo, anche del bene comune di una società.
Sabino Paciolla
Humanae Vitae, la prova che Paolo VI non aveva dubbi
Nella testa di quanti vogliono "rovesciare" l'enciclica Humanae Vitae per aprire alla contraccezione, la ricerca storica di don Gilfredo Marengo doveva essere la carta decisiva: avrebbe dovuto dimostrare che Paolo VI dovette cedere alle pressioni dei cattivi conservatori. Invece, la ricerca - checché ne dica Avvenire - dimostra il contrario: Paolo VI era assolutamente convinto della illiceità assoluta della contraccezione, perché così era fin dal Principio.
“La rivelazione”: sono le prime due parole del titolo dell’articolo di Luciano Moia su Avvenire (vedi qui), dedicato alla nuova pubblicazione di don Gilfredo Marengo, sulla storia della “gestazione” dell’Enciclica Humanae Vitae (La nascita di un'Enciclica, Libreria Editrice Vaticana); un eccellente lavoro storico, che, oltre ad aver frugato nel Fondo Colombo, ha l’esclusiva di aver avuto accesso per la prima volta all’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede ed agli Archivi Segreti Vaticani, in merito alla documentazione relativa a Humanae Vitae. Dunque, una pubblicazione che non può non suscitare interesse e gratitudine.
Ma quale sarebbe, secondo Moia, questa incredibile “rivelazione”? Il fatto che papa Montini decise di bloccare il testo, ormai pronto per la pubblicazione, di quella che si sarebbe dovuta chiamare Lettera enciclica De nascendae prolis. Ridimensioniamo: una notizia, più che una rivelazione. Ma forse Moia aveva altre aspettative su questo testo, come si può notare da una sua risposta ad un lettore, pubblicata l’8 marzo (vedi qui): cercava la pistola fumante e non ha trovato neppure l’arma. Ed allora interpreta a modo suo il fatto: “Humanae vitae, una storia da riscrivere”. Addirittura. “Con buona pace dei detrattori ad oltranza ma anche di chi continua a indicarla come pronunciamento infallibile e irreformabile. Invece, come nella maggior parte delle vicende umane, la verità sta nel mezzo”.
Non è particolarmente entusiasmante l’idea che un buon criterio di individuazione della verità sia quello di cercarla nel mezzo di due estremi, se non altro perché basta spostare gli estremi, ed anche la “verità” risulta cambiata. Ma il fatto è che dalla documentazione fornita da Marengo, non risulta da nessuna parte che Paolo VI abbia cercato un posticino “nel mezzo”. Eppure Moia continua per la sua strada, spiegando che Paolo VI avrebbe saputo “attualizzare con efficacia un valore fondamentale della dottrina cristiana – cioè l’intimo collegamento tra l’amore e la fecondità – ma che poi nella traduzione normativa di quel principio, pur superando posizioni datate, ritenne opportuno [sic!] mantenersi nel solco della tradizione. Percorso non casuale ma che in qualche modo potremmo leggere come una decisione a metà strada tra l’intimo convincimento di Montini stesso e la necessità di non prendere le distanze in modo troppo divergente da una Segreteria di Stato e da una Congregazione per la dottrina delle fede ancora nettamente orientate alla difesa delle posizioni di sempre”. Chiaro, no? Un Montini che in cuor suo era distante dalla “posizioni di sempre”, ma che si trova di fronte agli arcigni della Curia che lo braccano. E lui ritiene perciò opportuno collocarsi a metà strada: né carne, né pesce.
Ma le cose non stanno così; almeno non è questo il Paolo VI che emerge dal libro di Marengo. Anzi, se c’è una cosa che si impone al lettore è che in nessun momento dell’iter che ha portato all’enciclica, Paolo VI abbia mai dubitato dell’immoralità della contraccezione né abbia mai ritenuto come meramente probabili le affermazioni, a riguardo, dei suoi predecessori Pio XI e Pio XII. La Commissione per lo studio sui problemi della popolazione, della famiglia e della natalità, riunitasi a Roma dal 25 al 29 marzo 1965, consegnò a Paolo VI la sintesi dei propri lavori, in cui si auspicava, tra l’altro, un’istruzione pastorale nella quale il Papa, scrive Marengo, “si limitasse a consigliare al clero un atteggiamento di benevolenza e comprensione per le coppie che ricorressero alla pillola… [perché] tale indicazione veniva appoggiata al convincimento che i precedenti interventi del magistero non fossero da considerare in assoluto irreformabili”; ebbene, la reazione di Paolo VI fu quella di rinviare il proprio intervento dopo la chiusura del Concilio, piuttosto che accettare il compromesso dell’istruzione pastorale: non voleva minimamente favorire, come spiega Marengo, l’idea che la Chiesa avesse incertezze in materia e che ci fosse possibilità di libera interpretazione sull’argomento. Papa Montini, secondo le sue considerazioni messe per iscritto in un appunto manoscritto del 28 luglio 1965, riteneva “inaccettabile una sostanziale sospensione di giudizio sui metodi leciti o meno di regolazione della natalità”.
Ci sono altri due interessanti indicatori di come Paolo VI fosse profondamento convinto della posizione insegnata da Pio XI e Pio XII, relativamente a quella che Moia chiama “traduzione normativa di quel principio”, e non cercasse affatto una posizione a metà strada. Il primo: il 23 novembre del 1965, il Cardinal Cicognani consegnò una lettera al Cardinal Ottaviani con quattro modi che il Papa richiedeva fossero introdotti nel testo. Motivo? Spiega Marengo: “La necessità di fare menzione dell’insieme delle dottrine del magistero supremo della Chiesa, con esplicito riferimento alla Casti connubii di Pio XI e ai discorsi di Pio XII alle ostetriche; l’assoluta necessità di una rinnovata condanna dei metodi anticoncezionali; l’esigenza di un’esplicita considerazione della castità coniugale”. Ancora più perspicuo fu l’intervento pubblico del 29 ottobre 1966, in occasione del 52° Congresso nazionale della Società italiana di ostetricia e ginecologia: “Il pensiero e la norma della Chiesa non sono cambiati; sono quelli vigenti nell’insegnamento tradizionale della Chiesa […] la norma finora insegnata dalla Chiesa… reclama fedele e generosa osservanza; né può essere considerata non vincolante, quasi che il Magistero della Chiesa fosse ora in stato di dubbio, mentre è in momento di studio e di riflessione”.
Le traversie del testo di HV, incluso il rifiuto del testo di De nascendae prolis, non hanno dunque la loro ragion d’essere nell’incertezza della posizione definitiva della Chiesa riguardo l’illiceità morale della contraccezione, bensì, secondo quanto emerge da una Nota d’ufficio del 15 settembre 1967 di p. Philippe, nuovo segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, nella modalità di presentare questo insegnamento certo: “La missione affidata dal Santo Padre a questo S. Dicastero… non è di dare un parere sul fondo della questione, giacché Sua Santità ha già preso la sua Augusta decisione in merito, bensì di esprimersi sul testo stesso, cioè sul modo di presentare questa decisione”.
Paolo VI aveva capito che non si poteva semplicemente ripetere il giudizio certo dei predecessori; occorreva ricercare fondamenta più profonde di quella verità. Ed in effetti fu su questo punto che si concentrarono le incertezze del Papa. I vescovi polacchi inviarono a Paolo VI il cosiddetto Memoriale di Cracovia, con il quale mettevano in luce proprio questo problema: era necessario un ancoraggio antropologico, comprendere l’atto coniugale come atto della persona. E’ su questo fondamento che è impossibile disunire il significato unitivo da quello procreativo, perché fu così dal Principio; il riferimento al Principio, come risulterà poi con estrema chiarezza dalle catechesi sull’amore umano di Giovanni Paolo II, è quello che permette di saldare la legge morale con il bene della persona, ed uscire dal falso dilemma se difendere l’una o l’altra.
Dunque la “rivelazione” di Marengo, come egli stesso riconosce, cioè la decisione di Paolo VI di bloccare il documento pronto per le traduzioni, nasceva proprio dalla consapevolezza che il suo pronunciamento rimaneva, da un punto di vista argomentativo, insoddisfacente. Né d’altra parte Paolo VI accettò la nuova proposta di mons. Martin e mons. Poupard, che avevano manifestato al Papa la loro insoddisfazione per il testo che si accingevano a tradurre, bloccandone così la pubblicazione. Osserva Marengo che Paolo VI, fermata la pubblicazione della De nascendae prolis, “subito dopo condivise la preoccupazione di Philippe per la quale una revisione di quel testo doveva, comunque, conservare tutto il contenuto dottrinale”, cosa che non emergeva dalla proposta Martin-Poupard. E così rifiutò anche questo testo.
Una parolina anche sulla frecciatina di Moia verso “chi continua a indicarla [l’enciclica HV] come pronunciamento infallibile e irreformabile”. Senza voler entrare nella dibattuta questione, bisognerebbe sgombrare una buona volta il campo da un pericoloso equivoco che il cardinale Leo Scheffczyk riassumeva in questi termini: si “mette accanto al magistero infallibile un cosiddetto magistero fallibile, cosicché la fallibilità apparterrebbe a tale magistero quasi come un attributo permanente”. Ora, il Magistero della Chiesa, in qualunque forma si esprima, esiste per trasmettere “intatte e difese da ogni contaminazione ed errore”, diceva Pio XII in un Radiomessaggio del 1952, “sia la legge scritta nel cuore, ossia la legge naturale, sia le verità e i precetti della rivelazione soprannaturale”. Il Magistero autentico non esiste per esprimere opinioni, ma per confermare nella verità ed allontanare dall’errore. Riguardo al Magistero infallibile, mons. Ocariz, in un articolo del 1988 apparso sulla rivista Anthropotes, esortava a ricordare che “l’infallibilità non è attributo delle dottrine ma del soggetto del magistero, quando si verificano certe condizioni; si potrebbe perciò dire anche che l’infallibilità è attributo di certi atti d’insegnamento”. Il che significa che esistono insegnamenti della Chiesa veri, certi, definitivi che pure non sono (ancora) stati espressi con un giudizio infallibile.
Cosa dire dell’insegnamento della Chiesa sulla contraccezione? Quanto espresso nei numeri 11 e 14 di HV non è un unicum nell’insegnamento della Chiesa: ha dei precedenti e dei conseguenti. Nel suo Discorso ai partecipanti al II Congresso Internazionale di teologia morale, del 1988, Giovanni Paolo II, a riguardo, ricordava “Non si tratta di una dottrina inventata dall’uomo: essa è stata inscritta dalla mano creatrice di Dio nella stessa natura della persona umana ed è stata da lui confermata nella rivelazione”. Il Papa escludeva poi la possibilità di richiamarsi alla coscienza per rifiutare questo insegnamento del Magistero, che, senza troppi giri di parole, egli definiva “insegnamento certo”. E così sbarrava la strada ad ogni altro tentativo di messa in discussione: “Paolo VI, qualificando l’atto contraccettivo come intrinsecamente illecito, ha inteso insegnare che la norma morale è tale da non ammettere eccezioni: nessuna circostanza personale o sociale ha mai potuto, può e potrà rendere in se stesso ordinato un tale atto”.
Questo ancoraggio alla Rivelazione, alla Tradizione, al Magistero è più che sufficiente per affermare che quanto insegnato da HV è certo, come afferma ancora Giovanni Paolo II in un discorso del 1984: “dal fatto che essa è contenuta nella Tradizione e […] è stata ‘più volte esposta dal Magistero’ (HV 12) ai fedeli, risulta che questa norma corrisponde all’insieme della dottrina rivelata contenuta nelle fonti bibliche (cf HV 4)”.
Questo non significa che HV sia irreformabile in toto, ma è certo che l’insegnamento sulla contraccezione non può essere rovesciato. Anzi, HV è già stata in qualche modo riformata, secondo l’unica accezione che un cattolico può dare a questo termine. E fu lo stesso Giovanni Paolo II a farlo. Il compianto Cardinal Caffarra riferisce che, parlando con lui proprio di HV, più volte il papa polacco gli confidò che “la grande Enciclica di Paolo VI arrivò in un momento in cui la Chiesa non possedeva una robusta, adeguata antropologia […] E il Santo Pontefice aggiungeva che bisognava riscoprire e ripensare la verità antropologica implicata in quell’insegnamento della Chiesa, oggettivata nell’Enciclica”. E così fece. Risultato? L’insegnamento di HV sulla contraccezione vincola definitivamente, non perché sia frutto della morale della casistica, ma perché così era dal Principio. E’ esattamente la linea della risposta di Gesù ai farisei casuisti, che dicevano sì al divorzio “in certi casi”. Ma Gesù oppone loro che non era così dal Principio. Chissà che non serva a qualcuno per capire.
Luisella Scrosati

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