Attento che anche nella Chiesa...
E sulle cose future?
Per gli onesti verranno giorni di tribolazione, Gesù invita alla perseveranza della fede e la Chiesa proteggerà questi figli.
Tu allora credi a queste verità, ma stà attento alle tentazioni, perché il demonio come lupo vorace, cerca persone per trascinarle nel vortice del suo inferno, alla rovina.
Tu sappi che il nemico può tentare di ingannarti per mezzo di persone che fuori la Chiesa e questi sono i pagani, gli idolatri, gli eretici, ma attento che anche nella Chiesa vive chi può corromperti e questi sono quei cristiani che vivono male la loro fede, sono disordinati nelle pratiche religiose, praticano l’adulterio e sono morbosamente dediti a curiosità vane ed illecite, come gli spettacoli immorali e la superstizione, o che si lasciano prendere dalle mode del mondo, sono orgogliosi dei loro pensieri e da altri simili comportamenti scorretti.
Tu non correre dietro di questi, ma procurati amici umili, che sanno obbedire, che si gloriano della legge di Dio, che non praticano azioni illecite, li troverai facilmente se anche tu ti impegnerai ad imitarli.
Sappi che non si ama il Signore come si amano le cose del mondo e come le si vedono con gli occhi; si ama come la sapienza, la santità, la verità, la giustizia, la carità e cose simili, l’obbedienza, la mansuetudine, l’umiltà. Unisciti a coloro che praticano queste virtù così, attraverso Cristo, presente in queste azioni sante, che si è fatto per noi mediatore, ti riconcilierai sempre con Dio.
Non pensare invece ai perversi, per il semplice fatto che sono entrati tra le pareti della Chiesa, perché non credere che essi possano di soppiatto entrare nel Regno dei cieli. Perché verrà il giorno in cui saranno definitivamente separati, augurati che possano cambiar tempestivamente la loro ipocrisia con il pentimento, ma tu non seguirli, prega per loro, ma non ti curar di loro.
San'Agostino - La Chiesa, paragrafo 53
La ricerca delle felicità? La felicità è conoscere, amare e servire Dio. Sì tutti gli uomini aspirano alla felicità ma no non tutti gli uomini aspirano al bene. Perchè la cultura moderna rifiuta S.Tommaso d’Aquino e Aristotele?
di Francesco Lamendola
Gli uomini cercano la felicità: questo è il dato fondamentale sul quale tutti sono d’accordo. Nessun filosofo ha mai pensato il contrario; nessuno ha mai sostenuto che gli uomini desiderano essere infelici; tutti, sempre, da qualsiasi prospettiva muovessero, hanno affermato che l’aspirazione fondamentale degli esseri umani è quella alla felicità. Le divisioni vengono nel passaggio successivo, su cosa sia la felicità, e in quello ancora ulteriore, se e come vi si possa giungere. Qualcuno ha anche avanzato dubbi sul concetto di “felicità” e ha fatto osservare che gli uomini, dopotutto, forse non aspirano a una meta così assoluta, ma si contenterebbero della “serenità”, o del “benessere”, o della “pace”. Non è solo una questione di parole: si tratta di sapere se nell’uomo vi è l’istinto al bene assoluto, oppure no: perché la felicità esprime il godimento di un bene assoluto, cioè di un bene che non conosce variazioni, che non è temporaneo, che non è provvisorio, ma è invece pieno, incondizionato e illimitato.
Uno dei capisaldi intoccabili della cultura moderna è la supposta uguaglianza degli uomini in fatto di capacità di volere e perseguire la ricerca del vero e del bene. A dispetto della insopportabile demagogia e della finzione ipocrita secondo la quale tutti gli uomini sarebbero ansiosi di cercare e attuare il bene, la verità dei fatti ci mostra ogni giorno che è vero il contrario.
Oggi, spesso, quelli che trattano questo tema si fanno prendere dall’emotività e partono con il piede sbagliato: pensano che per capire dove si trovi la felicità che tutti vorrebbero, e in che cosa consista, si debba osservare gli effetti che essa produce. Ma questo è il metodo scientifico, partire dall’osservazione dei casi particolari per risalire alle leggi universali; quando si fa filosofia, bisognerebbe invece partire dagli universali e poi discendere ai casi particolari. In questo caso, la domanda su cosa sia la felicità, impone la risposta: ciò che rende l’uomo felice. Ora, l’uomo è felice quando fa ciò che maggiormente si conviene alla sua natura, perché in ciò egli giunge alla perfezione delle sue possibilità, e questo crea in lui un senso di realizzazione che noi chiamiamo felicità, ovvero un completo appagamento interiore. Ne deriva che vanno scartate tutte le attività che non corrispondono alle più nobili facoltà dell’anima umana, ma alle più basse: rotolarsi nel fango dei piaceri carnali, per esempio, non corrisponde al massimo delle qualità che sono specificamente umane, ma, al contrario, a delle qualità che l’uomo condivide con gli animali. La qualità specificamente umana è la ragione; dunque, portare la ragione alla sua perfezione rappresenta, per l’uomo, il massimo della perfezione possibile: e il massimo della perfezione è il bene, e il bene reca, quale ricompensa, la felicità, che è appagamento totale. Ne deriva che l’uomo è felice quando porta al massimo le sue facoltà razionali, infelice quando le lascia inutilizzate e si concentra su ciò che è inferiore nella sua natura. È evidente che l’uomo porta al massimo le sue facoltà razionali quando le concentra su ciò che è razionalmente più perfetto, sulla Perfezione assoluta, perché tale è l’oggetto più nobile che sia concepibile alla mente umana. La conclusione è che l’uomo trova la sua felicità nel conoscere Dio, Somma Perfezione e quindi Bene assoluto: perché è bene ciò a cui tutti tendono, come alla loro Causa Prima; male ciò da cui tutti fuggono, come da ciò che contrasta massimamente con il bene. Il male quindi è il contrario del bene; e il bene è la perfezione assoluta, in cui si esprime l’ordine dell’universo. Il male, viceversa, è sommo disordine, sia in senso fisico che in senso morale. Il peccato è il male, perché allontana l’uomo da Dio e anche dalla sua stessa felicità; la grazia è il bene, perché aiuta l’uomo ad avvicinarsi a Dio, nel quale solo trova tutta la felicità che lo può soddisfare ed appagare. Tutte le altre forme di bene, essendo imperfette, non lo appagheranno neanche lontanamente quanto questa; tutte le altre forme di bene si riveleranno, prima o poi, deludenti e ingannevoli, perché nessuna cosa terrena possiede in sé qualità sufficienti ad appagare perennemente e indefettibilmente, ma tutte, per l’imperfezione che è propria del mondo terreno, prima o poi si corrompono, si disperdono, vengono meno.
San Tommaso d’Aquino
Scrive san Tommaso d’Aquino, nel 1272, nel suo Proemio al Commento al ”Libro delle cause”, cioè a un compendio di un ignoto autore arabo dell’opera di Proclo Elementi di teologia (Milano, Rusconi, 1986, pp. 167-168):
Come dice il Filosofo [Aristotele] nel decimo libro dell’”Etica”, la suprema felicitò dell’uomo consiste nella sua attività più nobile, che è propria della sua facoltà più elevata, che è l’intelletto, rispetto all’oggetto di intellezione più nobile. E poiché l’effetto si conosce tramite la causa, è chiaro che per sua matura la causa è più intelligibile dell’effetto, benché talvolta rispetto a noi gli effetti risultino più noti delle cause, in quanto noi conosciamo le cause intelligibili e universali a partire dalle cose particolari che cadono sotto i nostri sensi.
Parlando in senso assoluto, è dunque necessario che le cause prime delle cose siano in sé gli oggetti di intellezione più alti e più nobili, in quanto sono in sommo grado enti e in sommo grado veri, poiché sono causa della essenza e della verità delle altre cose, come risulta chiaro da Aristotele nel secondo libro della “Metafisica”; e ciò benché le cause prime rispetto a noi siano meno note e vengano conosciute solo in un secondo momento. Infatti, rispetto ad esse, il nostro intelletto si comporta come l’occhio della civetta rispetto alla luce del sole, che esso non può percepire interamente proprio per l’eccesso del suo splendore.
Dunque è necessario che la suprema felicità raggiungibile dall’uomo in questa vita consista nella contemplazione delle cause prime, perché quel poco che di esse che si può sapere è più degno d’amore e più nobile di tutto ciò che si può sapere delle cose di quaggiù, come risulta da Aristotele nel primo libro delle “Parti degli animali”. Quando poi dopo questa vita tale conoscenza diviene in noi completa, l’uomo si trova in uno stato di beatitudine perfetta, secondo il detto del Vangelo: “Questa é la vita eterna: conoscere Te, Dio vero e uno” (Gv 17, 3).
Ecco perché l’intento dei filosofi consisteva soprattutto nel raggiungere, attraverso tutto ciò che esaminavano nelle cose, la conoscenza delle cause prime. Perciò ponevano la scienza delle cause prime come fine ultimo, e a questa contemplazione riservavano l’ultimo periodo della loro vita. Iniziavano dalla logica, la quale dà il metodo stesso delle scienze; passavano poi alla matematica, che è alla portata anche dei fanciulli; in un terzo momento affrontavano la filosofia naturale, che richiede tempo, perché richiede esperienza; in un quarto la filosofia morale, a cui un giovane non può dedicarsi con pieno profitto; ed infine si dedicavano alla scienza divina, che contempla le cause prime degli enti.
Perchè la cultura moderna rifiuta San Tommaso d’Aquino e perfino Aristotele? si direbbe che sia strutturata al preciso scopo di fare in modo che gli uomini non arrivino neanche a capire in che cosa consista e dove si trovi la felicità !
È evidente che tutta l’impostazione, anche scolastica e universitaria, della cosiddetta cultura moderna, non va in questa direzione; anzi, tutto al contrario, si direbbe che sia strutturata al preciso scopo di fare in modo che gli uomini non arrivino neanche a capire in che cosa consista e dove si trovi quella felicità cui pure tutti, attivamente, aspirano. Ed è quindi chiaro che, per mettersi almeno a cercare nella direzione giusta, gli uomini moderni devono, per prima cosa, liberarsi dal condizionamento cui sono sottoposti e rifiutare la pressione di una falsa cultura che tende a confondere in loro la percezione del bene e del male, nonché del vero e del falso, se non addirittura a capovolgerla.
Arrivati a questo punto, dobbiamo, però, fare un ulteriore discorso, oggi quanto mai politicamente scorretto, e che nessuno, né il pubblico, né i cosiddetti intellettuali, sono disposti ad accettare, ma lo ascoltano digrignando i denti e schiumando di rabbia, perché contraddice frontalmente uno dei capisaldi intoccabili della cultura moderna: la supposta uguaglianza degli uomini in fatto di capacità di volere e perseguire la ricerca del vero e del bene. A dispetto della insopportabile demagogia e della finzione ipocrita secondo la quale tutti gli uomini sarebbero ansiosi di cercare e attuare il bene, la verità dei fatti ci mostra ogni giorno che è vero il contrario. Certo, colui che cerca e fa il male, lo fa credendolo un bene, perché il bene è la felicità, e, come abbiamo visto, nessuno desidera consapevolmente la propria infelicità. Così, per esempio, l’alcolista si ubriaca tutti i giorni perché prova piacere nel bere e non può farne a meno, e ciò che lo muove non è il desiderio di stare male, ma di star bene, anche se in qualche modo intuisce che quello “star bene” è illusorio e che lo sta distruggendo. Altri fanno il male perché credono, nella loro ignoranza, che sia la sola strada praticabile per raggiungere un certo bene: per esempio, l'inganno e tradiscono per realizzare la loro felicità, e non sanno che quanto viene acquistato con il male non reca la felicità, perché il bene non può mai scaturire dal male, e la propria felicità non può mai scaturire dalla infelicità altrui. Tuttavia, a differenza di quel che pensava Socrate e anche di quel che pensava Rousseau, non ne deduciamo che gli uomini farebbero naturalmente il bene, e quindi sarebbero felici, se solo lo vedessero e lo riconoscessero, e se solo qualcuno lo indicasse loro e offrisse loro i mezzi per realizzarlo. Sì, tutti gli uomini aspirano alla felicità; ma no, non tutti gli uomini aspirano al bene. Il filosofo sa che la felicità risiede nel bene, ma l’uomo grossolano (grossolano di animo, non d’intelletto) non lo sa: pensa che la felicità consista nel fare ciò che dà piacere. Pertanto, anche se qualcuno spiegasse a costui che si sta sbagliando, anche se gli mostrasse la strada della vera felicità, che è il bene, egli non ci crederebbe e non ascolterebbe: perché fare il bene è spesso faticoso, ingrato, difficile, e qualche volta addirittura pericoloso. Ora, come può una cosa faticosa, ingrata, difficile e pericolosa recare il bene desiderato, ossia la felicità? Così pensa l’uomo grossolano, per il quale la felicità deve essere riconoscibile a prima vista, e deve consistere in cose basse e volgari, come bassa e volgare è la sua anima. Il simile chiama il simile. Per il lussurioso impenitente, la felicità è abbandonarsi alla lussuria; per il superbo, abbandonarsi alla propria superbia; per l’avaro, coltivare sempre di più l’avarizia. La verità è che l’essere felici viene dato in premio ai buoni, ma non è mai, né può essere, l’oggetto della ricerca: l’oggetto della ricerca, per arrivare alla felicità, deve essere il bene. E questo può capirlo, o intuirlo, sono un’anima buona: e le anime, ci dispiace per i buonisti a tutto campo, non sono tutte buone, cioè non tutte le anime desiderano il bene. Vi sono anime grossolane che desiderano solo rotolarsi nel fango delle passioni disordinate; e vi sono perfino, è orribile dirlo, delle anime malvagie, le quali desiderano il male per il male, per il gusto del male, perché solo dal male traggono piacere: veri demoni incarnati. Questo è un mistero, ma è una realtà: mysterium iniquitatis. Dopo di che, lasciamo che Rousseau, con uno stuolo di psicologi e sociologi buonisti, e di magistrati altrettanto buonisti e di preti untuosamente “misericordiosi”, riversino ogni colpa sulla società, sull’ambiente, sulla cattiva educazione e sui cento altre cose: ma il fatto che noi possiamo e dobbiamo constatare, se vogliamo essere intellettualmente onesti, è che la malvagità esiste, perché esistono anime che anelano al male anziché al bene, e lo fanno in piena lucidità e in perfetta coscienza.
Pochi comprendono che la felicità è il premio che viene dato alla vita buona: e non un premio che si possa misurare con il metro del giudizio sensibile, tutto umano, perché di solito è intessuto di spine e di sofferenze.
Ragionare su questo mistero ci porterebbe assai lontano e del resto lo abbiamo già fatto in diverse occasioni. Ritorniamo al nostro assunto iniziale: la ricerca delle felicità. Gli uomini ne hanno una profonda, istintiva nostalgia: è come se, fin dalla nascita, recassero il ricordo di un mondo luminoso, bellissimo, del quale hanno smarrito la strada e nel quale vorrebbero ritornare. La vita di ciascun essere umano – di ciascun essere normale, e non di quei mostri che desiderano il male per se stesso – non è che un andare a tentoni, per prove ed errori, in cerca di quella smarrita strada. Tutti vorrebbero ritornare in quel giardino meraviglioso, nel paradiso terrestre. Molti, però, senza dubbio la maggioranza, credono che esista una strada che vi porta direttamente: ogni incontro che fanno, ogni occasione favorevole che si presentano loro, viene da essi scambiata per il cancello che vi conduce senz’altro. Ogni volta credono di aver trovato la felicità; e ogni volta, presto o tardi, ne restano delusi. Ah, era solo questo? E si rimettono a cercare, e di nuovo s’ingannano, di nuovo s’illudono e di nuovo falliscono.
Gli uomini cercano la felicità: questo è il dato fondamentale sul quale tutti sono d’accordo. Nessun filosofo ha mai pensato il contrario; nessuno ha mai sostenuto che gli uomini desiderano essere infelici; tutti, sempre, da qualsiasi prospettiva muovessero, hanno affermato che l’aspirazione fondamentale degli esseri umani è quella alla felicità.
Pochi comprendono che la felicità è il premio che viene dato alla vita buona: e non un premio che si possa misurare con il metro del giudizio sensibile, tutto umano, perché di solito è intessuto di spine e di sofferenze. Abbiano detto che la felicità è conoscere, amare e servire Dio, perché Dio è il Sommo Bene, e la felicità è la forma più alta del bene. Ma chi arriva a capire questo – e certo non vi giunge da solo, perché la mente umana non è capace di tanto, ma per una illuminazione che discende dalla grazia divina – capisce anche che la piena felicità non è data dal possesso di beni sensibili, non è fatta di gratificazioni umane, non risiede nel dare godimento alle parti inferiori dell’anima, quelle puramente animali, ma è fatta della pura gioia di esser giunti al cospetto di Dio, sorgente infinita di ciò che è sommamente desiderabile. E quando l’anima è felice in questo modo, non si cura dei disagi e delle sofferenze del corpo, né delle incomprensioni e delle persecuzioni degli altri uomini, anzi, capisce che tali spine sono i necessari gradini della scala che conduce verso Dio. I Santi, che lo capiscono, mai si lamentano delle sofferenze del corpo o della incomprensione degli uomini; mai perdono la loro serenità interiore, per quanto la loro vita possa essere angustiata e tribolata dalle circostanze esteriori. E noi, che non siano Santi, vorremmo di più?
La felicità è conoscere, amare e servire Dio
di Francesco Lamendola
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