ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 16 novembre 2018

Bar Bergoglio

qualche parola sul “nuovo” Padre Nostro di Bergoglio

Ieri è stato cambiato il «Padre Nostro». Da sedici anni vescovi e teologi che stranamente non si sono fidati di duemila anni della Santa Tradizione della Chiesa, neanche di tutti i Papi fino a Benedetto XVI che hanno sempre ripetuto la preghiera più potente insegnata da Gesù Cristo, sono riusciti a modificare sia il «Padre Nostro» che il «Gloria» della Messa.

bergoglio
Una modifica incoraggiata dallo stesso papa Francesco perché egli non trovava consona quella traduzione e aveva rimarcato la sua volontà di cambiamento, facendo notare che per quel versetto specifico non era stata fatta «una buona traduzione».

Questa scelta di cambiare il «Padre Nostro» con la motivazione che non era stata fatta «una buona traduzione» inquieta i buoni cattolici, i quali rimangono sbalorditi e capiscono che rimane impossibile un errore durato duemila anni, con milioni di traduzioni identiche che riportavano sempre la frase «non indurci in tentazione».
Con la scusa della sbagliata traduzione si potranno cambiare alcune parole della Santa Messa e sarà eliminato il Sacrificio Eucaristico.
Nella mente e, soprattutto, nell’inconscio di molti cristiani si farà presente questo pensiero: allora finora ho pregato male, ho sbagliato a pregare? Non è assolutamente così. Non hanno sbagliato milioni di Santi e Sante, e noi abbiamo fiducia in queste Anime che hanno rinunciato a tutto per compiere solo la Volontà di Dio.
Gesù non avrebbe forse rivelato ai Santi l’errore della traduzione? Ma per Gesù è questa la traduzione corretta: «Non indurci in tentazione».
Un Papa è chiamato a confermare la Fede cattolica e non a modificarla, deve solo trasmettere quanto ha ricevuto dalla Santa Tradizione.
Gesù e la Madonna hanno parlato del «Padre Nostro» nei secoli e nei decenni passati a molti mistici e lo hanno anche spiegato. All’autentica veggente Pina Micali che ha ricevuto molti messaggi perfettamente in sintonia con il Catechismo della Chiesa, Gesù ha spiegato il «Padre Nostro», quindi anche la frase in questione. Questo ha confermato Gesù:
«E non ci indurre in tentazione. Chiedete a Dio di non lasciarvi slittare nella prova, di non permettere che Lo offendano. Letteralmente il testo greco dice: liberaci, strappaci via dal demonio, dal maligno che va in giro cercando chi divorare. Vegliate e pregate per non entrare in tentazione, ma per liberarvi dal male. Questa è la preghiera che ha lasciato il Padre Mio».
Ho spiegato varie volte in questi anni che le parole «non ci indurre in tentazione» riportate nel Vangelo sono state dette da Gesù, e vogliono dire di non permettere a noi la caduta nella tentazione, di fermarci quando ci troviamo sul punto di cadere, di darci la forza necessaria per vincere la tentazione.
La traduzione del «Padre Nostro» è sempre stata perfetta.

PEZZO GROSSO E IL PADRE NOSTRO: UNA SPINTA VERSO LA TEOLOGIA DI RAHNER. MA CE N’ERA PROPRIO BISOGNO?


Cari amici e nemici di Stilum Curiae, Pezzo Grosso dice la sua da par suo sui cambiamenti annunciati dalla Conferenza Episcopale Italiana al Padre Nostro e al Gloria. Alla fine del suo intervento Pezzo Grosso chiede il parere dei lettori, e quello di chi scrive sulla vicenda. Obbediamo subito: pensiamo che la nuova versione non abbia gambe su cui reggersi, sia una sostanziale invenzione nel verbo “abbandonare”. Il testo greco, da cui deriva la Vulgata di San Gerolamo dice: καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν, che fresco di greco come sono tradurrei: non ci introdurre nel peirasmòn, che può essere correttamente tradotto come “prova”. Il che ha un senso: Dio non ci tenta come farebbe il demonio, ma ci mette sicuramente alla prova, come spiega benissimo qui sotto Pezzo Grosso. Quindi, la versione Tosatti sarebbe: “non metterci alla prova”. Che, se vogliamo, ha assonanze forti con “se possibile allontana da me questo calice…”. Mi seguite? Scrivo sciocchezze? Ma se anche…non sono mica uno dei cervelli che pagati dall’obolo dei fedeli passano il tempo a riscrivere preghiere andate avanti benissimo senza di loro per un paio di millenni. A laurà!

Ecco pezzo Grosso:

“In un intervento del dicembre 2017, Papa Bergoglio disse ( riferisce laVerità di oggi, pag 12), riferendosi al Padre Nostro ( “ e non indurci in tentazione”.. ):<La traduzione è sbagliata, perché Dio non ci può indurre in tentazione>.Così oggi il Presidente Cei (Bassetti) ci dice che questa frase verrà tradotta così: “non abbandonarci alla tentazione”. En passant, veniamo informati anche che nel Gloria, il passaggio “…pace in terra agli uomini di buona volontà “ verrà d’ora in avanti ristrutturato in “… pace in terra agli uomini amati dal Signore “. Entrambi i cambiamenti sono un “attentato” ai meriti con cui la creatura può conquistare la vita eterna, nonché sono l’introduzione alla nuova teologia rahneriana, che spiega che non dobbiamo pensare di cercar di meritare qualcosa, tanto Gesù ci ha già salvati tutti e non ci dobbiamo preoccupare più, perché ci ama tutti…

Vabbè, leggendo quel che dice il card. Bassetti, è fin troppo facile voler rimpiangere Galantino, quello che sosteneva che Sodoma e Gomorra si erano salvate….ma un appunto son costretto comunque a farlo. L’espressione “Non indurci in tentazione”,mi parrebbe molto corretta, per almeno due ragioni. Prima. Anche Gesù Cristo è stato indotto in tentazione da satana dopo in 40 giorni trascorsi nel deserto prima della vita pubblica. Gesù decise che la tentazione era necessaria  soprattutto per dare esempio di come si vince. Seconda. La vita eterna, dopo la cacciata dal Paradiso terrestre, bisogna volerla, e conquistarla qui, in vita terrena. Cosicché la tentazione è indispensabile per fare la scelta necessaria. E perciò può essere proprio “indotta” da Dio, per rafforzare la fede e permetterci di scegliere. O no? Che dice lei Tosatti e i suoi lettori?“

PG


16 novembre 2018 Pubblicato da wp_7512482 71 Commenti --


Marco Tosatti

http://www.marcotosatti.com/2018/11/16/pezzo-grosso-e-il-padre-nostro-una-spinta-verso-la-teologia-di-rahner-ma-ce-nera-proprio-bisogno/

IL PADRE NOSTRO SARÀ MODIFICATO E ZUCCHERATO. TROVATO UN FRAMMENTO DEL I° SECOLO D.C. CON LA NUOVA VERSIONE? PURTROPPO NO.


Marco Tosatti
Spero che il frammento di Vangelo, scritto in aramaico, greco e latino, come la Stele di Rosetta, in base al quale la Conferenza Episcopale Italiana discuterà come cambiare la preghiera più importante del cristianesimo si rivelerà autentico. Datato intorno agli ultimi anni del primo secolo, e magari, in assenza di registratori tanto cari ai gesuiti, con una firma, o almeno le iniziali di Gesù, il Cristo. L’esistenza di questo frammento o frammenti non è ancora stata resa nota, ma DEVE esistere; se no con quale improntitudine si oserebbe manomettere un testo vecchio di duemila anni, sempre considerato autentico e pregato in quel modo da infinite generazioni di cristiani? L’ultima, debole speranza è che nell’assemblea dell’autunno in cui si deciderà questo cambiamento: da “non indurci in tentazione” a “non abbandonarci alla tentazione”, posto che nel segreto dell’urna come ben sappiamo Dio ti vede, ma Galantino no, e papa Bergoglio neppure, in una resipiscenza di fede e orgoglio il voto sia “no”. Ma ahimè, siamo consci di quanto questo flebile desiderio sia illusorio.
Qualche tempo fa parlavamo di questo problema con don Nicola Bux. Ecco quello che ci spiegava quell’uomo dotto e saggio: <Quanto alla traduzione della petizione “et ne nos inducas in temptationem”, ecco quanto scrive san Tommaso D’Aquino nel suo Commento al Padre nostro, dopo aver premesso che Dio ‘tenta’ l’uomo per saggiarne le virtù, e che essere indotti in tentazione vuol dire consentire ad essa: “in questa (domanda) Cristo ci insegna a chiedere di poterli evitare (i peccati), ossia di non essere indotti nella tentazione per la quale scivoliamo nel peccato, e ci fa dire: ‘Non ci indurre in tentazione’.”[…]. L’Aquinate poi, chiarito che la carne, il diavolo e il mondo tentano l’uomo al male, annota che la tentazione si vince con l’aiuto di Dio, in quale modo? “Cristo ci insegna a chiedere non di non essere tentati, ma di non essere indotti nella tentazione”[…].Infine, si chiede: “Ma forse Dio induce al male dal momento che ci fa dire: ‘non ci indurre in tentazione’? Rispondo che si dice che Dio induce al male nel senso che lo permette, in quanto, cioè, a causa dei suoi molti peccati precedenti, sottrae all’uomo la sua grazia, tolta la quale, egli scivola nel peccato. Per questo noi diciamo col salmista: ‘Non abbandonarmi quando declinano le mie forze'(Sal 71[70],9). E Dio sostiene l’uomo, perché non cada in tentazione, mediante il fervore della carità che, per quanto sia poca, è sufficiente a preservarci da qualsiasi peccato”>. Insomma, il “non indurci” era già problematico allora, ma non si pensava certo a manipolarlo inzuccherandolo, bensì forse a capirne un senso più profondo.
In quella stessa conversazione, don Nicola mi esortava a verificare alcuni dati (il che colpevolmente non ho fatto), che vi riferisco. E cioè se fosse vero che in Germania, contro la nuova traduzione, sostenuta dal Papa, avessero obiettato pure gli atei.; che i protestanti hanno già annunciato che non cambieranno nulla. Per non dire che, gli esegeti di ogni razza e colore, domandano se il Papa intenda cambiare anche l’originale greco del Nuovo Testamento (a cui corrisponde esattamente il testo latino).
Di recente i sacerdoti di Anonimi della Croce si sono occupati del problema. Citiamo un parte dell’articolo: <La parte a cui mi riferisco, tradotta e utilizzata per secoli, è proprio il versetto di Matteo 6,13a: “non ci indurre in tentazione”, che nella nuova versione è stato maldestramente tradotto con “non abbandonarci alla tentazione”. Naturalmente anche qui ha prevalso il “politicamente corretto”. Come può Dio “indurre” in tentazione? Allora cambiamo con una traduzione più morbida, più sdolcinata, più sentimentale. Cosa sbagliatissima. Ma su questo punto tornerò dopo. Prendiamo dunque il versetto in questione dal testo originale greco: “καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν”. La parola di interesse è “εἰσενέγκῃς” (eisenekes), che per secoli è stata tradotta con “indurre”, ed invece nella nuova traduzione vediamo “non abbandonarci” (come i cavoli a merenda). Il verbo greco “eisenekes” è l’aoristo infinito di “eispherein” composto dalla particella avverbiale eis (‘in, verso’, indicante cioè un movimento in una certa direzione) e da phérein (‘portare’) che significa esattamente ‘portar verso’, ‘portar dentro’. Per di più, è legato al sostantivo peirasmón (‘prova, tentazione’) mediante un nuovo eis, che non è se non il termine già visto, usato però qui come preposizione.
Tale preposizione regge naturalmente l’accusativo, caso di per sé caratterizzante il “complemento” di moto a luogo. Anzi, a differenza di quanto accade ad esempio in latino e in tedesco con la preposizione in, eis può reggere solo l’accusativo.
Come si vede, dunque, il costrutto greco presenta una chiara “ridondanza”, ossia sottolinea ripetutamente il movimento che alla tentazione conduce, per cui è evidentemente fuori luogo ogni traduzione – tipo “non abbandonarci nella tentazione” – che faccia invece pensare a un processo essenzialmente statico.
Il latino “inducere”, molto opportunamente usato da san Girolamo nella Vulgata (traduzione della Bibbia dall’ebraico e greco al latino fatta da Girolamo nel IV secolo), essendo composto da ‘in’ (‘dentro, verso’) e ‘ducere’ (‘condurre, portare’), corrisponde puntualmente al greco eisphérein; e naturalmente è seguito da un altro in (questa volta preposizione) e dall’accusativo temptationem, con strettissima analogia quindi rispetto al costrutto greco.
Quanto poi all’italiano indurre in, esso riproduce esattamente la costruzione del verbo latino da cui deriva e a cui equivale sotto il profilo semantico.
Dunque la traduzione più giusta, che rimane fedele al testo è quella che è sempre stata: “non ci indurre in tentazione”. Ogni altra traduzione è fuorviante, e oserei dire anche grottesca.
Come ho detto in precedenza, il rispetto per il Testo Sacro è fondamentale, e si dimostra nella fedeltà delle traduzioni con i testi originali. Ma la tendenza oggi è quella di far prevalere il “politicamente corretto”, la traduzione morbida, mielosa. Sradicando completamente il vero significato di ciò che la Parola ci vuole dire.
Infatti molti si sono chiesti: Come può Dio “indurre” in tentazione? Ci sono tantissimi passi biblici che dimostrano come Dio induce alla tentazione e alla prova. Non ci si può scandalizzare, pensando sempre che Dio abbia solo la “mielosa misericordia” (oggi molto di moda nella neochiesa), trascurando la Croce, la prova e la tentazione>.
26 gennaio 2018 


Padre Nostro, «et ne nos inducas in tentationem». Il commento di san Tommaso d’Aquino
San Tommaso, Commento al Padre Nostro, 6 (da Radio Spada, a cusa di Giuliano Zoroddu) 

Alcuni peccano e poi, desiderando di ottenere il perdono dei loro peccati, li confessano e se ne pentono, senza però impegnarsi a fondo, come dovrebbero, per non ricadervi.

Ma non è davvero bello che uno, da una parte, pianga i propri peccati quando si pente, e dall’altra accumuli motivi di pianto tornando a peccare. Infatti sta scritto: “Lavatevi, purificatevi, togliete il male dalle vostre azioni, dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene” (Is 1,16).

Per questo motivo Cristo, mentre nella precedente domanda ci insegnava a chiedere perdono dei peccati, in questa ci insegna a chiedere di poterli evitare, ossia di non essere indotti nella tentazione per la quale scivoliamo nel peccato, e ci fa dire: “Non ci indurre in tentazione”.

A proposito di questa domanda, ci poniamo tre interrogativi:

1) che cos’è la tentazione,

2) come e da chi l’uomo viene tentato,

3) come viene liberato dalla tentazione.

Quanto al primo interrogativo, diciamo che tentare non è altro che saggiare o mettere alla prova, sicché tentare l’uomo vuol dire provare la sua virtù. Il che può compiersi in due maniere, secondo le due esigenze della virtù dell’uomo, che sono: operare nel bene, ossia comportarsi bene, ed evitare il male, secondo il monito del salmo: “Sta’ lontano dal male e fa’ il bene” (Sal 33,15).

La virtù dell’uomo viene pertanto provata alle volte quanto al bene da fare, e altre volte circa il male da evitare.

Nel primo caso, l’uomo è messo alla prova affinché si veda se egli è pronto al bene; e se sarai trovato pronto al bene vuol dire che la tua virtù è grande. Ebbene, qualche volta Dio saggia l’uomo in questo modo, non perché egli non conosca la sua virtù, ma per far sì che tutti la conoscano e sia a tutti di buon esempio. Fu a questo scopo che egli tentò Abramo e Giobbe; ed è con questa intenzione che egli manda spesso le tribolazioni ai giusti, affinché cioè, sopportandole con pazienza, appaia la loro virtù e facciano maggiore progresso. Dice infatti il Deuteronomio: “Il Signore vostro Dio vi mette alla prova per sapere se amate il Signore vostro Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima” (Dt 13,4). Risulta perciò chiaro che Dio tenta incitando al bene.

Nell’altro caso, la virtù dell’uomo viene messa a prova dall’istigazione al male. Se egli resiste e non acconsente alla tentazione, la sua virtù è grande. Se invece soccombe, la sua virtù è nulla. Ma in questa maniera nessuno è tentato da Dio, perché egli, come dice Giacomo, “non tenta nessuno al male” (Gc 1,13).

In risposta al secondo interrogativo (come e da chi l’uomo viene tentato), si noti che l’uomo viene tentato al male in tre modi:

- dalla propria carne,

- dal diavolo

- e dal mondo.

Dalla carne viene tentato in due maniere.

La carne infatti istiga al male, perché ricerca sempre i propri piaceri nei quali, trattandosi di piaceri carnali, spesso c’è il peccato per il fatto che chi si lascia assorbire da essi trascura quelli dello spirito. Dice al riguardo S. Giacomo: “Ciascuno è tentato dalla propria concupiscenza, che lo attrae e lo seduce, poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato” (Gc 1,14).

La carne poi tenta distogliendo l’uomo dal bene. Mentre infatti lo spirito, per quanto dipende da lui, si diletta sempre dei beni spirituali, la carne col suo peso gli è di impaccio, perché “un corpo corruttibile appesantisce l’anima” (Sap 9,15). S. Paolo scrive in proposito: “Acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra” (Rm 7,22 23).

E questa tentazione della carne è molto grave perché questo nostro nemico, cioè la carne, è congiunto a noi; e, come dice Boezio, “non c’è per noi peste più nociva di un nemico che sia della nostra famiglia” (De consolatione philosophiae III,5). Contro la carne perciò si deve vigilare: “Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione” (Mt 26,41).

A sua volta, il diavolo tenta con estrema violenza.

Una volta infatti che si abbia vinta la carne, si scatena questo altro nostro nemico, il diavolo, contro il quale dobbiamo sostenere una grande battaglia: “La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6,12).

Per questo satana è detto espressamente il tentatore (Mt 4,3; I Ts 3,5). Il diavolo nel tentare usa molta astuzia. Come un abile capitano che assedia una fortezza, prima studia il punto debole della persona che vuol far cadere e poi la tenta là dove la scorge più vulnerabile.

Perciò una volta che gli uomini hanno resa inoffensiva la propria carne, Satana li tenta in quei vizi verso i quali sono più inclinati, quali l’ira, la superbia ed altri vizi spirituali. Dice S. Pietro: “Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare” (1Pt 5,8).

Quando poi egli tenta, mette in atto due espedienti.

Da principio non propone subito alla persona tentata un oggetto palesemente cattivo, ma qualcosa che abbia l’apparenza di bene, per stornarla inizialmente in tal modo dal suo proposito fondamentale e poterla poi in seguito indurre più facilmente al peccato, una volta che è riuscito a distoglierla sia pure di poco dal bene: in altre parole, “Satana si maschera da angelo di luce” (2Cor 11,14).

In seguito poi, quando l’ha indotta al peccato, la lega talmente alla colpa da impedirle di distaccarsene, perché, al dire di Giobbe, “i nervi delle sue cosce si intrecciano saldi” (Gb 40,17). Cosicché due cose fa il diavolo: prima inganna e poi trattiene nel peccato chi ha ingannato.

Il terzo tentatore è il mondo, il quale tenta anch’esso in due maniere.

Prima di tutto con un eccessivo e smoderato desiderio dei beni temporali, perché come dice l’Apostolo: “L’attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali” (1Tm 6,10).

Servendosi dei persecutori e dei tiranni, tenta poi anche incutendo terrore, per cui dice il Libro di Giobbe: “Anche noi siamo avvolti nelle tenebre” (Gb 37,19) e S. Paolo aggiunge: “Tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati” (2Tm 3,12). Ma il Signore ci rassicura: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima” (Mt 10,28).

Dalle cose dette risulta perciò chiaro che cos’è la tentazione e come e da chi l’uomo viene tentato.

Rimane da vedere in qual modo l’uomo venga liberato dalla tentazione.

Su quest’ultimo punto va notato che Cristo ci insegna a chiedere non di non essere tentati, ma di non essere indotti nella tentazione.

Se infatti l’uomo vince la tentazione merita la corona; ed è per questo che Giacomo ci ammonisce: “Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove” (Gc 1,2), e l’Ecclesiastico aggiunge: “Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione” (Eccli 2,1).

Ecco perché ci viene insegnato a chiedere di non essere indotti nella tentazione prestandole consenso; e S. Paolo commenta: “Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla” (1Cor 10,12).

Essere tentati è infatti cosa umana, ma consentirvi è cosa diabolica.

Forse Dio induce al male dal momento che ci fa dire: “non ci indurre in tentazione”?

Rispondo che si dice che Dio induce al male nel senso che lo permette, in quanto, cioè, a causa dei suoi molti peccati precedenti, sottrae all’uomo la sua grazia, tolta la quale, egli scivola nel peccato. Per questo noi diciamo col salmista “Non abbandonarmi quando declinano le mie forze” (Sal 70,9).

Dio però sostiene l’uomo, perché non cada in tentazione, mediante il fervore della carità che, per quanto sia poca, è sufficiente a preservarci da qualsiasi peccato. Infatti che “le grandi acque non possono spegnere l’amore” (Ct 8,7).

Lo sostiene inoltre col lume dell’intelletto, col quale ci istruisce sulle cose da fare; poiché, come dice il Filosofo: “Ogni peccatore è un ignorante”.

E, siccome Dio per bocca sua aveva promesso: “Ti farò saggio, t’indicherò la via da seguire” (Sal 31,8), questo dono Davide lo chiedeva invocandolo: “Signore mio Dio, conserva la luce ai miei occhi, perché non mi sorprenda il sonno della morte, perché il mio nemico non dica: l’ho vinto” (Sal 12,4 5).

Noi otteniamo tutto questo col Dono dell’Intelletto, mediante il quale, se non consentiamo alla tentazione, conserviamo un cuore puro, del quale viene detto “Beati i puri di cuore” (Mt 5,8).

In questa maniera perverremo alla visione beatifica, alla quale ci faccia giungere il Signore.


Fate attenzione alle false preghiere che potranno esservi presentate, perché non saranno ispirate …






Fate attenzione alle false preghiere che potranno esservi presentate, perché non saranno ispirate dallo Spirito Santo e, pertanto, dovranno essere evitate. Una piccola parola, poche frasi o semplici omissioni qua e là, riusciranno a trasformare una preghiera in una falsità. Il male è un silenzioso assassino dello spirito e non è facile da identificare quando viene mascherato tanto da sembrare la Verità. È il momento di estirpare le erbacce dal vostro giardino e di rimanere fedeli a tutto ciò che Io vi ho insegnato, poiché tutto il resto è irrilevante e può causare la perdita della vostra fede.

La fede in Me e la fiducia nella Mia Promessa di venire di nuovo, in Grande Gloria, non devono mai essere accantonate in favore delle lusinghe dei profeti falsi, degli stregoni, dei pagani e degli eretici. I Miei nemici stanno lavorando sodo per ingannarvi e la maggior parte di loro sono perfettamente consapevoli di Chi Io Sia, ma vogliono che voi Mi respingiate, costi quel che costi. Dovete rimanere come dei piccoli e fiduciosi bambini quando Mi invocate e Io vi condurrò lungo la via che porta al Mio Regno. Io proteggerò tutti quelli di voi che confidano completamente nel Mio Amore e nella Mia Santa Volontà. Solo allora Io potrò intervenire per spazzare via i Miei nemici e diffondere la Verità in modo che il nuovo mondo a venire possa essere abitato da tutti i figli di Dio.

La fiducia, la fede, la speranza e l’amore sono importanti, se volete trovare la forza di restare al Mio Fianco. L’amore incondizionato nei Miei confronti, vi procurerà grandi Grazie durante il vostro viaggio verso il Mio Glorioso Regno: il mondo che non avrà mai fin

Gesù, Libro della Verità, 28 Gennaio 2015 – La Sacra Bibbia diventerà pressoché impossibile da trovare


per saperne di più messaggidivinamisericordia.blogspot.com/…/la-fiducia-la-f…



Le preghiere ritradotte e i limiti della riforma liturgica






di Francesco Filipazzi
L'assemblea della Cei ha approvato la terza edizione del messale in italiano, suscitando vivo interesse per via delle nuove traduzioni del Padre Nostro, ampiamente prevista, accanto a quella del Gloria, inaspettata.

Già mesi fa dicemmo che questi cambi di traduzioni lasciano straniti e che, nei fatti, certificano la volontà di mettere tutto in discussione, per mantenere la Chiesa in uno stato di rivoluzione permanente.

Nelle traduzioni delle due preghiere però c'è anche un ulteriore elemento su cui riflettere. Nei fatti, la necessità di dover aggiornare le traduzioni ogni tot anni per renderle più comprensibili alle orecchie dei laici, è la certificazione notarile del fallimento della messa in lingua volgare. Tralasciando la forma liturgica o l'orientamento dell'altare, l'abbandono stesso del latino risulta fallimentare perché il linguaggio parlato si evolve e le parole assumono e perdono significati nel volgere delle generazioni, nascono neologismi e alcuni vocaboli escono invece dall'uso comune. Il tentativo ingrato di rincorrere il linguaggio corrente porterà a stravolgere completamente tutto il messaggio che dovrebbe essere veicolato dalla Messa.

Nello specifico, le traduzioni proposte per Padre Nostro e Gloria saranno sicuramente filologicamente corrette, ma siamo sicuri che siano davvero utili alla comprensione del messaggio? Il Padre non induce la persona in tentazione, ma la abbandona? Come vediamo, ogni parola in italiano ha sfumature e significati cangianti, inoltrarsi su questo percorso, apparentemente obbligato dalla riforma liturgica degli anni '70, è sostanzialmente problematico.

In tutto questo, prendiamo atto che un vescovo, di cui non si conoscono le generalità, all'assemblea  Cei avrebbe attaccato frontalmente il Motu Proprio Summorum Pontificum. Mentre nelle chiese si balla, si cantano e suonano buffonate, ci si dimena e via dicendo, sembra che il rito antico sia un problema per qualcuno e che il documento di Benedetto XVI non abbia fondamento giuridico. Posto che se dovessimo controllare il fondamento giuridico dei Motu Proprio, qualche canonista avrebbe qualcosa da dire riguardo ad alcuni fra i più recenti, il tentativo risibile di proporre nei fatti una marcia indietro sulla liturgia tridentina tradisce un notevole distacco dalla realtà. Ignorare che centinaia di miglia di persone in tutto il mondo sono ormai legate al messale antico e che attorno ad esso sono nate comunità e centinaia di vocazioni, vuol dire negare un pezzo di Chiesa viva e attiva. Chi ha attaccato il Summorum Pontificum farebbe meglio a guardarsi intorno.

Si vuole cambiare il Padre Nostro per cambiare il senso della Liturgia


Non diremo nulla di nostro (neppure la cover che ci è stata gentilmente girata), ma vi lasceremo esaminare le riflessioni di Sacerdoti liturgisti, partendo con questa premessa, il cui testo integrale troverete qui: Quanto sta accadendo fu già denunciato da Leone XIII prima, da Pio XII e da Benedetto XVI poi come “archeologismo esegetico della Scrittura” nel Documento Verbum Domini, dove leggiamo: “San Girolamo ricorda che non possiamo mai da soli leggere la Scrittura. Troviamo troppe porte chiuse e scivoliamo facilmente nell’errore… Un’autentica interpretazione della Bibbia deve essere sempre in armonica concordanza con la fede della Chiesa cattolica. Così san Girolamo si rivolgeva ad un sacerdote: «Rimani fermamente attaccato alla dottrina tradizionale che ti è stata insegnata, affinché tu possa esortare secondo la sana dottrina e confutare coloro che la contraddicono».” (n.30)
Per chi volesse, qui troverete il testo integrale di san Tommaso d’Aquino, una Lectio sul Padre Nostro e su quel “non indurci in tentazione” che noi, ovviamente, non cambieremo mai!
IL RETROSCENA
Sulle traduzioni si gioca il futuro della liturgia
del 27-02-2017
Con un colpo di mano l’ala progressista in Vaticano sta mettendo mano alle traduzioni della Bibbia e della liturgia, aggirando le disposizioni dell’istruzione Liturgiam authenticam. La posta in gioco è di sostanza perché attraverso le parole viene comunicata l’immagine di Dio e l’atteggiamento con cui l’uomo si rivolge a Lui.
Messale
«Se non pronunciate parole chiare con la lingua, come si potrà comprendere ciò che andate di-cendo?» (1Cor 14,8). Le “parole chiare”, che san Paolo raccomandava alla comunità di Corinto – alla lettera “di un buon segno”, cioè “ben decifrabili” -, riguardano non solo la pronuncia, ma anche la comprensibilità linguistica. È a partire da qui che la Chiesa ha curato le traduzioni della Bibbia e della liturgia, perché «la parola di Dio vuole interpellare l’uomo, vuole essere da lui compresa e avere una risposta comprensibile, ragionevole» (J. Ratzinger, Il Dio vicino. San Paolo, Cinisello Balsamo 2003, p. 71).
Per quanto riguarda la liturgia, tale movimento si è andato intensificando sino a un livello critico e polemico, come la notizia dei giorni scorsi di una nuova commissione per rivedere l’Istruzione Liturgiam authenticam (del 28 marzo 2001), che regola i principi e i modi di tradurre i testi liturgici, mettendo da parte addirittura il prefetto del dicastero competente, cioè il cardinal Robert Sarah: un colpo di mano dell’ala progressista! Cerchiamo di capire.
Anzitutto il fedele italiano ignora che cosa sia Liturgiam authenticam, non avendone sperimentato né i benefici né i (presunti) disastri. Infatti il Messale italiano in uso (del 1983 con alcune integrazioni) è stato tradotto dall’edizione tipica latina del 1975 e i criteri della traduzione erano regolati dalla precedente Istruzione Comme le prévoit (25.1.1969).
Dopo il Messale italiano del 1983, il Messale tipico latino ha avuto una terza edizione del 2000 con una ristampa emendata del 2008. Bisognava dunque rivedere il Messale italiano alla luce di questa terza edizione, che comportava testi aggiunti e altre modifiche. Ma la revisione era postulata anche dal fatto che nel frattempo Liturgiam authenticam, tenuto conto di certi difetti delle traduzioni, aveva riformulato i criteri per la traduzione dei testi liturgici.
Da parte della Chiesa italiana tale lavoro di revisione iniziò quasi subito, ma, trascorsi quasi 15 anni – e sono tanti -, il nuovo Messale non è ancora uscito, per cui viene da pensare che non sia uscito perché qualcuno ha manovrato perché non uscisse. E a questo punto è ipotizzabile che a tempi brevi non uscirà, in quanto la nuova traduzione dovrebbe vedere la luce più o meno in contemporanea all’uscita di un documento che riformula i criteri per le traduzioni, per cui il povero Messale, appena uscito, sarebbe da rivedere…
A questo punto il fedele cattolico si trova confuso ed estraniato. In realtà la questione tocca proprio lui senza che l’interessato se ne accorga. Perché? Perché ad oggi quando va a Messa è destinatario di una traduzione uscita nel 1983 ed elaborata fine anni ’70 e inizio anni ’80, sostanzialmente fedele ma abbastanza “liberale”; se poi, invece di una traduzione più fedele, è in arrivo una revisione con criteri più innovativi, immaginarsi il risultato. A questo punto la posta in gioco non è di letteratura, ma di sostanza, in quanto attraverso le parole viene comunicata l’immagine di Dio e viene plasmato l’atteggiamento dell’uomo che si rivolge a Lui (come stare davanti a Dio, come lodarlo, che cosa chiedergli ecc.).
Oggi si vuole rivedere Liturgiam authenticam perché i suoi criteri sarebbero troppo stretti, perché c’è bisogno di un linguaggio nuovo e – sostiene qualcuno – anche di gesti nuovi e poi perché… è espressione “anche” di un clima restaurazionista di san Giovanni Paolo II, aiutato in questo “anche” dall’allora card. Joseph Ratzinger e dal card. Jorge Medina Estévez, firmatario di Liturgiam authenticam. Quanti allora non digerirono l’Istruzione, oggi o sono nella stanza dei bottoni o ricevono benevola udienza da chi dimora in quella stanza. Ovvio il tentativo della rivincita, credendo onestamente di aver subìto un sopruso, di aver ragione e di far avanzare la Chiesa nella fedeltà all’uomo e a Gesù Cristo. È capitato tante volte nella storia, sia da destra che da sinistra. Però, senza negare questo fattore, bisognerebbe sforzarsi di guardare la realtà.
Ora un sano atteggiamento verso la realtà è di lasciar parlare Liturgiam authenticam, troppo spesso taciuta nel dibattito. Che cosa dice? Tante cose che non interessano l’Italia, ma anche tante altre sulla traduzione e dunque sul linguaggio liturgico che interessano tutti i cattolici e che qui condenso in 5 punti.
1. Esattezza formale della traduzione. La traduzione è un aspetto della «opera di inculturazione» (n. 5), però «non sia un’opera di innovazione creativa, quanto piuttosto la trasposizione fedele e accurata dei testi originali in lingua vernacola» (n. 20). E qui Liturgiam authenticam chiede una traduzione che rispetti il più possibile le parole e le frasi così come sono: questo è il metodo delle “equivalenze formali”, contrapposto al metodo delle “equivalenze dinamiche”, che invece tende a tradurre con parole e frasi di oggi ciò che con parole antiche recepì il destinatario di ieri. Tanto per fare un esempio, la traduzione biblica a equivalenze dinamiche rende il termine paolino “carne” con “egoismo”, certo facilitando, ma perdendo un mucchio di sfumature. Liturgiam authenticam, rispettando lo Spirito, la tradizione della Chiesa e il destinatario, mette in guardia dal seguire una strada così disinvolta.
2. Legittimità di una lingua liturgica e di uno stile liturgico. A quanto sopra si potrebbe obiettare che, pur usando termini comprensibili, il risultato sarebbe un linguaggio che si discosta dal modo abituale di comunicare. Ebbene, Liturgiam authenticam prende il toro per le corna e ricorda che espressioni poco consuete (ma comprensibili), possono essere ritenute più facilmente a memoria e anzi possono sviluppare nella lingua odierna uno «stile sacro» (n. 27), «dove i vocaboli, la sintassi, la grammatica siano propri del culto divino» (n. 47). Ecco un’altra presa di posizione: è normale ed è positivo per chi ascolta che esista un linguaggio del culto e uno stile sacro, che, pur comprensibili, non vanno ridotti al modo abituale di comunicare.
3. Traduzioni né ideologiche né soggettive. I libri liturgici devono essere «immuni da qualsiasi pregiudizio ideologico» (n. 3) e non sempre le attuali traduzioni lo sono. Ad esempio la Liturgia delle Ore rende “instaurare omnia in Christo” con “fare di Cristo il cuore del mondo”, espressione che trasuda di Teilhard de Chardin († 1955): con quale autorità si impone il pensiero di Teilhard a migliaia di oranti? Di più: i testi tradotti non sono funzionali ad essere «in primo luogo quasi lo specchio della disposizione interiore dei fedeli» (n. 129). Il che significa che non bisogna addolcire o aumentare i testi solo per venire incontro a ciò che si desidera oggi – ad esempio aggiungendo un “giustizia e pace” dove non c’è -, poiché il testo della preghiera della Chiesa è una proposta che va oltre le nostre attese e i nostri gusti e così facendo ci costringe a rettificarci e ad arricchirci. Di nuovo, i paletti di Liturgiam authenticam, prima di essere severi, sono promozionali per il popolo di Dio e lo preservano dalle dittature ideologiche e sentimentali.
4. Le parole giuste e varie. Alla varietà di vocaboli del testo originale «corrisponda, per quanto è possibile, una varietà nelle traduzioni» (n. 51). Qui si citano due casi: il primo è l’antropologia: “anima, animo, cuore, mente, spirito” andrebbero tradotti come sono, compresa “anima” che i traduttori aggiornati vorrebbero abolire o comunque limitare. L’altro esempio sono i modi di rivolgersi a Dio: Signore, Dio, Onnipotente ed eterno Dio, Padre ecc. La fedeltà della traduzione ci veicola un giusto concetto di Dio e aumenta il senso di rispetto e adorazione nel rivolgersi a Lui. Ciò che non sempre è capitato nelle traduzioni: ad esempio gli anni ’70 hanno prodotto in un ordine religioso delle orazioni che iniziavano con un “Tu o Dio”. Mi domando se ci si rivolgerebbe così a un impiegato al di là dello sportello.
5. Rispettare la sintassi originale. Questo è il punto più contestato e – si capisce – più decisivo: siano conservati, per quanto è possibile, la relazione delle frasi in «proposizioni subordinate e relative», la «disposizione delle parole», i «vari tipi di parallelismo» (n. 57a). Oggi tendiamo a parlare sparando delle frasi accostate: è il linguaggio della pubblicità e della comunicazione virtuale. La liturgia tende invece a collegare le frasi mettendole in ordine armonico tra di loro; soprattutto una richiesta non è generalmente formulata per prima, ma dipende da una precedente memoria delle meraviglie operate da Dio, che plasmano la richiesta stessa. Questo ordine e questa bellezza del linguaggio è ciò che il mondo classico ha prodotto e che la liturgia trasmette a tutti.
Ecco, è un poco tutto questo che si vuole rivedere e ripensare (accantonare? scartare?), creando un nuovo linguaggio più secondo l’uomo di oggi.
Quanto sopra richiederebbe ulteriori approfondimenti, ma il lettore che ha avuto il coraggio di arrivare fin qui, sarà stanco, per cui rimando a un prossimo intervento.
si legga dello stesso Autore anche: – PADRE NOSTRO, UNA TRADUZIONE TANTI SIGNIFICATI, di  padre Riccardo Barile OP

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SULLA CORRETTA TRADUZIONE
Padre nostro, l’importanza della tentazione
di mons. Nicola Bux
Durante la veglia di sabato del Papa con i giovani, Francesco è tornato a parlare dell’annosa questione della traduzione corretta del Padre Nostro nel passaggio “Non ci indurre in tentazione“. Il Papa ha detto: “Nella preghiera del Padre Nostro c’è una richiesta: ‘Non ci indurre in tentazione’. Questa traduzione italiana recentemente è stata cambiata, perché poteva suonare equivoca. Può Dio Padre ‘indurci’ in tentazione? Può ingannare i suoi figli? – ha chiesto – Certo che no. Infatti una traduzione più appropriata è: ‘Non abbandonarci alla tentazione’. Trattienici dal fare il male, liberaci dai pensieri cattivi….A volte le parole, anche se parlano di Dio, tradiscono il suo messaggio d’amore. A volte siamo noi a tradire il Vangelo”.
Fin qui il Papa. Come stanno le cose? In merito al “non ci indurre in tentazione”, vanno menzionati innanzitutto tre brani:
Ecco io rendo ostinato il cuore degli Egiziani, così che entrino dietro di loro e io dimostri la mia gloria sul faraone…”(Es 14,17). Qui è il Signore che induce all’ostinazione; “Ecco,dunque, il Signore ha messo uno spirito di menzogna sulla bocca di tutti questi tuoi profeti, perché il Signore ha decretato la tua rovina...”(1 Re 22,23). Qui è il Signore che induce alla mistificazione; “E per questo Dio invia loro una potenza d’inganno perché essi credano alla menzogna e così siano condannati tutti quelli che non hanno creduto alla verità, ma hanno acconsentito all’iniquità” (2 Tess 2,11-12). Qui è il Signore che induce all’inganno.
Nella I domenica di Quaresima, la “domenica delle tentazioni di Gesù” la Liturgia Horarum secondo il Novus Ordo, propone la lettura di sant’Agostino a commento del salmo 60, di cui riportiamo il brano seguente: “…la nostra vita in questo pellegrinaggio non può essere esente da prove e il nostro progresso si compie attraverso la tentazione. Nessuno può conoscere se stesso se non è tentato, né può essere coronato senza aver vinto, né può vincere senza combattere; ma il combattimento suppone un nemico, una prova.
Pertanto si trova in angoscia colui che grida dai confini della terra, ma tuttavia non viene abbandonato. Poiché il Signore volle prefigurare noi, che siamo il suo corpo mistico, nelle vicende del suo corpo reale, nel quale egli morì, risuscitò e salì al cielo. In tal modo anche le membra possono sperare di giungere là dove il Capo le ha precedute.
Dunque egli ci ha come trasfigurati in sé, quando volle essere tentato da Satana. Leggevamo ora nel vangelo che il Signore Gesù era tentato dal diavolo nel deserto. Precisamente Cristo fu tentato dal diavolo, ma in Cristo eri tentato anche tu. Perché Cristo prese da te la sua carne, ma da sé la tua salvezza, da te la morte, da sé la tua vita, da te l’umiliazione, da sé la tua gloria, dunque perse da te la sua tentazione, da sé la tua vittoria.
Se siamo stati tentati in lui, sarà proprio in lui che vinceremo il diavolo. Tu fermi la tua attenzione al fatto che Cristo fu tentato; perché non consideri che egli ha anche vinto? Fosti tu ad essere tentato in lui, ma riconosci anche che in lui tu sei vincitore. Egli avrebbe potuto tenere lontano da sé il diavolo; ma, se non si fosse lasciato tentare, non ti avrebbe insegnato a vincere, quando sei tentato” 
(Commento al Salmo 60,3; CCL 39,766).
Pertanto, Dio non può abbandonarci alla tentazione, ma ci può indurre ovvero tentare in Colui nel quale, per il battesimo, siamo stati trasfigurati e quindi possiamo vincere.
San Tommaso D’Aquino, nel suo Commento al Padre nostro, dopo aver premesso che Dio ‘tenta’ l’uomo per saggiarne le virtù, e che essere indotti in tentazione vuol dire consentire ad essa, scrive: “In questa (domanda) Cristo ci insegna a chiedere di poterli evitare (i peccati), ossia di non essere indotti nella tentazione per la quale scivoliamo nel peccato,e ci fa dire: ‘Non ci indurre in tentazione’.“[…].
L’Aquinate poi, chiarito che la carne, il diavolo e il mondo tentano l’uomo al male, annota che la tentazione si vince con l’aiuto di Dio, in quale modo? “Cristo ci insegna a chiedere non di non essere tentati, ma di non essere indotti nella tentazione”[…]. Infine, si chiede: “Ma forse Dio induce al male dal momento che ci fa dire: ‘non ci indurre in tentazione’? Rispondo che si dice che Dio induce al male nel senso che lo permette, in quanto, cioè, a causa dei suoi molti peccati precedenti, sottrae all’uomo la sua grazia, tolta la quale, egli scivola nel peccato. Per questo noi diciamo col salmista: ‘Non abbandonarmi quando declinano le mie forze’ (Sal 71[70],9). E Dio sostiene l’uomo, perché non cada in tentazione, mediante il fervore della carità che, per quanto sia poca, è sufficiente a preservarci da qualsiasi peccato“.
A questo si deve aggiungere anche il commento al Padre nostro di Ratzinger, dalla trilogia delle sue opere.
Quindi, secondo questi autori conserva tutto il suo senso la petizione “et ne nos inducas in temptationem“: il testo latino corrisponde esattamente all’originale greco del Nuovo Testamento. Il punto focale è prendere in considerazione tutta la Rivelazione biblica, nella quale Dio si manifesta in modo “cattolico”: etimologicamente, secondo la globalità dei fattori, che caratterizzano la vicenda umana e che non sfuggono in alcun modo a Lui, se è vero il detto: non muove foglia che Dio non voglia.
Del resto, non dice Giobbe: se da Dio abbiamo accettato il bene, perché non dovremmo accettare il male? Dio ha dato, Dio ha tolto: sia benedetto il nome del Signore. E Gesù: tutti i capelli del vostro capo sono contati. Per questo, Dio è cattolico….

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