ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 29 agosto 2018

Audio e cine a SantaMarta?

Clamorosa contestazione all’udienza del Papa. Dalla folla il grido: “Vi-ga-nò Vi-ga-nò” (video)



Contestazione senza precedenti in piazza San Pietro durante l’udienza del mercoledì di Papa Francesco. Al termine del discorso ai fedeli, subito dopo la benedizione impartita da Bergoglio alla folla, dalla folla si è alzato il grido “Vi-ga-nò Vi-ga-nò”. Un coro ben distinguibile, quindi intonato da almeno una decina di fedeli presenti in piazza San Pietro. Più o meno esplicitamente è stato un invito alle dimissioni del pontefice.
Il coro infatti fa esplicito riferimento all’arcivescovo Carlo Maria Viganò, ex nunzio di Washington, che nei giorni scorsi ha sollecitato le dimissioni di Papa Francesco, accusandolo di avere insabbiato le denunce di pedofilia contro il cardinale Theodore McCarrick. Papa Bergoglio, all’udienza generale in piazza san Pietro  ha ripercorso i momenti principali della visita in Irlanda ma senza fare alcun cenno sul dossier del nunzio apostolico negli Usa, proprio come aveva anticipato anche domenica sera («Starò zitto poi si vedrà, intanto fatevi voi un giudizio»).

http://www.secoloditalia.it/2018/08/clamorosa-contestazione-alludienza-del-papa-dalla-folla-il-grido-vi-ga-no-vi-ga-no-video/




Il metodo di Francisco I da Buenos Aires di fronte alle difficoltà dialettiche a me ricorda molto quello del mio vecchio parroco sessantottino. Non rispondere. Quando appare una difficoltà di qualsiasi genere, riguardasse pure il proprio apostolato, non si deve rispondere. Al limite sghignazzare, fare spallucce o improvvisare espressione pacatamente desolata. Chiedi di pubblicare un articolo per ribadire la dottrina cattolica? Non avrai risposta. Lo invii lo stesso? Non verrà pubblicato. Ti lamenti del fatto che non è vero che Gesù si è fatto peccatore, come spiegato in omelia? Ottieni sghignazzi. Cerchi conforto per il suicidio di un familiare? Il monsignore non sa cosa dire, il colloquio finisce nell’arco di circa 2 minuti, in ogni caso meno dell’improvvisa telefonata dell’architetto idiota che annuncia il rincaro del 25% sul preventivo dei gabinetti dell’oratorio.
La medesima tattica di Bergoglio. Dubia? Spallucce. Accuse di mons. Viganò? Silenzio. Anzi, peggio: oltre a non rispondere, Sua Misericorditudine eleva a corte suprema sulle verità della Chiesa il codazzo agnostico di giornalisti che lo segue sull’aereo, delegando un fatto di portata epocale alla “capacità giornalistica di trarre le proprie conclusioni”. “Quando passerà un po’ di tempo e avrete tratto le vostre conclusioni, potrò parlare. Ma vorrei che la vostra maturità professionale facesse il lavoro per voi”: ha consegnato così, alla maturità professionale dei membri della stampa, con un atto di fede totalmente sconsiderato, la criteriologia della suprema autorità cattolica. O di quella che sembra esserlo. Con la stessa faccia desolata del mio vecchio parroco e con l’aggravante che chi dovrebbe confermare nella fede il mondo cattolico, invece lo confonde, anche se finge un’espressione che, più che desolata, sembra “desalata”. Non c’è più sale sulla terra?
Però, dall’ennesimo pasticcio vaticano in salsa chimichurri possiamo trarre una conclusione logica utile e veritativa. Se Viganò nella sua lunga lettera afferma che, quando espose il fascicolo McCarrick, rispondendo alla cosiddetta “domanda a trabocchetto”, Francesco non rispose nulla cambiando subito discorso e, come era presumibile, ora i giornalisti chiedono giustamente a questo proposito un chiarimento, ma Francesco persevera nel non rispondere nulla, significa che le affermazioni di Viganò riguardo all’atteggiamento del vescovo di Santa Marta sono più che attendibili: riflettono un metodo costante, il vero e proprio modus operandi – che poi non riflette altro che il suo modus cogendi – scientifico di Bergoglio di fronte alle complicazioni (probabilmente di ogni genere).
Certo efficace nel breve periodo, ma alla lunga rivelatore di verità taciute. Se l’osservazione sembra banale, il dato di fatto è incontestabile. Intanto il tempo passa. Nessuno sa dire con certezza se la sabbia di questa clessidra scorra verso un redde rationem finale o la fine perversa di tutte le cose.
Nel frattempo, ci permettiamo umilmente a Sua Misericorditudine un motto episcopale adatto allo stile del pontificato: “Me ne frego”. Che in latino potrebbe suonare “Non curamus”, in spagnolo “No me importa” e, nel sempre schietto romanesco, “Me ne stoppo”.
 – di Matteo Donadoni
By Redazione On 29 agosto 2018 · 3 Comments

CHIESA: TRA PROCLAMI E IPOCRISIA

 La Chiesa contro la pedofilia? Nella Chiesa come si vive la sessualità? Con questo sistema, questo rifiutare di mettersi in gioco in prima persona come possiamo pretendere di essere sacerdoti e ancor prima uomini credibili?
 di Don Floriano Pellegrini
 Baliato dai Coi( in Val di Zoldo )Coi, 29 agosto 2018
0 GALLERY PELMO COL

La Chiesa contro la pedofilia: tra proclami e ipocrisia  

Messo con le spalle al muro da fatti innegabili, papa Francesco s’è visto costretto a riparlare dello scandalo degli abusi sessuali compiuti da alcuni sacerdoti. L’arcivescovo Viganò, già nunzio del Vaticano negli Stati Uniti, l’ha accusato per scritto di connivenza e aver cercato finora di far calare il silenzio su tali abusi; è evidente che l’arcivescovo sa molte cose.
In effetti, la strategia del cercare di mettere tutto a tacere ha caratterizzato sinora la Chiesa. Vescovi e Papi, pur sperando di non darlo a vedere, sono stati perlopiù dei pusillanimi. Ricordo benissimo quanto successo a Pelos di Cadore e coinvolse Albino Luciani. Un sacerdote era sceso ad atti concreti di abuso sessuale esplicito. Il pievano di Vigo, mons. Longiarù, informato da una delle vittime, si rivolse immediatamente al parroco di Lozzo, don Costantini, e, da grandi preti quali essi erano, scesero a parlarne all’allora vescovo di Vittorio Veneto, mons. Luciani. Che si recò dal vescovo di Belluno, mons. Muccin, e l’indegno sacerdote… venne trasferito in un’altra parrocchia, pur lontana. Tutto qua. Non ebbe alcun processo, alcuna punizione e continuò a fare il prete e anche il resto? C’è, pertanto, uno scandalo nello scandalo, dal quale non va esente neppure la buonanima di Luciani. È quel certo farsi scudo tra sacerdoti, quel volersi dar ragione anche quando si ha torto marcio (sempre pronti però ad accusare chi si vuol mettere fuori gioco). Questa è la vera radice del clericalismo che il Papa dice ora di denunciare, ma, mentre lo denuncia, è sotto gli occhi di tutti che anche lui l’ha praticato, quando gli è riuscito. E allora? Ha ragione Viganò: dovrebbe dimettersi e lasciare che nella Chiesa entri aria nuova, più pulita ed evangelica!
Ben faranno le diocesi, imitandolo, a fare delle verifiche; ma hanno vera intenzione di farle? Se sì, perché tra noi preti, ad esempio, vescovi e vicari generali non hanno mai voluto si parlasse in modo serio e comunitario, almeno una volta (ed ho 62 anni), di come viviamo la sessualità? Con questo sistema, con questo rifiutare di mettersi in gioco in prima persona, come possiamo pretendere di essere sacerdoti e ancor prima uomini credibili?   

                                                                                                                                      Don Floriano Pellegrini

Libia. Ma quali foto hanno mostrato al Pontefice?

“Prima di mostrarli al Pontefice, i video sono stati (da noi) verificati”. Peccato che i redattori  de L’Avvenire,  prima di presentare come “autentici” i video (e/o i fotogrammi di questi)  a Papa Bergoglio non si siano degnati neanche di dare una occhiata a qualche sito italiano (ad esempio il blasonato Butac, che riprende una inchiesta del sito Snopes, corredata da un interessante video) che attesta come, ad esempio, la raccapricciante foto mostrata da L’Avvenire come (“Fermo immagine dal video dei lager libici”) e  sbandierata anche da Repubblica (foto n. 3), non rappresenti affatto “migranti torturati nei lager della Libia” bensì tre presunti criminali catturati in Nigeria nel 2017dalla folla prima di essere consegnati alla polizia. Del resto, non è questa l’unica immagine fake che dovrebbe documentare le torture a richiedenti asilo imprigionati in Libia. Ad esempio, quella, famosissima, dei segni delle frustate sulla schiena è stata creata da un intraprendente nigeriano, esperto in Makeup – tale Hakeem Onilogbo – che crediamo abbia fatto una fortuna vendendo foto raccapriccianti ai media occidentali. Media che si direbbero prendano per buona qualsiasi “documentazione dalla Libia”; come, ad esempio una fustigazione ripresa chissà dove e che viene presentata dalla RAI come “video girato con smartphone di profughi frustati e picchiati in lager libici” o addirittura il farlocchissimo video diffuso dalla CNN nel quale due tizi sorridenti (presunti “richiedenti asilo in Libia”) vengono venduti come “schiavi” da un tizio provvidenzialmente celato da un muro.

Ma tutto questo significa forse che i richiedenti asilo che si trovano in Libia non sono sottoposti a vessazioni, detenzioni arbitrarie, violenze? Assolutamente no. La loro condizione è drammatica, sopratutto quando chi viene incaricato di “provvedere ad essi” sono bande di criminali. Ad esempio, le sanguinarie “milizie di Misurata” alle quali, nel 2017 - verosimilmente per non turbare l’esito delle elezioni politiche dell’anno successivo - il ministro Minniti tentò di affidare (pare, in cambio di cinque milioni di dollari) il compito di non far sbarcare più richiedenti asilo in Italia. Oggi, le cose sono cambiate. In meglio, nonostante impazzi una campagna mediatica senza precedenti che accusa la Guardia costiera libica di riportare i migranti in “campi di tortura”. E chiunque si permette di mettere in dubbio questa vulgata finisce, ovviamente, per essere etichettato come “razzista” o, addirittura, “al soldo di Salvini”.

Intanto, una precisazione. Con la distruzione dello stato libico (nel quale, fino al 2011 lavoravano ben 1.800.000 migranti) moltissimi dipendenti pubblici, per sopravvivere, sono stati costretti a vendersi a qualche fazione o banda sponsorizzata dai padroni di turno.  
È  stato questo anche il destino della Guardia costiera libica che, fino al 2017, si identificava con la Milizia di Zawiya, (la cosiddetta Al-Bija, dal nome del suo comandante). Nell’estate 2017 - con l’accordo tra Gentiloni e il “nostro” presidente libico Fayez al-Serraj - le cose cambiano. Viene estromessa la banda di Al-Bija e istituita una zona SAR (ricerca e salvataggio) di competenza della rinata Guardia costiera libica la quale, addestrata da personale della nostra Guardia costiera, riceve dall’Italia e dall’Unione Europea natanti e strumenti per potere operare. A questa situazione si accompagna un netto miglioramento dei centri dove venivano e vengono trattenuti i richiedenti asilo riportati in Libia dalla Guardia costiera. Centri che attualmente sono gestiti dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) e , nonostante un patetico appello, con l’ausilio di ONG italiane vincitrici di una gara di appalto bandita dal Ministero dell’Interno. Nonostante l’indubbio miglioramento della situazione garantito da questi accordi, alla fine del 2017 parte una colossale campagna di demonizzazione della Guardia costiera libica basata su un dossier della sorosiana Open Migrationche - sia detto en passant - mai aveva speso una parola contro la Milizia di Zawiya (forse perchè, come attestato da numerose inchieste, era quella che “riforniva” di richiedenti asilo le navi delle ONG dirette in Italia). Campagna che ora tocca l’apice (speriamo) con la presentazione delle fotografie al Papa.

Si rallegra, a tal riguardo L’Avvenire: "Prima di rimandarli indietro ci si deve pensare bene" ha affermato il Papa, proprio mentre in Italia la polemica sull'accoglienza ai migranti si fa sempre di più nodo dolente della politica. E se i racconti di chi sopravvive a tanta brutalità non bastano più, a parlare per loro ora ci sono le immagini. Bisogna avere stomaco per guardarle fino in fondo: il Papa, sempre vicino ai sofferenti, non ha esistato. Ha visto le prove: e sa di cosa parla.”

Ma, al di là delle macchinazioni de L’Avvenire - lo ripetiamo ancora una volta - la situazione dei richiedenti asilo in Libia (sia quelli riportati a terra dalla Guardia costiera sia quelli lì arrivati sperando di poter raggiungere l’Europa) resta drammatica; anche perché la Libia è costellata da “prigioni private” dove i trafficanti rinchiudono migranti per poi, tramite video-smartphone  chiedere soldi ai loro parenti. Una situazione determinata, principalmente dalla dissoluzione di uno Stato e, quindi, dalla guerra del 2011 (salutata come “umanitaria” da tanti allocchi della “sinistra antagonista” italiana).

Che fare per lenire questa situazione? “Aprire i porti italiani”, come viene incessantemente chiesto (certamente in buona fede) da tanti della “sinistra antagonista”? Di certo, garantire a chiunque mette piede in Libia di essere accolto in Italia e, quindi, in Europa farebbe crescere esponenzialmente l’afflusso di disperati in Libia con le conseguenze che è facile immaginare. E allora cosa concretamente fare? Ci auguriamo che la questione diventi, finalmente, argomento di dibattito e discussione per i tanti che oggi si limitano a salmodiare accuse di “razzismo”.

Francesco Santoianni

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