ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 8 agosto 2018

L’individuo di fronte alla legge morale

La pena di mortedi Romano Amerio 



187 – La pena di morte.

Vi sono delle istituzioni della società che derivano dai principii del diritto naturale e che come tali godono in varie forme di perpetuità: tali sono lo Stato, la famiglia, il sacerdozio; e ve ne sono di quelle che, partorite da un certo grado di riflessione su quei principii e da circostanze storiche, devono cadere quando la riflessione passi a un grado ulteriore o quelle circostanze cessino: tale, per esempio, la schiavitù.
La pena di morte fu sino a tempi recenti e giustificata teoreticamente e praticata in tutte le nazioni come l’estrema sanzione con cui la società percuote il malvagio col triplice scopo di riparare l’ordine della giustizia, di difendersi e di distogliere altrui dal delitto.
La legittimità della pena capitale è fondata su due proposizioni.
Prima: la società ha diritto di difendersi; seconda: la difesa importa tutti messi necessari alla difesa. La pena capitale è dunque contenuta nella seconda proposizione a condizione che il togliere la vita a un membro dell’organismo sociale risulti necessario alla conservazione della totalità.

La crescente disposizione dei contemporanei alla mitigazione delle pene è per un canto un effetto degli spiriti di clemenza e di mansuetudine proprii del Vangelo, contraddetti per secoli da efferati costumi giudiziari. E’ bensì vero che l’orrore del sangue, per una contraddizione che qui non importa indagare, perseverò nella Chiesa. Conviene infatti ricordare che non pure il carnefice era dal diritto canonico colpito di irregolarità, ma persino il giudice che condanna a morte iuxta ordinem iuris e persino chi perora e chi testimonia in una causa capitale, se ne segua un’uccisione,

La controversia non verte sul diritto della società a difendersi, che è l’inattaccabile premessa maggiore del sillogismo penale, bensì sulla necessità di togliere di mezzo l’offensore per difendersene, che ne è la minore.
La dottrina tradizionale da sant’Agostino a san Tommaso e al Taparelli d’Azeglio è che il giudizio circa la necessità, la quale condiziona la legittimità della pena, sia un giudizio storico e variabile a seconda del grado di unità morale della comunità politica e secondo la maggiore o minore forza che il bene comune consociante deve esplicare contro l’individualismo disgregante. Anche i sistemi di abolizione della pena capitale, a cominciare dal Beccaria, posta la maggiore del sillogismo, danno alla minore carattere puramente storico, perché ammettono in dati frangenti (la guerra per esempio) la soppressione dell’infrattore. Anche la Svizzera durante l’ultima grande guerra condannò a morte per fucilazione diciassette persone colpevoli di alto tradimento.

188. L’opposizione alla pena capitale.

L’opposizione alla pena capitale (1) può nascere da due motivi eterogenei e incompatibili e conviene giudicarla dagli aforismi morali da cui procede.
Può infatti sorgere dall’esecrazione del delitto congiunta con la commiserazione per l’infermità umana e con il senso della libertà dell’uomo, capace finché dura la vita mortale di risorgere da ogni caduta.
Può però anche derivare dal concetto dell’inviolabilità della persona in quanto soggetto protagonista della vita mondana, prendendosi l’esistenza mortale come un fine in sé che non può essere tolto senza violare il destino dell’uomo. Questo secondo modo di rigettare la pena di morte, benché si riguardi da molti come religioso, è in realtà irreligioso. Dimentica infatti che per la religione la vita non ha ragion di fine ma di mezzo al fine morale della vita, che trapassa tutto l’ordine dei subordinati valori mondani.
Perciò togliere la vita non equivale punto a togliere all’uomo definitivamente il fine trascendente per cui è nato e che ne costituisce la dignità. L’uomo può «propter vitam vivendiperdere causas», cioè rendersi indegno della vita perché prende la vita come quel medesimo valore a cui invece essa serve. Per questa ragione vi è in quel motivo un sofisma implicito, che cioè l’uomo e in concreto lo Stato abbia il potere, uccidendo il delinquente, di troncargli il destino, di sottrargli il fine ultimo, di togliergli la possibilità di adempiere il suo officio di uomo.
Il contrario è vero. Al condannato a morte si può troncare l’esistenza, non però togliergli il suo fine.
Le società che negano la vita futura e pongono come massima il diritto alla felicità nel mondo di qua devono rifuggire dalla pena di morte come da un’ingiustizia che spegne nell’uomo la facoltà di felicitarsi.
Ed è un paradosso vero, verissimo che gli impugnatori della pena capitale stanno per lo Stato totalitario, giacché gli attribuiscono un potere molto maggiore che non abbia, anzi un potere supremo: quello di troncare il destino di un uomo (2). Non potendo la morte irrogata da uomini a uomini pregiudicare né al destino morale né alla dignità umana, tanto meno può impedire e pregiudicare alla giustizia divina la quale fa giudizio di tutti i giudizi.
Il senso del motto che stava sulla spada del boia di Friburgo: «Seigneur Dieutu est le  juge» non è l’identificazione della giustizia umana con la divina, ma al contrario riconoscimento di quella suprema giustizia che giudica tutte le nostre giustizie.

Si oppone ancora l’inefficacia della pena capitale a distogliere dal delitto e si reca in suffragio la celebre sentenza di Cesare che nel processo ai Catilinari diceva minor male la morte, fine dell’infamia e della miseria dello scellerato, che non il durare di lui nell’infamia e nella miseria. Ma l’obiezione è confutata dal sentimento universale, che ha ispirato l’istituto giuridico della grazia, nonché dal fatto che gli scellerati medesimi si stringono talora con patti sigillati dalla morte in caso di fedifragio.
Essi confermano con una testimonianza competente l’efficacia dissuasiva della pena capitale.

189. Variazione dottrinale nella Chiesa.

Anche nella teologia penale si delinea nella Chiesa una variazione importante.
Citeremo soltanto documenti dell’episcopato francese che sosteneva nel 1979 doversi in Francia abolire la pena di morte come incompatibile col Vangelo; quelli dei vescovi canadesi e nordamericani, nonché gli articoli di OR, 22 gennaio 1977 e 6 settembre 1978, che perorano l’abolizione della pena di morte come lesiva della dignità umana e contraria al Vangelo.

Quanto all’ultimo argomento è da osservare che, senza accogliere, anzi respingendo la celebrazione della pena capitale fatta da Baudelaire come di un atto altamente sacro e religioso, non si può d’un tratto cancellare la legislazione del Vecchio Testamento che è una legislazione di sangue. Non si può similmente cancellare d’un tratto non dico la legislazione canonica, ma l’insegnamento stesso del Nuovo Testamento.
So bene che il luogo tipico di Rom., 13, 4 che dà il ius gladii ai prìncipi e li chiama ministri di Dio per castigare i malvagi, viene, secondo i canoni ermeneutici dei neoterici, svigorito come espressione di una condizione storica trapassata. Però, nel discorso del 5 febbraio 1955 ai giuristi cattolici Pio XII ha rigettato esplicitamente tale interpretazione sostenendo che quel versicolo ha un valore durevole e generale giacché si riferisce al fondamento essenziale del potere penale e della sua finalità immanente.
Inoltre nel Vangelo il Cristo permette per indiretto la pena capitale, giacché egli dice esser meglio per l’uomo venir dannato a morte per affogamento che far peccato di scandalo (Matth., 18, 6). E in Act., 5, 1-11 appare che la pena di morte non aborrì la comunità cristiana primitiva, poiché i coniugi Anania e Saffira, rei di frode e di menzogna ai danni dei fratelli, comparsi davanti a san Pietro ne furono colpiti. Sappiamo dai commenti biblici che tale condanna fu tacciata di crudeltà dai nemici contemporanei del cristianesimo.

La variazione operata si palesa su due punti.
Nella nuova teologia penale non si fa alcuna considerazione di giustizia e tutta la questione gira sull’utilità della pena e sull’idoneità di essa a recuperare, come si dice, il reo alla società. Qui il pensiero neoterico si ricongiunge, come in altri punti, all’utilismo della filosofia giacobina.
L’individuo è essenzialmente indipendente e lo Stato può difendersi dal delinquente, ma non castigarlo perché abbia infranto la legge morale, cioè perché sia moralmente colpevole. Tale incolpevolezza del reo si trasfonde poi in una minore considerazione della vittima e perfino in una preferenza accordata al reo sopra l’innocente. In Isvezia l’ex-detenuto è privilegiato nei concorsi a pubblici impieghi in confronto al cittadino incensurato. La considerazione della vittima eclissa davanti alla misericordia per il malvagio. L’assassino Buffet salendo alla ghigliottina grida la sua speranza «di essere l’ultimo ghigliottinato di Francia». Doveva gridare quella di essere l’ultimo assassino.
La pena del delitto sembra più detestabile del delitto e la vittima cade nell’oblìo.
La restaurazione dell’ordine morale violato con la colpa viene rifiutata come atto di vendetta. Eppure essa è un’esigenza di giustizia che si deve perseguire anche se non si può annullare il male preterito e se è impossibile l’emendamento del reo.
Lasciamo di rilevare che questo ferisce il concetto medesimo della giustizia divina la quale percuote di pena i dannati fuori di ogni speranza o possibilità di ravvedimento. Ma il concetto stesso di redenzione del reo è ridotto a una mutazione di ordine sociale. Secondo OR del 6 settembre 1978, la redenzione è «la consapevolezza di tornare a rendersi utile ai fratelli» e non già, come vuole il sistema cattolico, la detestazione della colpa e il raddrizzamento della volontà ricondotta alla conformità con l’assoluto della legge morale.

E quando poi si argomenta non potersi troncare la vita di un uomo perché gli si sottrarrebbe la possibilità dell’espiazione, si neglige la gran verità che la pena capitale medesima è un’espiazione.
Certo nella religione dell’uomo espiazione è primariamente il convertirsi dell’uomo agli uomini. Bisogna quindi concedere il tempo a questa conversione e non abbreviarlo. Nella religione di Dio espiazione è primariamente invece il riconoscimento della maestà e signoria divina la quale, conformemente al principio della puntualità della vita morale, si deve riconoscere in ogni momento, e si può.

L’OR, 22 gennaio 1977, combattendo la pena di morte, scrive che al delinquente «la comunità deve concedere la possibilità di purificarsi, di espiare la colpa, di riscattarsi dal male mentre l’estremo supplizio non la concede».
Così scrivendo il giornale nega il valore espiatorio della morte che nella natura mortale è sommo, come sommo (nella relatività dei beni del mondo di sotto) è il bene della vita al cui sacrificio consente chi espia. D’altronde l’espiazione del Cristo innocente per i peccati dell’uomo è connessa con una condanna a morte.
Non sono inoltre da dimenticare le conversioni di giustiziati operate da san Giuseppe Cafasso e anche soltanto alcune lettere di condannati a morte della Resistenza (3). L’estremo supplizio, grazie anche al ministero del sacerdote che si mette tra il giudice e il carnefice, diede luogo sovente a mirabili cangiamenti morali, da quello di Niccolò di Tuldo, confortato da Caterina da Siena, che ne lasciò il ragguaglio in una lettera famosa, a quello di Felice Robol, assistito sul patibolo da Antonio Rosmini (4), da quello di Martin Merino che attentò nel 1852 alla regina di Spagna, a quello a noi contemporaneo di Jacques Fesch, ghigliottinato nel 1957, le cui lettere dal carcere sono un testimonio commovente di una perfezione spirituale di predestinato (5).

L’aspetto dunque più irreligioso della dottrina che respinge la pena capitale risalta nel rifiuto del suo valore espiatorio il quale nella veduta religiosa è invece massimo perché include il supremo consenso alla privazione suprema nell’ordine dei beni mondani.
Calza a questo proposito la sentenza di san Tommaso secondo il quale la condanna capitale cancella oltre che ogni debito di pena dovuta per il delitto all’umano consorzio, persino ogni debito di pena nell’altra vita. Giova riferire le parole precise “Mors illata etiam pro criminibus aufert totam poenam pro criminibus debitam in alia vita vel partem poenae secundum quantitatem culpae, patientiae et contritionis, non autem mors naturalis» (6).
La forza morale della volontà espiante spiega anche l’infaticabile sollecitudine con cui la Compagnia di S. Giovanni Decollato, che accompagna al supplizio i condannati, moltiplicava le suggestioni, le istanze, gli aiuti per procurare di muovere al consenso e all’accettazione l’animo del morituro e così far che morisse, come dicevasi, in grazia di Dio (7).


190. Inviolabilità della vita. Essenza della dignità umana. Pio XII.

L’argomento precipuo della nuova teologia penale rimane però quello dell’inviolabile e imprescrittibile diritto alla vita che resterebbe offeso quando lo Stato irroga la pena capitale.
«Alla coscienza moderna» dice il citato articolo «aperta e sensibile ai valori dell’uomo, alla sua centralità e al suo primato nell’universo, alla sua dignità e ai suoi diritti inviolabili e inalienabili la pena di morte ripugna come un provvedimento antiumano e barbaro».
A questo testo che riunisce tutti i motivi dell’abolizionismo conviene anzitutto fare una chiosa di fatto. L’accenno dell’OR alla «coscienza moderna» è consimile alla premessa del documento dei vescovi francesi, secondo i quali «le refus de la peine de mort correspond chez nos contemporains à un progrès accompli dans le respect de la vie humaine». Ma tale asserto nasce da propensione viziosa della mente a compiacersi delle idee piacenti e a foggiare le idee sul desiderio, giacché gli atroci sterminii di innocenti perpetrati in Germania nazista e in Russia sovietica, la diffusa violenza contro le persone usata come strumento ordinario da governi dispotici, la legittimazione e persino l’obbligatorietà dell’aborto trapassate in legge, l’incrudelire della delinquenza e del terrorismo malamente raffrenati dai governi, infliggono una cruda smentita all’asserto irrealistico.

Della centralità assiologia dell’uomo nell’universo diremo ai §§ 205-10. In generale nel discorso sulla pena di morte vien trascurata la distinzione tra lo stato di diritto dell’uomo innocente e quello dell’uomo colpevole. Si considera il diritto alla vita come inerente alla pura esistenza dell’uomo, mentre esso deriva dal fine morale di lui. La dignità dell’uomo ha origine nella sua ordinazione a valori che trascendono la vita temporale e questa destinazione è segnata nello spirito come immagine di Dio.
Benché sia assoluta quella destinazione e indelebile quell’immagine, la libertà dell’uomo fa che egli colla colpa discenda da quella dignità e travisi da quel finalismo. La base del diritto penale è appunto la diminuzione assiologia del soggetto che viola l’ordine morale e che suscita con la colpa l’azione coattiva della società per riordinare il disordine.
Quelli che all’azione coattiva danno per motivo soltanto il danno inferto alla società, levano ogni carattere etico al diritto e ne fanno una cautela contro il danneggiatore, indistinto se libero o necessitato, se razionale o irrazionale. L’equazione penale nel sistema cattolico, fa che, al delitto, con cui il delinquente è venuto ricercando una soddisfazione in dispregio del comandamento morale, risponda una diminuzione di bene, di godimento, di soddisfazione.
Fuori di questo contrappasso morale la pena diviene una reazione puramente utilistica che neglige appunto la dignità dell’uomo e riporta la giustizia a un ordine tutto materiale, come fu in Grecia, quando al tribunale del Pritanèo si recavano e si condannavano i sassi, i legni, i bruti che avessero cagionato qualche danno.
La dignità umana è invece un carattere impresso naturalmente nella creatura razionale ma si fa cosciente ed elicito nelle mosse della volontà buona o malvagia e cresce o decresce in quest’ordine. Né alcuno vorrà mai pareggiare in dignità umana l’ebreo di Auschwitz al suo carnefice Eichmann o Caterina da Siena a Taide.
La dignità umana non può scemare mai per fatti che non siano morali e, contrariamente al sentimento divenuto comune, non è dal grado di partecipazione ai benefici del progresso tecnologico che si misura la dignità umana, non cioè dalla aliquota di beni economici, né dal grado di alfabetizzazione, né dalla cresciuta cura della salute, né dalla distribuzione abbondante delle cose gradevoli dell’esistenza, né dalla debellazione dei morbi.
Non si confondano la dignità umana, che è un attributo morale, e l’aumento delle utilità che compete anche all’uomo indegno.

La pena di morte e ogni pena, se non si degradano a pura difesa e quasi a mattazione selettiva, suppongono sempre una diminuzione morale nella persona che ne vien colpita: non si ha dunque lesione di un diritto inviolabile e imprescindibile. Non è che la società privi il reo di un diritto ma, come insegnò Pio XII nel discorso del 14 settembre 1952 ai neurologi, «même quand il s’agit de l’exécution d’un condamné à mort l’Etat ne dispone pas du droit de l’individu à la vie. Il est réservé alors au pouvoir public de priver le condamné du bien de la vie en expiation de sa faute aprés que par son crime il s’est déja dépossedé de son droit a la vie (AAS, 1952, pp. 779 sgg.).

E che il diritto alla vita che è inviolabile nell’innocente, non lo sia nel reo, che l’ha scemato in sé stesso con la depravazione della volontà, appare anche se si riguardi il parallelo diritto alla libertà: esso pure è innato, inviolabile e imprescrittibile: tuttavia il diritto penale riconosce legittima la privazione anche perpetua della libertà per sanzione del delitto e il costume di tutte le nazioni la pratica.
Non c’è dunque diritto incondizionato ad alcuno dei beni della vita temporale, e l’unico diritto veramente inviolabile è quello del fine ultimo, cioè alla verità, alla virtù e alla felicità e ai mezzi necessari. Questo diritto non è toccato nemmeno dalla pena di morte.

In conclusione la pena capitale, anzi ogni pena, è illegittima se si pone l’indipendenza dell’individuo di fronte alla legge morale, mediante la morale soggettiva, e di fronte alla legge civile come conseguenza di quella prima indipendenza.
La pena capitale diventa barbara in una società sreligiosata che, chiusa nell’orizzonte terrestre, non ha diritto di privare l’uomo di un bene che è per lui tutto il bene.

NOTE

1 – Tale opposizione è divenuta quasi generale e la pena capitale è riguardata di per sé come un’ingiustizia. Molti Stati membri del Consiglio d’Europa hanno firmato nel 1983 un protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo con cui si obbligano ad abolire nelle loro leggi la pena di morte (RI, 1983, p. 1077).
2 – E’ dunque falso l’asserto di suor Angela Corradi, apostola dei carcerati, al Meeting di Rimini (OR, 25 agosto 1983): il carcere sarebbe l’occasione per «schiacciare definitivamente» un uomo. Secondo la religione è impossibile all’uomo schiacciare definitivamente un uomo.
3 – Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, Torino 1975.
4 – Il discorso che il Rosmini disse sul palco della giustizia a Rovereto di Trento si legge in Opere, Milano 1846, vol. XXVII, pp. 132-84.
5 – Furono pubblicate da A. M. Lemonnier con il titolo Lumière sur l’échafaud, Paris 1971.
6 – Summa theol., alla voce mors (ed Torino 1926). «La morte inflitta come pena per i delitti leva tutta la pena dovuta per i delitti nell’altra vita, o per lo meno parte della pena in proporzione della colpa, del pentimento e della contrizione. La morte naturale invece non la leva».
7 – Sommamente rivelatore è al proposito quel che si legge nelle Relazioni della Compagnia di S. Giovanni Decollato di Roma sotto il giovedì 16 febbraio 1600, circa il supplizio di Giordano Bruno. Gli furono accostati ben sette confessori, domenicani, gesuiti, dell’Oratorio e di S. Gerolamo affinché dove non riuscisse la spiritualità di un genere, avesse per avventura accoglienza quella di un altro. V. Spampanato, Documenti della vita di Giordano Bruno, Firenze 1933, p. 197. A questo proposito si veda il libro di V. Paglia, La morte confortata, Roma 1982, specialmente il cap. VII, La morte del condannato esempio della morte cristiana.

Il sì della dottrina cattolica alla pena di morte
   
Testo di anonimo raccolto a cura di Piergiorgio Seveso

Pubblicato su Radio Spada

L'immagine e l'impaginazione sono nostre






Un tema abbastanza discusso (e quantomai controverso) da diversi circoli e associazioni ai giorni nostri è quello della pena capitale, ormai praticamente scomparsa in Europa ma ancora praticata in paesi come Usa e Cina.

Stando a quello che dicono i benpensanti nostrani e non, essa sarebbe un abominio e una gravissima violazione dei cosiddetti diritti umani sia che venga messa in atto in uno stato democratico che in uno stato dittatoriale, ma non manca anche una fetta di popolazione dalle tendenze alquanto forcaiole che vorrebbe vedere pendagli da forca ad ogni angolo della strada come soluzione alla criminalità.

Onde evitare l’eccesso per difetto (abolizionismo totale) e quello per eccesso (forcaiolismo), va tenuto come punto fisso il magistero della Chiesa riguardante questo argomento. San Tommaso d’Aquino, parlando di questo tema, disse che
Come è lecito, anzi doveroso, estirpare un membro malato per salvare tutto il corpo, così quando una persona è divenuta un pericolo per la comunità o è causa di corruzione degli altri, essa viene eliminata per garantire la salvezza della comunità.” (Somma Teologica, II-II, q. 29, artt. 37-42) 
e che
Siccome alcuni disprezzano le punizioni inflitte da Dio, perché, essendo dediti alle cose sensibili, badano soltanto alle cose che vedono, la Divina Provvidenza ha ordinato che ci siano sulla terra degli uomini che con pene sensibili e presenti obblighino costoro ad osservare la giustizia. Ora, è evidente che tali persone non peccano quando puniscono i malvagi” (G. C., III, C. 146, Q. De Caritate, 2, a. 8, 10 um.).

In linea con quanto affermato dal Dottore Angelico, il Catechismo del Concilio di Trento afferma:
Altra categoria di uccisioni permessa è quella che rientra nei poteri di quei magistrati, i quali hanno facoltà di condannare a morte. Tale facoltà, esercitata secondo le norme legali, serve a reprimere i facinorosi e a difendere gli innocenti. Applicando tale facoltà, i magistrati non solamente non sono rei di omicidio, ma, al contrario, obbediscono in una maniera superiore alla Legge divina, che vieta di uccidere, poiché il fine della legge è la tutela della vita e della tranquillità umana. Ora, le decisioni dei magistrati, legittimi vendicatori dei misfatti, mirano appunto a garantire la tranquillità della vita civile, mediante la repressione punitiva dell’audacia e della delinquenza.” (Catechismo Tridentino, parte terza, punto 328).

Analoghe considerazioni verranno successivamente fatte nel Catechismo Maggiore promulgato da Papa San Pio X:
413. Vi sono dei casi nei quali sia lecito uccidere il prossimo?
È lecito uccidere il prossimo quando si combatte in una guerra giusta, quando si eseguisce per ordine dell’autorità suprema la condanna di morte in pena di qualche delitto; e finalmente quando trattasi di necessaria e legittima difesa della vita contro un ingiusto aggressore.  (Catechismo Maggiore, parte terza, punto 413).

e nell’attuale Catechismo della Chiesa Cattolica del beato Giovanni Paolo II:
2267L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani.” (Catechismo della Chiesa Cattolica, punto 2267)

Alcuni potranno obiettare che la pena di morte sia un concetto veterotestamentario, legato ad usi e consuetudini ebraiche superate dalla venuta al mondo di Cristo, e ad essi risponderei con le parole di padre E. Zoffoli espresse nel suo scritto “Pena di Morte e Chiesa Cattolica”:
Tutti gli esegeti convengono che nel Nuovo Testamento non c’è un solo cenno che abroghi la Legge Antica al riguardo della pena di morte”.

Insomma, come indirettamente ci insegna San Paolo di Tarso in Rom., 13; 3-4:
 […] i magistrati non son di spavento alle opere buone, ma alle cattive. Vuoi tu non aver paura dell’autorità? Fa’ quel ch’è bene, e avrai lode da essa; perché il magistrato è un ministro di Dio per il tuo bene; ma se fai quel ch’è male, temi, perché egli non porta la spada invano; poich’egli è un ministro di Dio, per infliggere una giusta punizione contro colui che fa il male

Non dobbiamo confondere la mitezza e la bontà evangelica con il buonismo di chi spesso e volentieri non riesce ad abbandonare una sua certa arrendevolezza e passività nei confronti di chi fa il male.

Una comunità, una società di cittadini, uno Stato, come persona giuridica perfetta depositaria del diritto e della forza, esercitando il diritto di difendersi e difendere i propri membri anche attraverso la pena capitale, riafferma il supremo valore della convivenza umana, negato dall’atto del criminale, ridona fiducia ai cittadini, dissuade i buoni dal farsi giustizia da soli, riconosce anche assiologicamente il supremo valore della libertà e della dignità umana che è essenzialmente RESPONSABILITA’ (in questo caso nel reo). L’elemento rieducativo della pena (che è, ed è bene ricordarlo, CASTIGO per essenza, rieducazione per accidens) non è negato nemmeno dalla pena di morte. I rei, posti innanzi al patibolo, sono di fronte al grande mistero della morte (che l’abitudinario e comodo ergastolo nemmeno lontanamente riesce a suscitare). I loro delitti, le loro vittime, li interrogano e li incalzano: spetta alla loro coscienza rispondere in quel momento.

Il pericolo dell’errore giudiziario (la gran cassa sfondata dell’orchestrina abolizionista) non può inibire l’utilizzo della pena di morte, come il pericolo dell’errore non può inibire l’utilizzo della chirurgia in medicina: i giudici giudichino con ponderazione, imparzialità e prudenza (ovviamente nei casi dubbi), prima di sanzionare con una pena tanto grave.
E comunque “abusum non tollit usum”. Lo stesso “Non uccidere” biblico va inteso ed è sempre stato inteso come “Non uccidere l’innocente”: non esclude assolutamente quindi l’uccidere l’aggressore per legittima difesa, l’uccidere l’avversario nell’esercizio di una guerra giusta, l’uccidere un colpevole da parte di una comunità statuale, dopo un adeguato procedimento giudiziario.


Quindi la pena di morte non è omicidio ma RISTABILIMENTO di un ordine naturale violato: non ha quindi ragioni utilitaristiche ma eminentemente morali.
Papa Pio XII, in un’allocuzione del 14 settembre 1952 che è naturalmente parte del MAGISTERO PONTIFICIO, riconfermando la dottrina e la prassi millenaria della Chiesa cattolica sull’argomento ebbe ad affermare:
E’ riservato al pubblico potere privare il condannato del bene della vita, in espiazione del suo fallo dopo che col suo crimine, si è SPOGLIATO del diritto alla vita.”
http://www.unavox.it/ArtDiversi/DIV2545_Anonimo_Dottrina_cattolica_si_pena_di_morte.html
STORIA
Pena di morte, la lezione della Grande Guerra
ECCLESIA08-08-2018
 Fucilazione di un disertore nella Grande Guerra
Il cambiamento del testo sulla pena di morte nel Catechismo, voluto da Papa Francesco, esclude in modo definitivo anche quei casi-limite che, nella versione precedente, erano più o meno implicitamente contemplati. Se è pur vero che le moderne società occidentali possono tutelare il bene comune imprigionando i delinquenti in carceri ben munite, non è detto, infatti, che questo possa essere garantito in migliaia di zone disastrate e poco civilizzate sparse in tutto il mondo dove le strutture di detenzione sono spesso in condizioni precarie.
Ancora, chi ci dice che un domani il mondo non possa precipitare in un nuovo terribile conflitto armato, con la legge marziale che, da sempre, vi si associa?

Rammentiamo innanzitutto un principio di morale naturale: esiste un dovere etico di difendere la propria Patria. Per alcuni questo significa imbracciare un fucile e quindi esporsi al rischio di morire. Il venir meno a questo dovere può comportare da parte dello Stato una risposta sanzionatoria, la quale per essere giusta, tra le altre condizioni, deve tenere in conto della qualità del bene violato o  messo in pericolo a causa dell’omissione del dovere (funzione retributiva). Nei conflitti armati ciò può significare la perdita ingentissima di vite umane innocenti e dunque la pena di morte potrebbe avere una sua giustificazione.

Altra condizione perché la pena sia giusta è quella che fa riferimento alla funzione dissuasiva. Se la storia è maestra di vita, a cento anni dalla fine della Grande Guerra, vale la pena approfondire lo spirito che animò una delle scelte più dolorose e drastiche riguardanti la disciplina militare. Pochi ricordano che in Italia, se la pena di morte è stata abolita nel lontano 1948, essa è stata abrogata nel Codice penale militare di guerra solo nel 1994.

È passato quasi mezzo secolo fra i due provvedimenti per via di una circostanza piuttosto ovvia: il soldato che combatte al fronte è a rischio della vita. Se la sua eventuale diserzione o ammutinamento vengono puniti con il carcere, questo equivale a garantirgli la certezza della sopravvivenza. Qualsiasi pena detentiva diviene, quindi, in tal caso, un beneficio vero e proprio. Viene così meno il principio di deterrenza per atti che, in guerra, mettono in enorme pericolo la salvezza non solo dell’esercito, ma anche dell’intera comunità. Basti pensare a come finirono la Russia zarista o l’Impero austroungarico, crollati proprio a causa degli ammutinamenti. Si ricordi che a Caporetto la II Armata fu spazzata via anche a causa del disfattismo e delle idee pacifiste-socialiste che vi erano penetrate sobillando i militari alla diserzione e alla ribellione.

“Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie” scriveva Ungaretti.  Come noto, nel ’15-‘18 la vita al fronte era così precaria che i soldati meno coraggiosi, oltre a darsi alla macchia, erano soliti compiere atti di autolesionismo, sparandosi sugli arti, o provocandosi infezioni. Il carcere, il manicomio, l’ospedale, i lavori forzati, tutto sarebbe stato preferibile pur di portare la pelle a casa.

Per imporre la massima deterrenza verso tali fenomeni, da millenni, negli eserciti di tutto il mondo al soldato vile o insubordinato si è sempre garantita la certezza della morte. Terribile, certo, ma essenziale per la sopravvivenza della collettività.  

E’ molto difficile ammetterlo, ma la Grande Guerra fu vinta dal nostro Paese anche grazie a una disciplina inflessibile. Non è affatto vero che questa fu una caratteristica solo italiana dovuta al “dispotico sadismo del cattolicissimo generale Luigi Cadorna”, come diffuso da certa propaganda, in primis perché tale prassi era in uso in tutti gli eserciti belligeranti, in secundis perché sotto il comando del suo successore, il generale Armando Diaz, le condanne a morte non solo non diminuirono, ma furono proporzionalmente superiori a quelle comminate sotto Cadorna.

In Italia sono documentate 750 condanne alla fucilazione, eseguite dopo regolare processo, relativamente poche se raffrontate con i numeri del Regio esercito, composto da ben 5 milioni di uomini in armi. Per quanto possa essere politicamente scorretto ammetterlo, non si può negare che la pena capitale sia stata un male necessario che ha salvato un intero esercito e un intero Paese. Una triste sorte per pochi, un bene per molti.

Dopo il crollo del Muro di Berlino, lo Stato italiano, laico, ha deciso di stralciare la pena di morte dal Codice penale militare con un provvedimento che potrebbe anche essere reversibile in caso di una nuova guerra mondiale, così come la politica si adegua sempre alle necessità che via via si presentano.

Tuttavia, ci si aspetta che il Catechismo dia indicazioni al di là del tempo e della situazione geopolitica contingente, offrendo un faro morale assoluto ispirato alla Parola di Dio. Cassando in modo definitivo ogni ammissibilità della pena di morte, senza neppure accennare a particolarissime condizioni emergenziali, il Catechismo non solo si espone a obiezioni razionali difficilmente contestabili, ma precipita nel qui ed ora, dimostrandosi modificabile in base alla sensibilità del tempo.

Andrea Cionci

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