Tornare al paradigma cristiano per ritrovare il proprio posto nel mondo. Abbiamo visto a quali catastrofici esiti conduca la strada del relativismo: dobbiamo tornare al vero, al buono, al giusto, al bello dobbiamo tornare a Dio
di Francesco Lamendola
Il dramma dell'uomo moderno deriva dalla perdita del proprio posto nel mondo, cosa che implica anche la perdita dell'armonia con se stesso. L'uomo pre-moderno, cioè l'uomo cristiano, aveva un posto preciso nel mondo, perché sapeva cos'è il mondo e cos'è l'uomo. Sapeva che l'uno e l'altro sono opera di Dio; e sapeva che, per occupare degnamente il proprio posto fra le altre creature, l'uomo deve ordinare la sua vita al fine per il quale egli è stato chiamato all'esistenza. Questa è la ragione per cui erano disapprovati quelli che oggi vengono definiti "marginali": perché, con la loro vita irregolare e disordinata, incrinavano il buon funzionamento della società, che ha per fine il raggiungimento dello scopo ultimo dell'esistenza e non la realizzazione unilaterale dell'individuo. Senza dubbio l'uomo medievale, cioè l'uomo cristiano, aveva un senso assai più fortemente comunitario dell'esistenza: sapeva che nulla può andar bene se ciascuno persegue egoisticamente i propri fini, magari a danno degli altri (ed ecco perché, ad esempio, era severamente condannata l'usura). L'uomo moderno è, all'opposto, ferocemente individualista; tuttavia, siccome la società moderna è caratterizzata dalle masse, l'uomo moderno è, curiosamente, un individualista di massa. Come egli riesca a conciliare le due cose, l'essere ultra-individualista e l'essere costantemente parte di una massa, è affar suo, e ciascuno di noi può giudicare se e in quale misura egli vi riesca. Se non ci riesce, allora vive in costante conflitto con gli altri e, in definitiva, anche con se stesso, perché vivere con gli altri, e a maggior ragione in una società massificata, significa trovare un punto d'incontro fra i propri bisogni e quelli di tutti.
Abbiamo visto a quali catastrofici esiti conduca la strada del relativismo: dobbiamo tornare al vero, al buono, al giusto, al bello: "dobbiamo tornare a Dio".
Dicevamo che la visione cristiana implica una fiducia nell'ordine del mondo. Il mondo è ordinato perché creato da Dio: dunque creato per una ragione precisa, e ordinato ad un fine preciso. L'uomo cristiano sa perché esiste e sa dove sta andando: esiste per la gloria di Dio, e sta andando verso l'eternità, rispetto alla quale la vita terrena è una brevissima parentesi, un pellegrinaggio che serve per metterlo alla prova e renderlo degno della beatitudine del Paradiso. Ma c'è anche l'altra possibilità, che egli fallisca la prova e che non sia degno della beatitudine, bensì della dannazione: giudizio di Dio, sì, ma non arbitrario, né capriccioso (ah, Lutero, Lutero: quale danno immenso hanno fatto la tua negazione del libero arbitrio e la tua dottrina della salvezza con la sola fede!), bensì derivante, in maniera del tutto logica ed evidente, dal tipo di vita che egli ha condotto sulla terra; in un certo senso, il giudizio definitivo scaturisce dalle sue stesse mani e dalle sue stesse azioni. E chi non ha capito questo, è meglio che lasci perdere Dante, Giotto, le cattedrali romaniche e quelle gotiche, metta da parte la Divina commedia e la Summa teologica, e passi ad altro. Ma è meglio che lasci perdere anche Leibniz, Pascal, Berkeley, Vico, Manzoni, Rosmini, Gioberti, Kierkegaard, Dostoevskij, Tolstoj, Chesterton, Papini, Bernanos, Marcel, Guardini, per non parlare del Beato Angelico, Michelangelo, Bach, o anche, semplicemente (si fa per dire) di una icona russa. In altre parole, chi non ha capito questo, non è in grado di capire nulla del passato, né di una bella fetta del presente: crede di essere all'avanguardia, perché si dichiara seguace del progresso; ma che progresso è quello che lo rende estraneo a una parte della sua cultura, che lo distacca dalle sue radici, che gli preclude la comprensione di tanta parte della poesia, dell'arte, della musica, del pensiero, non solo di ieri, ma anche dell'oggi?
L'uomo cristiano sa perché esiste e sa dove sta andando: esiste per la gloria di Dio, e sta andando verso l'eternità, rispetto alla quale la vita terrena è una brevissima parentesi, un pellegrinaggio che serve per metterlo alla prova e renderlo degno della beatitudine del Paradiso.
E qui torniamo al nostro assunto iniziale. Se l'uomo moderno ha perso il proprio posto nel mondo, perché ha voltato le spalle alla sua stessa tradizione e ha rinnegato le sue stesse radici, allora il problema più urgente che deve essere posto all'ordine del giorno è quello di aiutarlo a ritrovare il posto che ha smarrito. L'uomo non sarà mai in pace con se stesso, né con gli altri, ma sarà sempre in guerra, se rinnega le proprie radici, perché ciò equivale a perdere la propria identità: e chi non ha più una identità è ridotto a vagare a caso, ora qua, ora là, come un relitto trascinato dalle correnti, e ad urtare continuamente contro gli altri relitti, anch'essi fuori controllo e trascinati dal caso. Ci sembra indubbio che una tale riconciliazione dell'uomo con il mondo e con se stesso deve passare per il recupero del concetto di chiamata, che, a sua volta, implica il concetto di fine. Noi non veniamo al mondo per caso e non viviamo all'insegna del caso; siamo chiamati, e siamo chiamati per fare qualcosa. Pertanto, se qualcuno ci ha chiamati per fare qualcosa, ciò significa che un ordine esiste, come esiste nel caso dell'edificio progettato dall'architetto, o della musica creata dal musicista. Tutte le cose tendono a un fine, e questo fine è buono, perché il fatto stesso che le cose esistano attesta la bontà dell'essere. Nulla viene creato per il male; creare qualcosa è un atto buono in se stesso, perché significa porre qualcosa che è altro da sé, e in vista del quale si è disposti ad affrontare e sopportare sacrifici, privazioni, e, al limite, anche la morte. Così la madre, che darebbe la vita per il figlio nato dalle sue viscere; così l'artista, che si rovina la salute e si ammala, pur di creare le sue opere, così come sente che devono essere realizzate.
Naturalmente, perché l'azione di creare sia buona in senso oggettivo, e non solo soggettivo, cioè buona non solo per chi crea, ma buona per tutti, bisogna che sia orientata nel senso giusto: che sia diretta non a celebrare l'io, ma a celebrare la verità, la bontà, la giustizia e la bellezza dell'essere. Questa è la differenza fra un poetastro e un vero poeta: i versi del primo annoiano e fanno sbadigliare, i versi del secondo commuovono e interrogano, perché fanno vibrare una corda dell'essere. Anche la vita umana può e deve essere trasformata in un'opera, il cui scopo non è celebrare l'io, gratificare l'io, o fornire uno sfogo alle passioni dell'io, ma concorrere a quella grande opera universale che è la creazione di Dio: alla sua verità, alla sua bontà, alla sua giustizia e alla sua bellezza. Una vita intessuta di menzogne, per esempio, contraddice la verità dell'essere; una vita di cattiverie, contraddice la sua bontà; una vita di frodi, la sua giustizia; una vita di sconcezze, la sua bellezza.
L'uomo non sarà mai in pace con se stesso, né con gli altri, ma sarà sempre in guerra, se rinnega le proprie radici, perché ciò equivale a perdere la propria identità: e chi non ha più una identità è ridotto a vagare a caso, ora qua, ora là, come un relitto trascinato dalle correnti, e ad urtare continuamente contro gli altri relitti, anch'essi fuori controllo e trascinati dal caso.
Né si deve credere che questo discorso riguardi solo dei casi estremi e relativamente poco frequenti. Ogni volta che noi, intenzionalmente, non diciamo la verità a quanti ci ascoltano e forse si fidano, sfiguriamo la verità dell'essere; ogni volta che facciamo del male, anche solo con una parola tagliente e ingenerosa, deturpiamo la sua bontà; se strumentalizziamo gli altri, ad esempio per avere un vantaggio personale, anche sul piano affettivo, offendiamo la sua giustizia; se manchiamo di pudore, di dignità, di decoro, degradiamo la sua bellezza, che è anche la nostra. Perché l'Essere in senso assoluto è Dio: è Lui la somma Verità, la somma Bontà, la somma Giustizia e la somma Bellezza; però dell'essere siamo partecipi anche noi, ciascuno con la sua parte di buona o cattiva volontà, con il suo desiderio di ordine o la sua tendenza al disordine, con il suo senso della giustizia o con la sua tendenza a prevaricare sugli altri. Sono cose frequentissime: la madre che riversa sul figlio un amore patologico, compulsivo, ossessionante, che lo vuole controllare in ogni cosa, viola il principio della giustizia; l'amico che tradisce un segreto e racconta ad altri ciò che gli è stato rivelato in confidenza, tradisce la verità. Noi siamo partecipi dell'essere, abbiamo l'essere, pur non essendo l'essere: quindi tutto ciò che desideriamo, che diciamo o che facciamo contribuisce a far risplendere l'essere o ad appannarlo, s'intende sul piano del relativo e non dell'assoluto. Sul piano dell'assoluto, l'Essere è Dio: ed è come il sole che brilla sempre nel cielo, al di sopra delle nubi. Ma sotto le nubi, vigono i fenomeni atmosferici: il vento, la pioggia, la grandine, la neve. Noi siamo come i fenomeni atmosferici, abbiamo la possibilità di fare il bello e il cattivo tempo al di sotto delle nubi, cioè sul piano della contingenza. Si pensi a un padre tirannico, iracondo, che fa vivere la sua famiglia nel terrore: davvero grande è il suo potere, purtroppo in negativo; al punto che da lui dipende l'intero clima che si respira in quella casa. E ora pensiamo a come quella casa potrebbe tornare ad essere felice, se quell'uomo, attraverso un processo d'introspezione e di autocritica, ma soprattutto di conversione, decidesse di volgere al bene le sue azioni: sua moglie e i suoi figli tornerebbero a vivere, come i fiori e le piante che ricevono finalmente la pioggia, dopo un lungo periodo di siccità. La stessa cosa accade nella più vasta società: sono i cattivi pensieri, le cattive parole e le cattive azioni che provocano il disagio e la sofferenza di tutti.
Ora, se la conversione individuale è sempre possibile, a un livello collettivo vi è bisogno di un ri-orientamento dei nostri pensieri, dei nostri sentimenti, del nostro modo di vedere il mondo e la vita, che coinvolga l'intera società: in altre parole, vi è bisogno di un cambio di paradigma. Il paradigma moderno si è logorato, o forse, per parlare in maniera più esatta, non è mai realmente decollato, per il semplice fatto che era gravato, sin dall'origine, da una contraddizione di fondo, veramente insanabile, cui abbiamo già accennato: da un lato, la rivendicazione di un individualismo estremista; dall'altro, la pretesa di godere di tutti i vantaggi, veri o presunti, della società di massa (consumi di massa, istruzione di massa, informazione di massa, trasporti di massa, democraticismo assoluto, ecc.). Un paradigma è la sintesi dei valori, delle conoscenze, dei bisogni e delle aspettative di una società: in breve, è una civiltà; e una civiltà non s'improvvisa. Ciò non toglie che, ravvisando i limiti insuperabili e dolorosi di un certo modo di vivere, cioè di una determinata società, non si possa e non si debba individuare, proporre e cercar di costruire un nuovo modello di esistenza, una nuova scala di valori, un nuovo orientamento complessivo della vita, sia individuale che collettiva. E' di questo che vi è bisogno, oggi; è questo il compito al quale siamo chiamati: la conversione al bene, sul piano personale; la conversione ad una socialità sana, generosa, altruista, su quello collettivo. Ma non si tratta di due cose diverse, bensì di due facce della stessa cosa, dello stesso movimento: perché progredire interiormente equivale a capire che nessuno vive per se stesso, e soprattutto che non si è chiamati alla vita per fare il male, ma il bene. Cominciare a capire cos'è la vita e qual è il proprio posto nel mondo, significa cominciare a desiderare, non casualmente e sporadicamente, ma intensamente e sistematicamente, il vero, il buono, il giusto e il bello. E chi incomincia a capire questo, a desiderare questo, ad aver bisogno di questo, lo vuole e lo cerca non solamente per se stesso, ma in maniera assoluta: capisce, per esempio, che è impossibile, perché contraddittorio, cercare il proprio bene attraverso il male inflitto a qualcun altro, o cercare la verità passando per la menzogna, e così via.
Tornare al paradigma cristiano per ritrovare il proprio posto nel mondo
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