LA SINDROME DEL MALE DI VIVERE
Non lasciamoci rubare la speranza. La finanza internazionale ci sta rubando i risparmi, la vita; i politici venduti ai suoi interessi la nostra identità e civiltà mentre una neochiesa eretica ci sta rubando la fede e il Vangelo
di Francesco Lamendola
La
finanza internazionale ci sta rubando i risparmi, i salari, la vita. I
politici venduti ai suoi interessi ci stanno rubando la nostra identità,
la nostra civiltà, la nostra sopravvivenza come nazioni e come popoli.
Una scuola e una università asservite al politicamente corretto ci
stanno rubando la cultura e l’intelligenza, il senso storico e il senso
estetico. Una contro-chiesa eretica e apostatica ci sta rubando la fede,
la dottrina, il Vangelo. Ma il furto più grande di tutti, il
tradimento più spregevole, la profanazione più immonda, sono quelli che
si stanno compiendo ai danni della nostra speranza. Ci stanno
rubando la speranza, ai giovani e ai meno giovani, a quelli che hanno un
lavoro e a quelli che non ce l’hanno, a quanti hanno famiglia e a
quanti, per una ragione o per l’altra, vivono soli: sia la speranza
umana, che è patrimonio comune e necessità imprescindibile di qualsiasi
essere umano, sia la Speranza cristiana, virtù teologale che discende da
Dio e che non è in potere degli uomini dare o togliere ad alcuno, ma è
in potere degli uomini, e sia pure di uomini diabolici, interamente
votati al male, offuscare e nascondere, affinché i fedeli finiscano per
non vederla e non riconoscerla più. Il furto della speranza,
nella sua duplice accezione, laica e religiosa, è la cosa più grave fra
tutte quelle che abbiamo sopra elencato: infatti, come sa anche
la saggezza popolare, a tutto c’è rimedio, tranne che alla
disperazione.
Se un uomo perde la speranza, perde anche la voglia di vivere e diventa un soggetto passivo, o meglio, cessa di essere un soggetto per diventare un oggetto, alla mercé di chiunque voglia farsi suo padrone e signore: sia in senso finanziario ed economico, sia in senso politico e giuridico, sia in senso intellettuale e culturale, sia in senso spirituale, morale e religioso. Diventa un relitto, un rudere, unozombie che si trascina penosamente, arrancando sulle strade polverose della vita, in attesa del colpo pietoso che lo liberi dalla sua sofferenza e dalla sua infelicità, come un cavallo sfiancato o come un asinello arrivato agli estremi, che non anelano ad altro se non a una rapida fine.
Se un uomo perde la speranza, perde anche la voglia di vivere e diventa un soggetto passivo, o meglio, cessa di essere un soggetto per diventare un oggetto, alla mercé di chiunque voglia farsi suo padrone e signore: sia in senso finanziario ed economico, sia in senso politico e giuridico, sia in senso intellettuale e culturale, sia in senso spirituale, morale e religioso. Diventa un relitto, un rudere, unozombie che si trascina penosamente, arrancando sulle strade polverose della vita, in attesa del colpo pietoso che lo liberi dalla sua sofferenza e dalla sua infelicità, come un cavallo sfiancato o come un asinello arrivato agli estremi, che non anelano ad altro se non a una rapida fine.
La
sindrome del male di vivere: siamo prigionieri della disperazione? Il
furto della speranza, nella sua duplice accezione, laica e religiosa, è
la cosa più grave, specie se frutto di un disegno diabolico preordinato.
Non
stiamo parlando in senso figurato, non stiamo facendo ricorso a
immagini pittoresche per amor di retorica: conosciamo un bel po’ di
persone che vivono, ormai, prigioniere di un tale stato d’animo, cioè prigioniere della disperazione.
E siccome la speranza non si perde per strada come si perde un
fazzoletto, perché essa fa parte naturalmente del corredo esistenziale
di ogni essere umano, come ne fanno parte l’intelligenza, la memoria e
la volontà, e se va perduta c’è sempre una causa ben precisa, un trauma
gravissimo, una esperienza lacerante, così, davanti al moltiplicarsi di
questo spettacolo, al proliferare di tali situazioni, non possiamo fare a
meno di giungere alla conclusione che non si tratta più di situazioni e
dinamiche private e particolari, ma di un fenomeno collettivo imponente,
tragicamente grandioso, che ha a che fare con tutto l’andamento del
sistema della società moderna, delle idee moderne e degli stili di vita
moderni. È chiaro che ci troviamo di fronte a un fenomeno di ordine
generale: come del resto aveva visto il grande Kierkegaard,
la disperazione è la malattia mortale; ed è la malattia specifica della
modernità. La modernità è una civiltà della crisi perpetua, o, se si
preferisce, è una anti-civiltà: la sola che sia nata sulla base di una
negazione e non di un’affermazione, la negazione della tradizione cristiana e, più in generale, la negazione della natura spirituale dell’uomo. Di conseguenza, tutti
gli uomini moderni sono malati, malati di disperazione. Questa è una
cultura che non genera salute, bensì malattia; che non mette al mondo
individui capaci di speranza, ma individui angosciati, oppure abulici e
rassegnati, i quali hanno smesso di sperare, quindi hanno perso la
voglia di vivere. Il crollo demografico della vecchia Europa ne è la
chiara dimostrazione: non si ama più la vita, non si crede più nel
futuro. Quante volte abbiamo sentito dire, anche da persone ancora
relativamente giovani: Mettere al mondo dei figli? Mai! Non mi
assumerò mai la responsabilità di gettare nella fossa dei leoni delle
creature innocenti; il mondo in cui dovrebbero vivere è troppo incerto,
troppo difficile e brutto. Ecco: questa è la più spietata auto-accusa che una civiltà possa rivolgere a se stessa.
Una contro-chiesa eretica e apostatica ci sta rubando la fede, la dottrina, il Vangelo?
Storicamente,
le epoche di angoscia e disperazione sono quelle della decadenza. Tale,
per esempio, è stata la civiltà greco-romana negli ultimi secoli della
sua lunga parabola, come ha visto uno storico del cristianesimo del
valore di Eric R. Dodds; ed è stata un’epoca di angoscia, perché è stata
un’epoca di vuoto spirituale, una terra di nessuno fra il paganesimo
morente e il cristianesimo nascente. Se ne ricava che un’epoca di vuoto
spirituale è anche un’epoca di angoscia e disperazione. Tuttavia, se si
analizza la parabola storica della modernità, si resta colpiti dal fatto
che essa nasce già vecchia: vale a dire già minata da un senso di
angoscia e disperazione. Tali sono i tratti salienti del XVII secolo,
quando essa nasce; e nei secoli successivi non fanno che crescere a
dismisura. Il secolo XX si direbbe il secolo dell’inferno, nel quale si
scatenano le forze delle tenebre: e non parliamo solo delle due guerre
mondiali, dei genocidi e della bomba atomica, parliamo anche
dell’immagine dell’uomo e della vita che emerge dalle correnti
letterarie, filosofiche e scientifiche prevalenti. Ciò non può essere un
caso. Ne consegue che la civiltà moderna, unica fra tutte quelle che
conosciamo, è nata e si è affermata portando in se stessa i germi della
malattia mortale: è stata, al di là delle ingannevoli apparenze, una
civiltà decadente fin dalle origini. E solo una anticiviltà presenta una
simile caratteristica, un simile difetto di fabbrica; tutte le vere
civiltà nascono più o meno sane, per poi ammalarsi lungo la strada.
La spaventosa verità è che una élite mondiale orchestra "la disperazione", la favorisce, la propaga, la ingigantisce? E' una
duplice congiura contro il genere umano: sul piano materiale,
impoverendolo sempre più per mezzo della speculazione finanziaria, fino a
ridurlo in uno stato di vera schiavitù; sul piano morale, rubandogli la
speranza, in modo da fiaccarne l’anima e ridurla in condizioni
comatose.
Non
vogliamo, tuttavia, impelagarci in un ragionamento astratto, storico o
filosofico che sia. Vogliamo limitarci ai fatti, ai fatti osservabili,
ai nudi fatti della nostra esperienza concreta. Crediamo di non essere i soli ad aver fatto questa osservazione: che l’angoscia e la disperazione dilagano.
Magari dilagano silenziosamente, senza gesti clamorosi (per quanto, e
non di rado, vi siano pure quelli): però avanzano sempre di più. Il male
di vivere è diventato un sistema normale di vita; la depressione,
l’abuso di farmaci e di alcool, il suicidio, sono “soluzioni” e
“risposte” sempre più frequenti, quasi abituali. Alzi la mano chi non ha
avuto almeno un amico che si è tolto la vita, o ha tentato di farlo,
magari un padre di famiglia; o chi non ha conosciuto da vicino la
depressione, magari nella persona di un congiunto; o chi non conosce
diverse persone, nella cerchia delle sue frequentazioni abituali, che
non hanno, o hanno avuto, seri problemi con l’alcool o con le droghe, o
loro direttamente, oppure i loro figli, o gli amici dei loro figli. Tutto questo disagio esistenziale richiede una spiegazione
globale, come globale è il problema. Statisticamente, è sempre esistita
e sempre esisterà una percentuale di persone le quali, per svariate
ragioni, non riescono ad adattarsi ai ritmi della vita, non riescono a
integrarsi, non riescono a vivere serenamente, ma soffrono e si
tormentano, e, non di rado, si comportano in modo autodistruttivo. Ora,
però, non si tratta più di sporadici casi individuali, ma di una
sindrome vera e propria: la sindrome del male di vivere;
ed è una sindrome esclusivamente moderna. Dietro la vetrina
scintillante del progresso, della fiducia nella scienza e nella tecnica,
del consumismo, dell’edonismo, c’è una disperazione crescente, che non
risparmia più nessuno, il ricco come il povero, il giovane come il
vecchio, il lavoratore come il pensionato. Specialmente le persone più
sensibili, e specialmente le persone di una certa età, che sono in grado
di fare confronti con la situazione di trenta, quaranta, cinquanta anni
fa, non riescono a darsi pace e scivolano verso la sfiducia, lo
smarrimento, la depressione; stanno perdendo la speranza e non vedono
alcun segnale confortante all’orizzonte, nemmeno per le future
generazioni. Una persona anziana, che non sia del tutto egoista,
potrebbe trovare conforto all’idea che i suoi figli e i suoi nipoti
riusciranno a trovare il loro posto nel mondo, riusciranno a vivere una
vita degna, se non felice; ma se anche questa aspettativa scompare, se
anche per i giovani di domani le prospettive appaiono tetre,
sconfortanti, chi non è più giovane sprofonda in un pessimismo senza rimedio.
Si domanda a che scopo abbia creato una famiglia, abbia messo qualcosa
da parte da lasciare ai figli e ai nipoti; si domanda che senso abbia
avuto piantare degli alberi che non faranno ombra ai suoi discendenti,
ma, probabilmente, a degli stranieri, provenienti da terre lontane, da
civiltà e culture che niente hanno a che fare con la nostra, da
tradizioni e valori lontanissimi, e perfino opposti a quelli che hanno
dato un senso di continuità a loro e a quanti sono vissuti prima di
loro. E tutto ciò ha il sapore di un’atroce beffa. Nessuno vive e
lavora per degli estranei; è logico e naturale vivere e lavorare per
lasciare qualcosa ai propri discendenti, affinché portino avanti
l’universo spirituale e materiale al quale si appartiene.
Oggi l’angoscia e la disperazione dilagano: è la cultura moderna del nichilismo che ci portando ad un inevitabile suicidio collettivo.
Diventa
perciò necessario reagire allo scoraggiamento e non lasciarsi rubare la
speranza, perché senza di essa non si può vivere. Ma dove trovare gli
elementi sui quali far leva per tornare a guardare al presente, e
soprattutto al futuro, con un minimo di fiducia? Umanamente, infatti,
tali elementi non ci sono: non se vogliamo dirci la verità, né se
vogliamo restare su un terreno realistico e razionale. La fede, per i
credenti, dovrebbe essere l’elemento che consente quel salto di qualità,
quello stacco dalle miserie presenti, che restituisce un orizzonte di
speranza; anzi, di Speranza con la maiuscola, di Speranza come virtù
teologale. Ma quelli che non hanno la fede? E quelli
che l’avevamo, ma l’hanno persa, o la stanno perdendo? E quelli che la
stanno perdendo proprio a causa della contro-chiesa, dei suoi pessimi
esempi, della sua sistematica distruzione del codice dottrinale e morale
sul quale hanno fondato la loro esistenza le generazioni che ci hanno
preceduto? Ebbene, a questo punto occorre distinguere fra la speranza
come mera disposizione psicologica e la speranza come elemento
costitutivo della natura umana. Il primo è un fattore psicologico
individuale e perciò variabile; ci sono persone naturalmente speranzose e
ce ne sono altre naturalmente pessimiste. La speranza, per gli uni e
gli altri, è una disposizione individuale, una attitudine della propria
persona nel rapporto con la realtà esterna. Questo è un dato fisiologico
immodificabile; come ci sono i biondi e i mori, così ci sono le persone
che sperano sempre e altre che disperano di tutto. Un’altra cosa, ben
diversa, è la speranza in quanto componente costitutiva dell’essere
umano. Anche le persone più inclini al pessimismo e allo scoraggiamento
non sono del tutto prive di speranza: la speranza è necessaria all’uomo quanto l’aria da respirare; ;
nessuno può vivere completamente senza di essa, perché, se svanisce del
tutto, subentra la decisione del suicidio. Il suicida è colui che non
vede all’orizzonte neanche un raggio di speranza e non è disposto a
sperare assolutamente più nulla. La disperazione, quindi, il contrario della speranza, è la forma estrema del nichilismo:
e infatti il nichilismo è il tratto distintivo, in fondo il più
coerente, della cultura moderna. Gli scrittori, i poeti, gli artisti, i
pensatori moderni, sono quasi tutti nichilisti; o, almeno, lo sono
quelli delle correnti maggioritarie. Meglio ancora: lo sono quelli della
cultura dominante, selezionata apposta per veicolare il messaggio del
nichilismo. Giungiamo così a sospettare la spaventosa verità: che una élite mondiale orchestra la disperazione, la favorisce, la propaga, la ingigantisce, mentre
si preoccupa di porre ogni sorta di ostacoli a quanti non sono disposti
a farsi dei cantori di disperazione. Fra un Alberto Moravia, che
descrive un mondo desolato e desolante, dove tutto è brutto, sporco,
falso e ipocrita, dove non esistono sentimenti o persone puliti, ma solo
meschinità, superbia, egoismo e una lussuria patologica, e una
scrittrice come Maria Pascucci, che parla del bene, le case editrici, i
critici letterari, i professori universitari si schierano massicciamente
per il primo. La cultura moderna deve essere la cultura della disperazione:
qualcuno lo vuole. Chi? Gli stessi che hanno deciso il destino dei
popoli attraverso il nodo scorsoio della grande finanza: quella infima
minoranza che possiede le banche e controlla le multinazionali. Per
costoro, il fatto che gli uomini sprofondino nell’angoscia e nella
disperazione è funzionale ai loro interessi: quanto più gli uomini sono
depressi, impotenti e rassegnati, tanto più sono manipolabili. Ed è
questo che vogliono: il controllo totale sugli uomini e i popoli, per
attuare i loro diabolici progetti di dominio planetario.
Non lasciamoci rubare la speranza
di
Francesco Lamendola
continua su:
http://www.accademianuovaitalia.it/index.php/contro-informazione/le-grandi-menzogne-editoriali/6707-la-speranza-rubata
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