Il diavolo cari signori, il diavolo. Ma di cosa stiamo parlando? Stiamo parlando del male: "il problema dei problemi". Il diavolo li ha presi all’amo, e non lo sanno . . Il dramma dell’uomo moderno è aver confuso "Scopo e fine"
di Francesco Lamendola
Ma di cosa stiamo parlando? Stiamo parlando del male. Il male è il grande problema: il male è il problema dei problemi. Come può esserci il male, in un mondo creato da Dio, voluto da Dio, amato da Dio? Questo è lo scoglio sul quale naufraga la fede delle persone sensibili e generose; quelle egoiste e apatiche, naufragano semplicemente sulle secche dell’indifferenza. Vedono che la scienza dà risposte, mentre Dio tace; hanno un tumore, si rivolgono alla medicina; vedono i missili che vanno sulla Luna, su Marte, che si spingono oltre l’orbita di Saturno, e pensano: ecco la potenza, la vera potenza. Ecco da dove verrà la salvezza!
Per questo tipo umano andrebbe bene un dio qualsiasi, purché sia potente: e infatti, quando hanno visto, o creduto di vedere, che la scienza e la tecnica sono più potenti di dio, sono passate ad adorare quelle, con la stessa disinvoltura e naturalezza con cui i clienti abituali di un bar o di un negozio passano senza la minima esitazione a un altro bar o a un altro negozio di nuova apertura, dove si praticano prezzi più convenienti. L’altro tipo umano, invece, è più esigente: non si accontenta di un dio qualsiasi, però si aspetta, e pretende, che Dio, oltre che potente, sia anche capace di far valere la sua potenza a favore del bene, qui e subito, o al massimo con un indugio di qualche ora o qualche giorno. Se l’attesa si fa più lunga, si spazientiscono; se non assistono alla rivincita del bene e al suo trionfo finale, neanche a distanza di anni, gettano la spugna e proclamano che Dio non c’è, o, addirittura, che Dio è malvagio. Sono come gli innamorati delusi che si rifanno della loro delusione prendendo in odio l’oggetto che prima amavano – o credevano di amare. Ma la verità è che amavano se stessi: perché nel vero amore, l’altro non è mai un mezzo per il raggiungimento dei propri fini, sia pure fini legittimi e rispettabili come la sicurezza, la stabilità e il sentirsi protetti. Del resto, basterebbe riflettere che il sentirsi protetti è un bisogno, e i bisogni non sono dei fini, se non per gli animali, che hanno il solo istinto; per l’uomo, essere dotato di ragione, il fine è molto di più dello scopo da raggiungere, è il significato che si dà a una certa cosa, a una certa azione, e, in definitiva, all’insieme della propria vita. Scopo e fine sono due cose profondamente diverse: il dramma dell’uomo moderno è proprio quello di averle confuse. Egli vive cercando di soddisfare degli scopi ma resta sempre insoddisfatto, perché nessuno scopo potrà appagarlo interamente; solo un fine può farlo: e non un fine qualsiasi, ma il fine di realizzare se stesso nella sfera superiore della propria umanità.
Il diavolo cari signori, il diavolo. Ma di cosa stiamo parlando? Stiamo parlando del male: "il problema dei problemi".
Eppure, quando si parla del male, bisognerebbe innanzitutto scomporlo nelle sue tre componenti distinte, come quando si parla dell’amore bisognerebbe distinguere fra passione (eros), amicizia (filìa) e amore spirituale (àgape). Le tre distinte categorie sotto le quali il male può presentarsi sono quella fisica, quella intellettuale e quella morale. Il male fisico è dovuto alla condizione propria di tutti gli enti finiti: è una condizione imperfetta, che investe indistintamente tutti gli stati dell’essere legati alla materialità. Non esiste un organismo senza patologie, come non esiste un pianeta che non sia costantemente interessato da fenomeni che lo aggrediscono dall’esterno (meteoriti, radiazioni elettromagnetiche) o dall’interno (vulcani, terremoti). Nessuna di queste cose è male in se stessa; tutte nascono da una condizione che caratterizza gli enti finiti: il cambiamento, e quindi un certo grado, maggiore o minire, più rapido o più lento, d’instabilità. Per noi la scossa tellurica che abbatte la nostra casa è “male”, ma non lo è in se stessa; in se stessa non è male né bene, è una condizione della materia, perché tutte le cose materiali sono soggette al mutamento. Il male intellettuale è l’errore. Chi s’inganna, giudica in modo sbagliato le cose che sono, e questo, di regola, comporta delle conseguenze spiacevoli, che prima o poi si faranno sentire. Ma se ingannarsi coi sensi è l’effetto di un fatto naturale, come per il sordo che non ode, e può essere investito dal treno in arrivo, o il viandante nel deserto che vede un miraggio e si smarrisce fra le sabbie, ingannarsi con la ragione è cosa assai più grave, perché la ragione funziona indipendentemente dai sensi, e perché essa è la cosa che ci distingue dagli animali, per cui l’errore intellettuale distorce non un singolo giudizio o un singolo atto, ma può distorcere tutto il corso della nostra vita, e inoltre ci abbassa al di sotto del nostro statuto ontologico, rendendoci simili ai bruti irragionevoli. Pertanto l’errore intellettuale corrisponde a un atto volontario della nostra ragione, di cui siamo pienamente responsabili, e provoca una auto-degradazione del nostro essere. Un singolo errore intellettuale, circoscritto a un ambito preciso e staccato dalla sfera morale, non è mai irreparabile: un errore di tal genere, come la mancata o erronea soluzione di un problema di geometria, comporta, come massima conseguenza, un brutto voto a scuola. Ma un errore intellettuale che tocca la verità in se stessa, è di una gravità estrema, perché da esso, a pioggia, discenderanno cento altri errori, essendo la verità il fondamento di tutti i nostri giudizi. Ora, la verità suprema è l’essere in quanto essere, ciò che i credenti chiamano Dio: sbagliare in questo ambito significa voltare le spalle al Vero, ma anche al Buono, al Giusto, al Bello, e quindi mettersi sulla strada del male. Infine c’è il male morale in quanto tale: si faccia attenzione che il male intellettuale è inseparabile dal male morale e viceversa, e tuttavia, per comodità, li consideriamo separatamente; dobbiamo però tener presente che sono, in effetti, due facce della stessa medaglia. La capacità di discernere il bene dal male è una capacità tutta umana, come lo è quella di giudicare le cose secondo verità. Entrambe sono caratteristiche proprie dell’uomo, di cui non godono gli altri esseri viventi; esprimono, pertanto, una condizione privilegiata del nostro statuto ontologico, qualcosa di cui dovremmo andare fieri, perché in essa risiede la nostra grandezza. Se smarriamo la capacità di discernimento del bene dal male, sprofondiamo in una condizione sub-umana e diveniamo un pericolo per noi stessi e per gli altri; se avessimo ancora un barlume di coscienza, quando scivoliamo in un simile stato, dovremmo desiderare noi stessi la solitudine, per non fare del male a quelli che diciamo di amare. L’errore intellettuale nasce da un giudizio errato della ragione, mentre l’errore morale nasce da un atto pienamente e assolutamente volontario della coscienza, la quale non s’inganna, ma può mettere a tacere la voce della verità che silenziosamente risuona in essa. Per questo si chiama peccato: è il rifiuto volontario della legge morale; mentre la ragione può, talvolta, ingannarsi in buona fede, la coscienza non s’inganna mai in buona fede, bensì con sufficiente consapevolezza. Certo, non sempre questa è netta; ma lo è abbastanza da determinare una volontarietà dei nostri atti. Se i nostri atti non sono liberi, non c’è peccato, perché noi non eravamo padroni di noi stessi. Il male morale si verifica quando noi, pienamente padroni di noi stessi, scegliamo il male anziché il bene, e sappiamo sempre che il male è male, quando lo facciamo.
La "magnifica" triade dei teologi modernisti: Sosa Abascal, Alberto Maggi, Herbert Haag.
Ci si può chiedere se esista una quarta categoria di male, il male metafisico. La risposta è negativa: il male è privazione di bene, non ha consistenza autonoma; non esiste un male che sia anteriore agli enti, o che sia la loro causa: in questo senso, non esiste un male assoluto. Il male è sempre relativo: è una maniera sbagliata di cercare il bene, perché tutti cercano il bene, e sia pure il proprio egoistico bene e nessuno cerca volontariamente il male, quantomeno non lo cerca né lo desidera per se stesso. L’omicida persegue un bene, e sia pure in maniera aberrante e sia pure un bene illusorio: il denaro, il potere, il piacere. Ciò non significa minimizzare o banalizzare il male; al contrario: il male non è mai banale, perché gli atti della coscienza sono sempre altamente significativi, e la scelta fra il bene e il male è qualcosa di drammatico, qualcosa che segna le nostre vite e che influenza anche quelle di tutti gli altri, nel presente e persino nel futuro. Chi uccide, lascia al mondo degli orfani che soffriranno per tutta la vita l’assenza del loro padre; chi conduce una vita dissipata e si copre di debiti, lascerà quei debiti da pagare ai propri figli. Ma se il male metafisico non esiste, e quindi non esiste il male assoluto, vi sono degli esseri che si sono votati interamente al male. Tali esseri sono i diavoli, che hanno compiuto un duplice peccato, di superbia (intellettuale) e d’invidia (morale): pur avendo conosciuto l’Amore di Dio, lo hanno rifiutato e hanno preteso di sfidarlo, di innalzarsi al di sopra di Lui. Sconfitti, rivolgono ogni loro pensiero a pervertire gli uomini, per vendicarsi così, guastando il frutto più nobile della creazione, della loro umiliazione. Chi riduce il diavolo a un simbolo del male, fa esattamente il suo gioco, che lo sappia o no. Il generale dei gesuiti, Arturo Sosa Abascal, in un’intervista al giornale El mundo all’inizio di giugno del 2017 disse tranquillamente che il diavolo non esiste, è una creazione simbolica degli uomini per designare il male. Nessuno lo ha smentito, né corretto: né chi sta sopra di lui, né i vescovi e i cardinali. Ci si può chiedere come sia stata possibile una cosa del genere: la risposta è che questa interpretazione razionalista, cioè ultramodernista, covava da tempo nella teologia cattolica. Fin dall’ormai lontano 1969, un sacerdote e teologo di Tubinga, Herbert Haag, grande amico e ammiratore di Hans Küng e come lui fautore del libero pensiero, sosteneva la stessa cosa e aveva messo la sua tesi nero su bianco. Nicola Abbagnano lo aveva puntualmente notato e aveva segnalato la cosa, perché il vero filosofo sa cogliere l’essenziale in un mare di cose inessenziali, e aveva capito benissimo che lì era in gioco qualcosa di decisivo per la nostra vita e per la nostra stessa civiltà (da: N. Abbagnano, Questa pazza filosofia, ovvero l’Io prigioniero, Milano, Editoriale Nuova 1979, pp. 82-84):
Oggi il diavolo dà vita soprattutto a un problema teologico: la credenza in esso fa veramente parte della fede cristiana o appartiene al margine mitico che l’ha sinora accompagnata? Una risposta favorevole alla prima alternativa è stata già data da molti teologi e da alte autorità della Chiesa. Ma un teologo cattolico di Tubinga, che già in un opuscolo del 1969 aveva proposto “La liquidazione del diavolo”, è ritornato sull’argomento in un’opera dettagliata, “La credenza nel diavolo”(Milano, 1976), che esamina tutti gli aspetti in cui il diavolo è presentato nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Bisogna subito dire che Haag appartiene alla corrente di quei teologi che vorrebbero “demitologizzare” la fede per liberarla dagli elementi fantastici o leggendari di cui essa si è rivestita in certi periodi storici, e riportarla alla purezza della sua essena eterna. E così egli osserva che del diavolo nel Vecchio Testamento si parla in pochi casi e sempre come strumento della volontà divina, non come una potenza che si opponga ad essa. È inutile, egli dice, cercare nell’Antico Testamento un essere che sia la causa prima del male: la sola cosa che può turbare il rapporto fra Dio e l’uomo è il peccato; il serpente stesso che induce Adamo a peccare non è il Tentatore ma l’immagine della tentazione che agisce nel cuore dell’uomo. Nel Nuovo Testamento, a Satana si attribuiscono le più diverse funzioni. Nei Vangeli appare come il Tentatore e l’avversario di Gesù. Nelle lettere di San Paolo, gli sono attribuiti i pericoli che incombono sulla comunità cristiana. Negli scritti di Giovanni, il diavolo è il signore del mondo, l’anticristo, che sarà giudicato e gettato fuori dal Figlio di Dio. Negli scritti posteriori del Nuovo Testamento, nei quali più frequente è la menzione di Satana, egli appare come il seduttore dei credenti e come un angelo decaduto, dottrina quest’ultima che doveva diventare quella ufficiale della teologia cattolica. E così l’oscillazione tra modi diversi di presentare la figura di Satana e le sfumature fantastiche che l’accompagnano escludono, secondo Haag, che la credenza nell’esistenza del diavolo faccia parte essenziale del bagaglio cristiano. Gesù, egli dice, non vide la causa del male in Satana nella mancanza dell’amore che solo può salvare chi si è immischiato nel male.
Il diavolo, cari signori; il diavolo
di Francesco Lamendola
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