Dal Buon Selvaggio al Buon Parassita. Campi rom abusivi? Grazie ai cattolici “sinistri” e al loro patrono, il signore argentino che siede indegnamente sulla cattedra di San Pietro ecco che la saga del Buon Selvaggio si accresce
di Francesco Lamendola
Il mito del Buon Selvaggio è stato partorito dal cervello bacato dei philosophes del tardo XVIII secolo e fa da ponte tra illuminismo e romanticismo, il che vuol dire che è entrato di diritto fra gli elementi centrali e qualificanti della cultura moderna, in cui si è vittoriosamente insediato e dalla quale non è stato più sloggiato, né con le buone, né con le cattive. È stato creato in buona parte con materiali da risulta e specialmente con l’idea di Rousseau che l’uomo è buono finché la civiltà non lo guasta, ragion per cui il ginevrino ha scritto il suo famoso trattato pedagogico, l’Emilio, in cui teorizza che l’ideale sarebbe educare un bambino lontano dalla civiltà, e solo quando gli sono stati inoculati gli anticorpi ed è un po’ cresciuto, gli si può permettere di andare a vivere in mezzo al frastuono dei suoi simili.
In questa idea entra parecchio anche il nascente senso di colpa per ciò che gli europei facevano nel corso delle loro conquiste coloniali: mano a mano che si consolidavano gli imperi, soprattutto quelli sostanzialmente “virtuosi” della Francia e soprattutto della Gran Bretagna (mentre quelli iberici, e specialmente quello spagnolo, erano il Male per eccellenza, forse perché troppo esplicitamente cattolici), i philosophes sentivano il bisogno di esorcizzare il rimorso per i genocidi, le spoliazioni e il fiorente commercio degli schiavi (la tratta atlantica) inventandosi l’immagine di un uomo primitivo tutto bontà, gentilezza e delicatezza, tutto onestà e innocenza, e perfino pudore e continenza. Si vedano i romanzi René e Atala di François René de Chateaubriand, che pure non era uno stupido né un mediocre scrittore, a differenza di Bernardin de Saint Pierre e del suo zuccheroso e insulso Paolo e Virginia: quando si dice la potenza del condizionamento culturale.
Grazie ai cattolici “sinistri” e al loro patrono, il signore argentino che siede indegnamente sulla cattedra di San Pietro ecco che la saga del "Buon Selvaggio" si accresce del "Buon Parassita".
Ora, sia il senso di colpa, sia l’idealizzazione del primitivo, hanno messo radici al punto che, oggi, sono divenuti parte essenziale della cultura politically correct. Che qualcuno si provi, per esempio, a ricordare che le società dell’America precolombiana non erano dei paradisi di bontà, mitezza e tolleranza, e che i sacrifici umani praticati su larghissima scala erano il loro pane quotidiano: subito scatteranno in piedi dieci, cento signori del politicamente corretto, e cominceranno ad abbaiare: e che, si vuol forse riabilitare i conquistadores spagnoli e la santa Inquisizione? Oppure, che qualcuno osi ricordare il cannibalismo dei maori, i quali mettevano in pentola i navigatori europei dopo averli blanditi e circuiti con mille moine e gentilezze: ecco che i cani da guardia dell’ortodossia culturale si metteranno a ringhiare che è inaudito, che si vuol far passare i carnefici (europei) per vittime, e le vittime (i buoni selvaggi) per carnefici: un indegno capovolgimento storico e morale. Se, poi, per caso, qualcuno osa ricordare che la schiavitù dei negri era praticata su scala industriale anche dagli arabi; o che gli Stati africani indipendenti sorti dal crollo del colonialismo hanno mostrato quali fossero le attitudini di quei popoli a vivere in pace e armonia fra di loro; se qualcuno, per esempio, si permette di citare un film come Africa addio, di Jacopetti e Prosperi (che non è affatto un inno al colonialismo o al razzismo, ma semplicemente una denuncia di quel che è accaduto in Africa quando il colonialismo è finito), certamente quei signori si stracceranno le vesti ed esclameranno, con la bava alla bocca (perché somigliano moltissimo, nella loro ipocrisia, ad Anna e Caifa e ai farisei del Sinedrio: Basta! Qui si pretende di riscrivere la storia in senso eurocentrico e razzista! Qui si vuol riabilitare il fascismo! (il fascismo c’entra sempre, è durato solo vent’anni ma da ottanta serve quale testa di turco per tutte le anime belle desiderose di sfogare la loro sacra indignazione: il che dimostra che, se non ci fosse stato, qualcuno se lo sarebbe dovuto inventare, altrimenti di che cosa camperebbero i Martina, i Delrio, i Grasso, le Boldrini, eccetera, eccetera?); ma noi non lo permetteremo. Noi li conosciamo, questi revisionisti, questi xenofobi travestiti da storici, questi populisti che si spacciano per studiosi obiettivi, e non gliela faremo passare liscia! Detto, fatto: in Europa, un parlamento dopo l’altro ha approvato leggi liberticide che prevedono la prigione per quanti osano incrinare i dogmi del politicamente corretto; e le terribili imputazioni di incitamento all’odio razziale, di razzismo e antisemitismo, pendono come una spada di Damocle su chiunque si permetta di entrare nel recinto riservato e monopolizzato dalla cultura progressista e di sinistra, e, più di recente, da quella cattolica progressista e di sinistra: vedi i Melloni, i Riccardi, e, da ultimo, i Cardini, che uniscono un amore smisurato e veramente commovente per gli ultimi, i diversi, i ”più deboli” (anche se poi non sono tali) ad un astio, un’acredine, una insofferenza quasi patologica per quanti non condividono le loro opinioni, specialmente a proposito dell’atteggiamento da tenere verso i cosiddetti migranti e, quindi, il giudizio che essi danno, nella loro infallibilità e sovrana bontà (perché sono i Buoni per antonomasia) sul pontificato del signor Bergoglio.
Mito del "Buon selvaggio" e l'albino africano: paradigma silenziato di un fallimento del politically correct.
Alla voce buon selvaggio, ecco cosa dice, per esempio, Wikipedia:
“Buon selvaggio” è la denominazione di un mito basato sulla convinzione che l'uomo in origine fosse un "animale" buono e pacifico e che solo successivamente, corrotto dalla società e dal progresso, diventasse malvagio. Nella cultura del Primitivismo del XVIII secolo, il "buon selvaggio" era considerato più lodevole, più autenticamente nobile dei prodotti dell'educazione civilizzata. Nonostante l'espressione "buon selvaggio" fosse già comparsa nel 1672 in La conquista di Granada di John Dryden (1672), la rappresentazione idealizzata di un "gentiluomo della natura" fu un aspetto caratteristico del Sentimentalismo del secolo successivo. Il concetto di "buon selvaggio" si rifà a un'idea di umanità sgombra dalla civiltà: la normale essenza di uomo senza impedimenti. Poiché tale concetto incarna la convinzione che senza i freni della civilizzazione gli uomini siano essenzialmente buoni, le sue fondamenta giacciono nella dottrina della bontà degli esseri umani, espressa nel primo decennio del Settecento da Anthony Shaftesbury, che incitava un aspirante autore “a cercare quella semplicità dei modi, e quel comportamento innocente, che era spesso noto ai meri selvaggi; prima che essi fossero corrotti dai nostri commerci” (Advice to an Author, Part III). La sua opposizione alla dottrina del peccato originale, figlia dell'atmosfera ottimistica dell'Umanesimo rinascimentale, venne raccolta da un suo coevo, il saggista Richard Steele, che attribuiva la corruzione dei comportamenti contemporanei a un'educazione falsa. Il concetto di buon selvaggio ha connessioni speciali in particolare con il Romanticismo e con la filosofia romantica e illuminista di Jean-Jacques Rousseau. (…) L'idea del "buon selvaggio" può essere servita, in parte, come tentativo di ristabilire il valore degli stili di vita indigeni e delegittimare gli eccessi imperialistici, definendo gli uomini "esotici" come moralmente superiori, in modo da controbilanciare le inferiorità politiche ed economiche percepite.
Come si vede, si tratta di un mare magnum nel quale c’è posto per tutti, purché non siano europei e purché non siano cristiani, specialmente cattolici: da Pocahontas a Che Guevara, da Ho Chi Min alla ragazza dalla pelle di luna del film omonimo, che poi sarebbe Zeudi Araya, e da Tippu Tib ai falsi lama tibetani inventati da Lobsang Rampa, al secolo Cyril Henry Hoskin, figlio di un idraulico del Devon, che in Asia non è mai stato, ma in compenso ha venduto più libri sul Tibet di tutti i veri lama tibetani messi insieme. Ora, però, grazie appunto ai cattolici “sinistri”, e specialmente al loro grande capo, patrono e ispiratore, il signore argentino che siede, indegnamente, sulla cattedra di San Pietro, ecco che la saga del Buon Selvaggio, dopo quella del Buon Rivoluzionario, termine coniato a suo tempo dal sociologo venezuelano Carlos Rangel (vedi il nostro articolo: Quando L. A. De Bougainville sbarca a Tahiti e s’imbatte… nel “buon selvaggio” di Rousseau, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 02/12/17), si arricchisce di una nuova puntata: quella del Buon Parassita. Il merito – si fa per dire - è tutto del quotidiano della C.E.I., L’Avvenire, del suo direttore Marco Tarquinio e del presidente della Comunità di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo, il quale ha firmato l’editoriale (cosa che la dice lunga su quanto “pesi” nella Chiesa, oggi, la Comunità di Sant’Egidio), il quale ha ritenuto cosa buona e giusta lanciare un ulteriore, ennesimo affondo contro il ministro del’Interno, Matteo Salvini, reo, in questo caso, di voler sgombrare i campi rom abusivi di Roma e di altre parti d’Italia. Salvini, dopo un incontro con Virginia Raggi per decidere lo sgombero del campo romano denominato River Village, e mentre il presidente Mattarella, guarda caso, si produceva nell’ennesimo intervento buonista per mettere in guardia contro il razzismo e le discriminazioni contro i rom (che perfetto tempismo: un imbecille aveva sparato con un fucile ad aria compressa e ferito una bambina rom), aveva dichiarato:
Le presenze in Italia dei rom superano le 150 mila persone e sono solo circa 30 mila quelli che vivono nella illegalità nei campi, probabilmente spinti da chi ci guadagna. (…) Il problema è chi si ostina a vivere nella illegalità, questa sacca di minoranza e parassitaria, potrebbero anche essere svedesi o esquimesi. Nessuna discriminazione contro i rom, semplicemente parità di diritti e di doveri: bruciare cose con roghi tossici, non fa parte della legalità, le auto vanno assicurate, i bambini portati a scuola e va fatta la dichiarazione dei redditi.
Non è questione di razza o religione: la giustizia umana non solo non può, ma non deve perdonare, perché il suo compito è difendere gli onesti dalle violenze e dagli inganni dei disonesti.
Più che razzismo, sembrerebbero parole di buon senso; macché: non avesse mai usato l’aggettivo parassitario; a Tarquinio e a Impagliazzo quel passaggio non è proprio andato giù, è rimasto loro in gola e, per sputarlo, insieme a una buona dose di ideologia del Buon Selvaggio nella versione aggiornatissima della fine di luglio 2018, hanno tenuto a battesimo la nuova puntata della saga: quella del Buon Parassita. Ecco, infatti, Impagliazzo che scrive un editoriale di fuoco sul quotidiano dei vescovi, in prima pagina e col titolo a caratteri cubitali: Ma nessun uomo è mai un “parassita”:
(…) lascia perplessi il linguaggio di un importante ministro della Repubblica a proposito di una minoranza variegata presente in Italia da tempo, quella dei rom (mi si perdoni la semplificazione). Parlare, come ha fatto ieri il ministro Salvini, in sorprendente risposta a un efficace intervento del presidente Mattarella che ricordava le persecuzioni subite da questa minoranza a causa delle leggi razziste del 1938, di «30.000 persone che si ostinano a vivere nell’illegalità» definendoli «sacca parassitaria», suona pregiudiziale verso un’intera comunità, oltre che non corrispondente alla realtà. Forse ci si è dimenticati che la definizione «parassiti» nella storia del Novecento è stata utilizzata per gli ebrei, quando venivano accusati di praticare l’usura. Chi conosce la storia sa che da questa e altre definizioni si è passati a emarginare e poi considerare nemica quella minoranza con le conseguenze tragiche che sappiamo. Fosse soltanto per questo, mentre facciamo memoria degli ottant’anni delle leggi razziste, quest’espressione va bandita quando si parla di persone…
Ragionamento ammirevole e ineccepibile dal punto di vista del politically correct: i nazisti definivano parassiti gli ebrei; Salvini definisce parassiti alcuni rom; dunque Salvini è un nazista e chiunque usi questo linguaggio, che lo sappia o no, sta evocando e auspicando un nuovo Olocausto. Complimenti, sia suo piano storico che su quello logico-filosofico: Aristotele sorriderebbe compiaciuto per un uso tanto abile stringente del sillogismo e del principio di non contraddizione. Da parte sua, uno dei redattori del sito Inter multiplices, una vox, L. P., ha osservato argutamente in un articolo intitolato Avvenire e il buon parassita (pubblicato all’inizio di agosto 2018):
Giorni or sono (…) l’organo stonato della CEI, se ne uscì con un commento col dire che “Nessun uomo è mai un parassita”, evidente essendo l’intento di trasformare, con un procedimento cultural - alchemico, la realtà di un’etnìa che largamente si qualifica per comportamenti exlege, in modello di efficientismo sociale ed economico. Affermare, per l’appunto, che nessun uomo è mai un parassita vuol decisamente dire che, per il fatto di “essere persona”, anche uno stile di vita, connotato da attività illecite o da abulìa – e le prove a sostegno di sì evidente realtà sono innumeri – va riconosciuto come segno di un oggettivo valore. Ora, il gran cuore di Tarquinio, colmo di buonismo e di filantropìa, scosso da viva e agitata voglia di un’accoglienza a prescindere, non solo smentisce e rifiuta il dizionario e la storia e, nella presente contingenza di cronaca, il ministro dell’Interno on.le Matteo Salvini – colui che ha ordinato lo sgombero del campo – ma cancella l’autorità di San Paolo il quale, in 2Ts. 3,10b – 13 così ammaestra: “ Chi non vuol lavorare, neppure mangi. Sentiamo, infatti, che alcuni di voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. A questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù, di mangiare il proprio pane lavorando in pace”. (…). Siamo allo stravolgimento della parola di Dio a pro’ di una zuccherosa pastorale infarcita di antropologismo a rimorchio d’una cultura – accoglienza a prescindere – che ritiene buono, onesto ogni uomo visto nella prospettiva della nuova e tossica teologìa – quella del CV2 – che impasta e molazza pelagianesimo, angelismo cartesiano, massoneria, Comunità egidiana e Georges Soros nello sfondo ideologico russoiano di una natura umana incorrotta.
Cari cattolici "sinistri": moralmente, si sa, per il cristiano ogni vita umana è preziosa, unica, “sacra”… Questo però non significa che ogni uomo abbia il diritto di vivere nel disprezzo delle leggi.
Rimandiamo alla lettura integrale dell’articolo, ripreso anche da altri siti, come Acta apostaticae Sedis, scusandoci se, per motivi di spazio, abbiamo saltato alcuni passaggi del ragionamento svolto dall’Autore. Il senso, però, è chiaro: i Tarquinio, i Galantino, i Bassetti, i Riccardi, non sono cattolici, ma seguaci di una nuova religione, la religione del Concilio Vaticano II.Quando qualcosa, nella dottrina cattolica, concorda con tale nuovissima religione, allora tutto bene; quando, invece, ci s’imbatte in qualcosa che, ahimè, non concorda, si fa finta di niente e si va oltre, senza batter ciglio, sostenendo e facendo esattamente il contrario di quel che c’è scritto nelle Scritture e che tramanda la Tradizione. L’esempio, del resto,viene dall’alto: il paragrafo 2267 del Catechismo della Chiesa cattolica, quello sulla pena di morte, non piace al signore argentino? Nessun problema: quell’articolo si cambia, così, su due piedi, con un signorile tratto di penna (signorile nel senso etimologico del termine: come facevano i signori, o i tiranni, dell’ancien régime). E chi se ne frega delle opinioni di San Tommaso d’Aquino, di Santa Caterina da Siena (la quale di condannati a morte un po’ se ne intendeva, visto che li assisteva e li accompagnava fino al patibolo, convertendoli e aiutandoli a ritornare in grazia di Dio prima dell’estremo passo, e facendo piangere di commozione e di edificazione tutta la folla) e del Magistero dei duecentosessantacinque papi venuti prima di Bergoglio.
Ma la stampa "cattolica" la si puo' definire ancora tale?
Dal Buon Selvaggio al Buon Parassita
di Francesco Lamendola
continua su:
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Possiamo facilmente immaginarcelo, le mani giunte, le spalle curve, in adorazione del Santissimo: una postura e un atteggiamento che sono diventati così rari, oggi, frastornati come siamo da un clero rumoroso, sin troppo affaccendato, a volte sopra le righe e perfino sguaiato, che veste in maniera discutibile, con sciarpe arcobaleno che alludono alla simpatia per i movimenti omosessuali, sempre pronti a twittare, a pontificare sui blog, a rilasciare interviste, a presentarsi alla radio e alla televisione per parlare di tutto e di più, tranne che di cose dello spirito. Ne abbiamo fin sopra le tasche di questi vescovi e preti che si autodefiniscono di strada, quasi civettando con l’idea del mestiere più antico del mondo, e della loro continua, fastidiosa, immodesta esibizione di solidarietà con gli “ultimi”. Padre Scrosoppi, e con lui tanti altro santi “sociali” del XIX secolo, Giuseppe Cafasso, Giovanni Bosco, e suore come Francesca Cabrini, forse che si tiravano indietro, quando c’era da aiutare il prossimi, gli ultimi, i più diseredati? Ma se hanno dedicato a loro tutta la loro vita! Però non erano loro ad abbassare il cristianesimo al livello della strada; loro innalzavano le cose della strada alle altezze del cristianesimo. Avevano una fortissima carica di spiritualità, e nella preghiera, nella meditazione, nel digiuno, trovavano la forza per amare il prossimo, senza mai indulgere alla mentalità del mondo. Forse che Giuseppe Cafasso, il santo dei condannati a morte, fece della sua vita una battaglia contro la pena capitale? Oppure si batté contro la pena di morte Santa Caterina da Siena, che assisteva i condannati e li accompagnava sino al patibolo, dopo averli convertiti e fatti pentire, al punto che essi stessi piangevamo di gioia all’idea di scontare i loro peccati sul patibolo e ricongiungersi con Dio misericordioso? I veri santi non vogliono cambiare il mondo, non vogliono cambiare le leggi, non vogliono affermare dei diritti: vogliono cambiare le anime; e danno l’esempio mostrando il cambiamento che hanno saputo operare in se stessi, con la grazia di Dio. Nessun vero santo assume le pose e gli atteggiamenti dei cosiddetti preti di strada; nessuno scaglia anatemi e maledizioni contro i politici che non gli garbano, come fa adesso il neoclero progressista contro il ministro Salvini; nessun vero santo si è mai sognato di entrare a pie’ pari nel terreno della politica, di scendere nell’agone, né di salutare con il pugno chiuso (e il sigaro in bocca), come il defunto don Gallo, né, tanto meno, di spezzare una corona del Rosario, come fece padre Turoldo per insegnare ai fedeli che ci si deve liberare delle “superstizioni” medievali. No, i veri santi non fanno così, perché sono miti e umili di cuore, come ha insegnato il loro solo, il loro unico modello: Gesù Cristo. E inoltre pregano, pregano tanto, pregano sempre, seguendo, ancora, la raccomandazione del divino Maestro. Ma questi cardinali progressisti, questi Schönborn, questi De Kesel, questi Kasper, questi Marx, questi Bassetti; questi superiori di ordini religiosi, arcivescovi e vescovi, come Sosa Abascal, come Paglia, come Galantino, come Cipolla, come Lorefice, come Perego, come Zuppi, lo trovano il tempo per pregare, fra una esternazione e l’altra, fra una intervista e l’altra, fra una iniziativa di solidarietà gay-friendly e una pro immigrazione? E il signor Bergoglio, si mette mai in ginocchio, davanti al Santissimo, le mani giunte, la fronte bassa, per incontrarsi con Dio e anche, in qualità di successore di Pietro, per dare l’esempio ai fedeli di quanto sia importante la preghiera? Lo si vede mai partecipare all’adorazione perpetua, o raccomandarne la pratica, o spendere qualche parola, nel fiume di discorsi profani, o semi-eretici, sempre provocatori, qualche volta blasfemi, nei quali parla di tutto, per raccomandare ai cattolici di pregare, di recitare il Rosario, di adorare il Santissimo?
Possiamo facilmente immaginarcelo, le mani giunte, le spalle curve, in adorazione del Santissimo: una postura e un atteggiamento che sono diventati così rari, oggi, frastornati come siamo da un clero rumoroso, sin troppo affaccendato, a volte sopra le righe e perfino sguaiato, che veste in maniera discutibile, con sciarpe arcobaleno che alludono alla simpatia per i movimenti omosessuali, sempre pronti a twittare, a pontificare sui blog, a rilasciare interviste, a presentarsi alla radio e alla televisione per parlare di tutto e di più, tranne che di cose dello spirito. Ne abbiamo fin sopra le tasche di questi vescovi e preti che si autodefiniscono di strada, quasi civettando con l’idea del mestiere più antico del mondo, e della loro continua, fastidiosa, immodesta esibizione di solidarietà con gli “ultimi”. Padre Scrosoppi, e con lui tanti altro santi “sociali” del XIX secolo, Giuseppe Cafasso, Giovanni Bosco, e suore come Francesca Cabrini, forse che si tiravano indietro, quando c’era da aiutare il prossimi, gli ultimi, i più diseredati? Ma se hanno dedicato a loro tutta la loro vita! Però non erano loro ad abbassare il cristianesimo al livello della strada; loro innalzavano le cose della strada alle altezze del cristianesimo. Avevano una fortissima carica di spiritualità, e nella preghiera, nella meditazione, nel digiuno, trovavano la forza per amare il prossimo, senza mai indulgere alla mentalità del mondo. Forse che Giuseppe Cafasso, il santo dei condannati a morte, fece della sua vita una battaglia contro la pena capitale? Oppure si batté contro la pena di morte Santa Caterina da Siena, che assisteva i condannati e li accompagnava sino al patibolo, dopo averli convertiti e fatti pentire, al punto che essi stessi piangevamo di gioia all’idea di scontare i loro peccati sul patibolo e ricongiungersi con Dio misericordioso? I veri santi non vogliono cambiare il mondo, non vogliono cambiare le leggi, non vogliono affermare dei diritti: vogliono cambiare le anime; e danno l’esempio mostrando il cambiamento che hanno saputo operare in se stessi, con la grazia di Dio. Nessun vero santo assume le pose e gli atteggiamenti dei cosiddetti preti di strada; nessuno scaglia anatemi e maledizioni contro i politici che non gli garbano, come fa adesso il neoclero progressista contro il ministro Salvini; nessun vero santo si è mai sognato di entrare a pie’ pari nel terreno della politica, di scendere nell’agone, né di salutare con il pugno chiuso (e il sigaro in bocca), come il defunto don Gallo, né, tanto meno, di spezzare una corona del Rosario, come fece padre Turoldo per insegnare ai fedeli che ci si deve liberare delle “superstizioni” medievali. No, i veri santi non fanno così, perché sono miti e umili di cuore, come ha insegnato il loro solo, il loro unico modello: Gesù Cristo. E inoltre pregano, pregano tanto, pregano sempre, seguendo, ancora, la raccomandazione del divino Maestro. Ma questi cardinali progressisti, questi Schönborn, questi De Kesel, questi Kasper, questi Marx, questi Bassetti; questi superiori di ordini religiosi, arcivescovi e vescovi, come Sosa Abascal, come Paglia, come Galantino, come Cipolla, come Lorefice, come Perego, come Zuppi, lo trovano il tempo per pregare, fra una esternazione e l’altra, fra una intervista e l’altra, fra una iniziativa di solidarietà gay-friendly e una pro immigrazione? E il signor Bergoglio, si mette mai in ginocchio, davanti al Santissimo, le mani giunte, la fronte bassa, per incontrarsi con Dio e anche, in qualità di successore di Pietro, per dare l’esempio ai fedeli di quanto sia importante la preghiera? Lo si vede mai partecipare all’adorazione perpetua, o raccomandarne la pratica, o spendere qualche parola, nel fiume di discorsi profani, o semi-eretici, sempre provocatori, qualche volta blasfemi, nei quali parla di tutto, per raccomandare ai cattolici di pregare, di recitare il Rosario, di adorare il Santissimo?
I Santi di sempre: padre Luigi Scrosoppi.
E se qualche cattolico progressista ci viene a dire che i personaggi che abbiamo citato sono i santi di oggi, perché hanno messo i poveri al centro di ogni cosa, noi rispondiamo che i santi di ieri, e i santi di sempre, facevano questo e quello: operavano instancabilmente per i poveri (ma senza cercare la pubblicità davanti alle telecamere, senza mettersi continuamente in mostra) e intanto pregavano, digiunavano e adoravano il Signore. Anzi: pregavano, digiunavano e adoravano, e ciò li metteva in grado di farsi tutto a tutti, e specialmente ai poveri (ma senza disprezzare i ricchi; i quali, da un punto di vista spirituale, possono essere più poveri dei poveri, e avere quindi bisogno dell’assistenza di un sacerdote o di un religioso quanto e più dei poveri in senso economico). I cattolici progressisti hanno scambiato il Vangelo per il Manifesto del Partito comunista, e credono che Marx e Cristo possano andare d’amore e d’accordo per il bene degli uomini, come sosteneva un altro famoso friulano, Pier Paolo Pasolini, il quale, secondo noi, del Vangelo aveva capito poco e niente. E il Friuli dovrebbe ricordare con orgoglio i suoi figli che avevano capito che lui non aveva capito, Giuseppe Marchetti, e ancor più Cornelio Fabro: perché la strada del Vangelo è la strada della santità; e quale santità può venire da chi indulge a una vita sregolata e dissoluta, a chi addirittura ne teorizza la perfetta liceità, come ora sta facendo quell’indegno gesuita americano, James Martin, la cui ombra malefica già si profila sul prossimo Incontro internazionale sulla famiglia? Se costui si presenterà a parlare come relatore, è certo che chiederà di riconoscere come “famiglie” anche le cosiddette famiglie arcobaleno: pretenderà, cioè, di far accettare ai cattolici non solo la pratica dell’omosessualità; non solo la pratica delle cosiddette coppie omosessuali; ma anche le adozioni omosessuali e la fecondazione eterologa, insomma le famiglie omosessuali, mettendole sullo steso piano della famiglia cristiana fondata sul legane naturale, e soprannaturale (ma di questo, padre Martin si è dimenticato?) fra l’uomo e la donna che confidano in Dio. Già molti vescovi, come Bonny, di Anversa, e molti sacerdoti, come don Scordato, a Palermo, sono d’accordo con questa linea: non si è forse visto il primo chiedere un riconoscimento della Chiesa alle unioni omosessuali, e il secondo presentare festoso una coppia di lesbiche sull’altare, in piena Messa, indicandole ai fedeli come modello ed esempio di autentico amore? Un discorso del tutto analogo si può fare per i migranti, dai quali il neoclero è letteralmente ossessionato, come del resto lo è il signor Bergoglio. A parte il fatto che costoro non sono veri profughi, ma dei falsi profughi, nel novanta per cento e più dei casi; a parte il fatto che prescrivere l’accoglienza di centinaia di migliaia e, in prospettiva, di milioni di africani islamici, significa alterare irrimediabilmente la fisionomia e la struttura materiale e spirituale della nostra società; a parte la continua invasione di campo nella sfera politica, e gli attacchi furibondi contro quegli italiani che non condividono la pratica della auto-invasione, bollati come populisti, razzisti, fascisti, e, naturalmente, come dei cattivi cristiani: a parte tutto questo, chi lo dice che la sola maniera di aiutare le persone sia quella di autorizzarle a trasferirsi in casa d’altri?
I "santi" di oggi: don Andrea Gallo.
Al contrario, ciò è profondamente sbagliato sia in senso materiale, perché equivale a “svuotare” sempre di più i Paesi di provenienza, privandoli delle braccia più valide e della sola speranza nel futuro, sia in senso morale, perché equivale a incoraggiare la fuga dalle responsabilità, l’abbandono dei parenti, dei genitori anziani, delle mogli, dei figli, inseguendo un miraggio di benessere che, oltre ad essere falso e illusorio, è anche totalmente contrario all’ideale evangelico. Non di solo pane vive l’uomo, ha insegnato Gesù Cristo, e ne ha dato continui esempi, durante tutta la sua vita terrena. Soddisfare le esigenze materiali, riempire lo stomaco delle persone non è sufficiente, se non si mira a operare una conversione, una purificiazione e un nuovo orientamento dell’anima, che, facendosi una cosa sola con la volontà di Dio, diventa capace di operare il bene. In altre parole: il bene non è solo quello materiale, e non è onesto, né cristiano, stare ad aspettarselo dagli altro senza far nulla, vivere di carità e di parassitismo, diventare dei bisognosi di professione; inoltre, è profondamente diseducativo regalare ogni cosa a chi non lavora e non intende guadagnarsi onestamente la vita, come nel caso dei rom. Chi si dimentica queste cose, chi vuol ridurre la Chiesa a una o.n.g., chi scambia il Vangelo per il Manifesto, semplicemente non è cattolico. Che se ne vada per la sua strada; oppure Cristo dovrà tornare a farsi crocifiggere, visto che noi rifiutiamo la croce…
tratto da:
LA CHIESA DI SAN GAETANO
di Francesco Lamendola
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