La neochiesa eretica distrugge la fede col ridurla a psicologia. L'emblematico caso del Sacramento della "Confessione" ridotta a un fatto puramente umano. Perchè siamo cristiani e non giudei, o islamici, o buddisti, o induisti?
di Francesco Lamendola
Sono molte, ormai, le affermazioni formalmente eretiche del signore argentino, alcune delle quali affidate a semplici interviste, altre a omelie della santa Messa, altre ancora a documenti ufficiali che dovrebbero essere del Magistero, ma che non lo sono, perché, contraddicendo frontalmente il Magistero stesso, si invalidano da se stessi e tradiscono l’intenzione eretica che li ha partoriti.Tale è, per esempio, la sua affermazione solenne, contenuta nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, § 247, che recita testualmente: Uno sguardo molto speciale si rivolge al popolo ebreo, la cui Alleanza con Dio non è mai stata revocata, perché «i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Rm11,29), e che contraddice sia il Concilio ecumenico di Firenze del 1431, sia l’enciclica Ex quo primum del 1756, nei quali si dice e si ribadisce che l’Antica Alleanza è stata revocata e abrogata, essendo stata sostituita definitivamente e irrevocabilmente dalla Nuova Alleanza, quella suggellata dal Sacrificio di Gesù Cristo sulla croce. Per questo siamo cristiani e non giudei (o islamici, o buddisti, o induisti): perché crediamo che Gesù Cristo, venendo nel mondo e sacrificandosi per amore nostro, ha stretto con tutti gli uomini un nuovo patto, che abolisce l’antico. San Paolo, poi, da teologo, ha mostrato perfettamente cosa questo significhi: che secondo l’Antica Legge, nessuno riesce a salvarsi, e che noi siamo salvi non mediante l’osservanza della Legge, ma mediante la grazia di Cristo, dono gratuito di Dio. Tutto ciò dovrebbe essere assolutamente chiaro ed evidente a qualsiasi cristiano, non diciamo a un sacerdote o un catechista: ha dell’incredibile che non lo sia per un papa. Se poi, come è probabile, lo è, allora non si tratta di un papa caduto in eresia per leggerezza, ma in base a un progetto ben preciso, a una strategia voluta e pianificata da tempo, e quasi certamente non da lui, o non da lui solo…
Papolatria e svolta antropologica. Oggi la neochiesa "eretica" del gesuita Bergoglio distrugge la fede, col ridurla a psicologia: al centro di tutto non c’è più Dio, ma l’uomo, non c'è più Gesù Cristo ma . . lui, l'argentino venuto dalla fine del mondo !
Ma vorremmo andare oltre questi ragionamenti e porre la questione centrale: non si tratta di singoli atti, di singole affermazioni, di singoli documenti, ma di tutto l’insieme della pastorale e, se così possiamo dire, della teologia di questo pontificato, che sono eretici. E si tratta di un tipo di eresia ben nota alla Chiesa da circa un secolo, visto che san Pio X l’aveva vista e riconosciuta perfettamente, dandole anche un nome: modernismo. L’essenza di tale eresia, che pure si compone di svariati elementi e nella quale confluiscono numerose tendenze ereticali, è questa: sostituire al culto di Dio il culto dell’uomo. Al centro di tutto non c’è più Dio, ma l’uomo. E la Chiesa si è messa su questo piano inclinato, che conduce all’eresia, ben prima dell’elezione, assai dubbia, del signore argentino: ci si è messa fin dal Concilio Vaticano II, ispirato, dal principio alla fine, dalla teologia eretica di Karl Rahner, che ha continuato a sospingere e a traviare la Chiesa anche negli anni successivi, sempre pungolandola con il mantra, ripetuto fino all’ossessione: bisogna completare l’opera del Concilio; il Concilio è stato boicottato, frenato, tradito; bisogna attuare finalmente, e sino in fondo, tutte le novità del Concilio. La teologia aberrante, eretica, o, per meglio dire, l’anti-teologia del gesuita Karl Rahner (gesuita come Teilhard de Chardin, come Bergoglio, come Spadaro, come Sosa Abascal, come James Martin… dobbiamo continuare l’elenco?) si dà a conoscere fin dal nome: svolta antropologica. Ma da quando in qua la teologia è incentrata sull’uomo? Essa è stata presentata come una specie di “rivoluzione copernicana” della teologia, ma era semplicemente la morte della teologia. Se la teologia si abbassa all’orizzonte dell’umano, dell’immanenza, ciò che avremo non sarà più la visione spirituale dell’uomo, che cerca Dio perché in Dio ha la nostalgia della sua patria celeste, ma una visione carnale dell’uomo, una visone biologica, materialistica e storicistica: l’uomo è un essere naturale, dotato di impulsi, di istinti, condizionato dall’inconscio e dal super-io, modellato dalla società e dalle vicende storiche… tutto, tranne che una creatura spirituale, fatta a immagine di Dio e che a Dio aspira a ritornare. Ma non è questo che insegna la dottrina cattolica; essa insegna che l’uomo può e deve innalzarsi al livello del soprannaturale, ossia della vita divina, con l’aiuto della grazia e l’azione dei Sacramenti.
La confessione per Bergoglio è una specie di chiacchierata con un prete, che potrebbe essere fatta benissimo con uno psicologo, oppure, meglio ancora con l’amico del cuore.
Prendiamo, a titolo di esempio – ma potremmo partire da cento altri esempi, e anche di più, tale è l’inesauribile chiacchierare a ruota libera del signore argentino, anche e soprattutto nelle omelie della santa Messa – quel che Bergoglio ha affermato a proposito della Confessione. La Confessione è, fino a prova contraria, un Sacramento; ed è un Sacramento fondamentale, perché senza di esso l’anima, caduta nel peccato, non ritorna in grazia di Dio, ma ne resta al di fuori; così come resta separata, di fatto, dalla Chiesa, perché la Chiesa è la comunità dei cristiani, ma non dei cristiani che razzolano nel peccato, bensì dei cristiani che, pur cadendo in tentazione e anche in peccato, aspirano tuttavia alla riconciliazione con il Padre celeste, per mezzo di Gesù Cristo. A quanto pare, tuttavia, il signore argentino non la pensa a questo modo: per lui, stando alle sue stesse parole, e non per una nostra malevola interpretazione, la confessione - che scriviamo, a questo punto, con la minuscola – è una specie di chiacchierata con un prete, che potrebbe essere benissimo fatta con uno psicologo, oppure, meglio ancora, l’amico del cuore, al quale si dice tutto. Pare che il signore argentino abbia ignorato, o perso di vista, la cosa più importante: che il sacerdote, nel suo ufficio di confessore, non è che un alter Christus; e che il penitente, di conseguenza, non si reca nel confessionale per esporre le sue pene a un uomo, ma per confessare i suoi peccati a Gesù Cristo, il quale, solo, ha il potere di rimetterli, beninteso a condizione che egli sia pentito sincerante di essi e che abbia il serio proponimento di non commetterli di nuovo. E a questa concezione materialistica, immanentistica, psicologistica della confessione, cioè a questa concezione, se le parole hanno un senso, eretica, egli non è arrivato per caso, ma in ragione di un errore teologico fondamentale: aver ignorato che il peccato non è semplicemente uno sbaglio, o una colpa, in senso meramente umano, ma è una rottura del legame filiale con Dio, quel Dio che si è incarnato ed è morto e risorto per redimere gli uomini, e quindi rientra nell’ordine del soprannaturale, per cui solo un’azione soprannaturale – la remissione dei peccati da parte di Cristo, per mezzo di quel certo sacerdote - ha il potere di porvi rimedio, e riammettere quell’anima nell’amicizia e nella familiarità con il Padre celeste.
Rivolgendosi ai sacerdoti che confessano, da lui pomposamente denominati Missionari della Misericordia, il 9 febbraio 2016,Bergoglio ha testualmente detto:
Pertanto, qualunque sia il peccato che viene confessato - o che la persona non osa dire, ma lo fa capire, è sufficiente - ogni missionario è chiamato a ricordare la propria esistenza di peccatore e a porsi umilmente come “canale” della misericordia di Dio. E vi confesso fraternamente che per me è una fonte di gioia il ricordo di quella confessione del 21 settembre del ’53, che ha riorientato la mia vita. Cosa mi ha detto il prete? Non ricordo. Ricordo solo che mi ha fatto un sorriso e poi non so cosa è successo. Ma è accogliere come padre…
Un altro aspetto importante è quello di saper guardare al desiderio di perdono presente nel cuore del penitente. È un desiderio frutto della grazia e della sua azione nella vita delle persone, che permette di sentire la nostalgia di Dio, del suo amore e della sua casa. Non dimentichiamo che c’è proprio questo desiderio all’inizio della conversione. Il cuore si rivolge a Dio riconoscendo il male compiuto, ma con la speranza di ottenere il perdono. E questo desiderio si rafforza quando si decide nel proprio cuore di cambiare vita e di non voler peccare più. È il momento in cui ci si affida alla misericordia di Dio, e si ha piena fiducia di essere da Lui compresi, perdonati e sostenuti. Diamo grande spazio a questo desiderio di Dio e del suo perdono; facciamolo emergere come vera espressione della grazia dello Spirito che provoca alla conversione del cuore. E qui mi raccomando di capire non solo il linguaggio della parola, ma anche quello dei gesti. Se qualcuno viene da te e sente che deve togliersi qualcosa, ma forse non riesce a dirlo, ma tu capisci… e sta bene, lo dice così, col gesto di venire. Prima condizione. Seconda, è pentito. Se qualcuno viene da te è perché vorrebbe non cadere in queste situazioni, ma non osa dirlo, ha paura di dirlo e poi non poterlo fare. Ma se non lo può fare, ad impossibilia nemo tenetur. E il Signore capisce queste cose, il linguaggio dei gesti. Le braccia aperte, per capire cosa c’è dentro quel cuore che non può venire detto o detto così… un po’ è la vergogna… mi capite. Voi ricevete tutti con il linguaggio con cui possono parlare.
Vorrei, infine, ricordare una componente di cui non si parla molto, ma che è invece determinante: la vergogna. Non è facile porsi dinanzi a un altro uomo, pur sapendo che rappresenta Dio, e confessare il proprio peccato. Si prova vergogna sia per quanto si è compiuto, sia per doverlo confessare a un altro. La vergogna è un sentimento intimo che incide nella vita personale e richiede da parte del confessore un atteggiamento di rispetto e incoraggiamento. Tante volte la vergogna ti fa muto e… Il gesto, il linguaggio del gesto. Fin dalle prime pagine la Bibbia parla della vergogna. Dopo il peccato di Adamo ed Eva, l’autore sacro annota subito: Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero delle cinture» (Gen3,7). La prima reazione di questa vergogna è quella di nascondersi davanti a Dio (cf Gen 3,8-10).
Favole "omosessualiste" della neochiesa? Il gesuita James Martin, stretto collaboratore di Bergoglio, dice che il Catechismo spinge i giovani omosessuali al suicidio, e che essi non devono modificare in nulla la loro vita, perché Dio li accetta e li ama così come sono, parte dalla premessa erronea: che Gesù sia venuto a confermare tutti gli impulsi, approvare tutti i desideri e a "santificare" anche i peccati.
La neochiesa distrugge la fede col ridurla a psicologia
di Francesco Lamendola
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FILOSOFIA DI COLUI CHE CERCA DIO
Arrivare a Dio è spogliarsi di ciò che non è Dio. Salvaguardando la nostra "salute dell'anima" conservando lucidità, capacità di giudizio e discernimento, e dando alla propria intelligenza un buon nutrimento e non "spazzatura"
di Francesco Lamendola
C’è un solo modo per avvicinarsi a Dio, per unirsi a Dio, per essere con Dio: spogliarsi di tutto ciò che non è Dio, di tutto ciò che non piace a Lui, di tutto ciò che tiene l’anima lontana da Lui, perché la invischia e la sprofonda nelle passioni disordinate di quaggiù. È come quando si vuole andare in montagna: bisogna sbarazzarsi di tutto ciò che è superfluo, inoltre bisogna allenarsi ad arrampicare. Sbarazzarsi del superfluo, per colui che cerca Dio, significa sbarazzarsi di tutte le cose che tirano l’anima verso il basso, verso la palude; allenarsi ad arrampicare, vuol dire mettersi alla prova, imparare a dire “no” ai desideri di quaggiù, a vincere le tentazioni, a fare dei sacrifici, ad assumersi la responsabilità della propria salute spirituale. E come per la salute del corpo ci siamo troppo abituati alla deresponsabilizzazione, ad affidarci alle cure mediche standardizzate, senza cercar di capire la sorgente dei nostri disturbi e delle nostre malattie, così per la salute e la pulizia dell’anima bisogna imparare a prendersi cura di sé in prima persona, a dare buoni cibi e buone bevande alla propria anima e ad evitare tutti quegli stimoli, tutte quelle sollecitazioni che la farebbero stare male, che metterebbero in crisi il suo equilibrio e la sua trasparenza.
Fra parentesi, questa è la stessa ricetta che bisognerebbe applicare alla propria salute intellettuale: per conservare lucidità, capacità di giudizio e discernimento, bisognerebbe dare alla propria intelligenza un buon nutrimento e non spazzatura: leggere buoni libri, guardare buoni film (o, se non ce ne sono, nessuno), ascoltare buona musica: perché una intelligenza nutrita di spazzatura, di romanzi, testi filosofici, opere d’arte brutti, nichilisti, intrinsecamente disordinati, o inclini al vizio, alla pornografia, alla violenza, equivale a introiettare dei potenti veleni, che finiranno per intossicare l’organismo. Non ci si deve poi stupire se un albero concimato con simili sostanze pestilenziali si ammalala e muore; ci sarebbe semmai da stupirsi del contrario. Eppure, è proprio quello che facciamo un po’ tutti: ci stupiamo di essere nervosi, di essere ansiosi, di essere afflitti dall’insonnia, di avere la pressione alta, di soffrire di continue emicranie: ma se forniamo al nostro organismo dei cibi-spazzatura, e la stessa cosa facciamo con la nostra intelligenza e con la nostra vita spirituale, non avremmo poi alcuna ragione di stupore di fronte ai disastrosi effetti sulla nostra salute. Sarebbe come eleggere a proprio migliore amico un delinquente matricolato, accompagnarlo in tutte le sue ribalderie, e pretendere di non finire, una volta o l’altra, a marcire in una galera, o peggio. Tale è l’atteggiamento psicologico dell’uomo moderno: sfida continuamente la sorte, mette a repentaglio se stesso, non ha alcun timore di Dio, e poi fa le grandi meraviglie se gli capita qualcosa di brutto. Si direbbe che abbia smarrito completamente la coscienza del rapporto di causa ed effetto che esiste necessariamente fra il proprio stile di vita e i risultati che esso produce. Probabilmente la sua intelligenza, il suo puro e semplice buon senso sono stati ottenebrati da una continua indigestione di pessime letture, di pessime abitudini, di pessimi programmi televisivi, al punto da ridursi nelle condizioni di un bambino completamente inesperto della vita, il quale ancora non sa che c’è un prezzo da pagare per ogni cattiva azione che si commette; e che la vita, magari non subito, ma prima o poi certamente presenterà il conto per tutto quel che di male si è fatto e per tutto quel che di buono ci si è rifiutati di fare.
Per arrivare a Dio è come quando si vuole andare in montagna: bisogna sbarazzarsi di tutto ciò che è superfluo e sbarazzarsi del superfluo, per colui che cerca Dio, significa sbarazzarsi di tutte le cose che tirano l’anima verso il basso, verso la palude; allenarsi ad arrampicare, vuol dire mettersi alla prova, imparare a dire “no” ai desideri di quaggiù, a vincere le tentazioni, a fare dei sacrifici, ad assumersi la responsabilità della propria salute spirituale.
E se a tutto questo si aggiungono, nel caso del credente, i pessimi esempi che vengono dai pessimi pastori, o meglio dai lupi travestiti da pastori, a loro volta sprofondati nei vizi oppure ottenebrati dalla superbia intellettuale ed invischiati in cento errori ed eresie, allora si avrà un quadro complessivo di quanto grandi siano le forze e quanto complesse, vischiose e ingannevoli le dinamiche che congiurano contro il nostro equilibrio e contro la nostra ricerca di Dio; e quanto facile sia scivolare sulla strada sdrucciolevole che conduce non verso di Lui, ma verso una sua blasfema contraffazione, che viene oggi impunemente spacciata per la via maestra da un clero infedele ed apostatico.
Arrivare a Dio è spogliarsi di ciò che non è Dio
di Francesco Lamendola
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