ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 13 novembre 2018

L'ideologia del provvisorio

Don Nicola Bux interviene sulle prossime modifiche della traduzione italiana del Messale romano

Volentieri diamo risalto ad un Comunicato di don Nicola Bux concernente i lavori dell'Assemblea Straordinaria della CEI in corso sino al prossimo 15 novembre, presso l’Aula Nuova del Sinodo, in Vaticano, in cui, "all’ordine del giorno – come riferisce una nota dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali – innanzitutto (è) il tema della liturgia: la votazione della nuova traduzione italiana del Messale Romano".

All’affievolimento della capacità di comprensione della natura immutabile della sacra liturgia (cfr. Sacrosanctum Concilium, cap. 1) hanno contribuito non solo l’ignoranza diffusa di essa nel clero e, di conseguenza, nei fedeli; ma vi ha contributo ancor più la sperimentazione, spasmodica e continua, delle c.d. emozioni-shock, come le definisce Michel Lacroix (Il culto dell’emozione, ed. Vita e pensiero, Milano, 2002), cioè le emozioni particolarmente intense e potenti (v., p. es., la liturgia dei gruppi carismatici), che, a lungo andare, anestetizzano la nostra capacità di partecipare in maniera oggettiva, esaltando il soggettivismo e le emozioni dell’individuo.
Per partecipare, e potremmo dire per comprendere ancor prima, in effetti, la Sacra Liturgia– dove l’attributo “sacra” indica la presenza divina – è necessario aver chiaro che il culto reso a Dio mette a tacere l’ego, al fine di raggiungere la Verità in esso racchiusa. Gli orientali tale aspetto lo comprendono assai bene. Per questo sono stati attenti a non cadere nella tentazione di cambiare continuamente i libri liturgici.
Nikita Pustosviat, Disputa sulla concessione della fede tra
un prete Vecchio Credente
con il Patriarca Ioakhin
, 1881, Mosca
Si ricordi in proposito lo scisma, raskol, scaturito in Russia a metà del ‘600. La riforma dei libri liturgici introdotta dal patriarca di Mosca, Nikon, il quale voleva ristabilire l’uniformità tra le pratiche liturgiche della chiesa greco-ortodossa e di quella russa, portò alla divisione della chiesa russa in chiesa ortodossa ufficiale e movimento dei Vecchi Credenti. In quella occasione, le innovazioni incontrarono una forte resistenza sia tra il popolo sia tra il clero, che discusse a lungo sulla legittimità e correttezza di tali riforme, che non rispecchiavano le tradizioni dell’ortodossia nelle terre russe. Per imporre poi queste riforme, appoggiate dallo zar Alessio della stirpe dei Romanov, ci furono persecuzioni e soprusi (famoso p. es. rimase il rogo del vescovo Pavel di Kolomna, nel 1656, fermo oppositore di questa riforma).
Guardando a noi, ci si domanda se sia necessario apportare ulteriori cambiamenti ai testi del Messale romano nella prossima edizione italiana. Da quello che si sa, è stata adottata la politica dei “due pesi due misure”: cambiamento della prima frase del Gloria, per essere fedeli al testo lucano, e non cambiamento del celebre pro multis (che si dovrebbe rendere “per molti”) della formula consacratoria, che, invece, rimarrà “per tutti” in omaggio all’ideologia inclusivista; per non parlare dell’annunciata variazione della petizione delPater noster “non ci indurre in tentazione”, dove, appunto, non si rimarrà fedeli al testo originale greco e latino.
Ci si domanda, inoltre, in un momento così basso di affluenza dei fedeli alla santa Messa e di frequenza ai sacramenti, se fosse proprio necessario apportare variazioni simili, invece di promuovere semmai – come sarebbe stato auspicabile – una diffusa missione popolare vista l’ignoranza catechistica e l’immoralità diffuse. Non sarebbe il caso di investire qui gli sforzi apostolici, o pastorali che dir si voglia, nonché economici?
Constatando l’abuso diffuso tra i sacerdoti di cambiare a proprio piacimento i testi liturgici, non ci si dovrà meravigliare se taluni volessero rimanere fedeli all’edizione attuale del messale in lingua italiana, invocando una sorta di obiezione di coscienza. Chi potrebbe a questo punto parlare di abuso?
Ricordiamo l’esperienza in Argentina, ove ciò è già avvenuto. La nuova traduzione del messale in lingua castigliana (III Editio Typica) fu introdotta nel 2009-2010 (decreto del 13-15 agosto 2009) (cfr. M. Caponnetto, La traducción de los textos litúrgicos: una experiencia personal, in Adelante de la Fe, 17.10.2018). Essa era stata affidata dalla Conferenza episcopale argentina, all’epoca presieduta dall’allora card. Bergoglio, ad una commissione il cui esponente più noto era il discusso Christian Gramlich, ridotto poi allo stato laicale.
Per quanto si sa, la Congregazione per il Culto divino scrisse all’allora arcivescovo di Buenos Aires, in qualità di presidente della Conferenza episcopale di quella nazione, di non imporre la nuova traduzione, ma di lasciare a chi ritenesse l’uso della precedente.
Un ultimo aspetto non va trascurato: caratteristica fondamentale della liturgia è, infatti, la sua memorabilità. Tale indole dei libri liturgici ha favorito, nei secoli, la memorizzazione, da parte dei fedeli, delle preghiere ivi contenute, consentendo agli stessi di trasmetterle e tramandarle per generazioni, pure in frangenti e contesti di oppressione durante i quali i persecutori procedevano spesso alla requisizione e distruzione dei libri liturgici (si pensi, p. es., al primo editto di persecuzione di Diocleziano del 303 d.C.). Se molte antiche preghiere ci sono state perpetuate, lo dobbiamo proprio a questo fondamentale carattere dei testi della liturgia.
Per cui, è deleteria e deplorevole questa smania di cambiamento continuo, che appare sempre più essere un omaggio all’ideologia del provvisorio, della continua evoluzione, dell’usa e getta, ma anche, non lo si esclude, un modo per giustificare la ragion d’essere della creazione di commissioni.
La liturgia, quindi, non diventi e non sia un terreno di scontro ideologico, al fine di imporre ai fedeli i propri punti di vista ed i convincimenti dominanti in un certo momento storico!
Ci sentiamo di rivolgere ai vescovi, quindi, l’invito a considerare tutto questo al fine di non causare ulteriori tensioni e divisioni tra i fedeli.

Don Nicola Bux

Quando in chiesa cantavano tutti. In latino. Ricordo del maestro Domenico Bartolucci

L’11 novembre 2013 moriva a Roma, all’età di novantasei anni, il cardinale Domenico Bartolucci, compositore e direttore di coro, maestro direttore della Cappella Musicale Pontificia detta Cappella Sistina.
Nato il 7 maggio 1917 in una famiglia operaia a Borgo San Lorenzo, in provincia di Firenze, Bartolucci si dedica alla musica, durante il seminario, con Francesco Bagnoli, maestro di cappella del duomo di Firenze e, alla morte di questi, gli succede.
Ordinato sacerdote nel 1939, nello stesso anno ottiene il diploma in composizione e direzione d’orchestra al conservatorio fiorentino. Alla fine del 1942 si reca a Roma, ospite presso l’Almo Collegio Capranica. Frequenta Raffaele Casimiri, studioso palestriniano, ed è affiancato a Lavinio Virgili come vice direttore della Cappella di San Giovanni in Laterano.
Nel 1947 il cardinale Elia Dalla Costa lo vuole parroco di Montefloscoli, un piccolo centro nel Mugello, in Toscana, ma Bartolucci continua a dedicarsi alla musica e, dopo l’esecuzione di un suo poema sacro al Pontificio Istituto di Musica Sacra di Roma, è nominato maestro della Cappella Liberiana di Santa Maria Maggiore e docente di composizione e direzione polifonica al Pontificio Istituto di Musica Sacra.
Nel 1952, su indicazione di Lorenzo Perosi, è nominato vice maestro della Cappella Sistina e alla morte di Perosi, nel 1956, Pio XII lo nomina direttore perpetuo della Cappella Sistina, incarico che ricoprirà fino al 1997 quando, in contrasto con la nomina perpetua, sarà rimosso.
Nel 1959 riceve da Giovanni XXIII l’approvazione per il progetto di riorganizzazione della Cappella Musicale Pontificia, che da allora ha una sede adeguata per le prove e per l’archivio. Contemporaneamente viene definito l’organico stabile dei cantori adulti e si dà vita alla Schola puerorum, dedicata alla formazione dei ragazzi.
Negli anni del Concilio Vaticano II (1962-1965) si dichiara contrario all’abbandono del latino e si oppone a chi, con il pretesto della riforma liturgica, cerca di emarginare la musica sacra. Anche dopo la riforma celebra la Messa tridentina e i suoi riferimenti in campo musicale restano la tradizione polifonica palestriniana e il canto gregoriano.
Nel 1965 viene nominato accademico di Santa Cecilia, e durante le stagioni sinfoniche l’accademia lo invita più volte a dirigere sue esecuzioni.
Oltre che alla direzione della Cappella Papale, si dedica all’insegnamento al Conservatorio di Santa Cecilia e al Pontificio Istituto di Musica Sacra. Tiene corsi di polifonia palestriniana in Italia e all’estero, dirige i principali complessi sinfonico-corali italiani ed è insignito di alte onorificenze e premi nazionali ed internazionali.
Nel 1997, non senza polemiche nel mondo della musica liturgica, viene sostituito alla guida della Cappella Musicale Sistina da monsignor Giuseppe Liberto.
Autore di una vastissima produzione musicale, in occasione del suo ottantacinquesimo compleanno, con l’obiettivo di conservare e diffondere il patrimonio musicale da lui composto, viene costituita la Fondazione Domenico Bartolucci.
Nel concistoro del 20 novembre 2010 è creato cardinale da Benedetto XVI.
Dopo aver ricevuto la porpora, in un’intervista dice: «Credo che la mia nomina sia un richiamo di questo Papa, amante della bellezza, a non lasciare che si perda definitivamente tanta ricchezza musicale».
Circa la sua passione per la musica, spiega: «L’ho amata fin da bambino. Mio padre, un operaio, era un cantore appassionato, mi portava sempre con lui quando andava a cantare nel coro della Compagnia dei Neri, una confraternita laicale di Borgo San Lorenzo».
Di carattere tenace, a dodici anni viene punito dal professore di greco e latino che lo vede suonare l’armonium e dice: se questo ragazzo suona così bene, vuol dire che si dedica poco alla lingue classiche. Il docente gli vieta dunque di suonare e lui, per tutta risposta, si costruisce una tastiera di cartone, con i tasti disegnati sopra, e la nasconde sotto il banco.
Dopo il Concilio Vaticano II definisce «esiziale» l’abbandono del latino e spiega: «Mi pare evidente come da allora la musica sacra e le scholae cantorum siano state definitivamente emarginate dalla liturgia, nonostante le raccomandazioni della Constitutio de Sacra Liturgia del ’63 e del motu proprio Sacram Liturgiam, del ’64, nel quale il gregoriano è definito “canto proprio della liturgia romana”. Prima di questi “aggiornamenti” il popolo cantava a gran voce durante i Vespri, la Via Crucis, le messe solenni, le processioni. Cantava in latino, lingua universale della Chiesa. Durante le liturgie dei defunti tutti intonavano il Libera me Domine, il De profundis. Tutti rispondevano al Te Deum, al Veni creator, al Credo. Adesso si sono moltiplicate le canzonette. Sono così tante che le conoscono in pochissimi, e non le canta quasi nessuno».
Quanto alla sua rimozione, nel 1997, spiegò: «Fui rimosso dall’incarico nonostante il “perpetuo” del titolo. Il mio disappunto per il declassamento della Cappella e per alcune cose che avvenivano durante le cerimonie papali era ben noto. Fu comunque un colpo inaspettato».
Aldo Maria Valli
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Sulla figura di Domenico Bartolucci il maestro Aurelio Porfiri, che fu suo allievo, ci ha inviato questo ricordo che volentieri pubblichiamo.
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Non ho un ricordo molto positivo del funerale del cardinale Domenico Bartolucci, svoltosi nella basilica di San Pietro il 13 novembre 2013. Un motivo era certo che stavo dando l’addio ad una persona che per me ha significato così tanto, il mio Maestro, colui con cui ho scambiato così tante impressioni e valutazioni nel corso degli anni. Ma certamente non c’era solo questo. Mi sembrava, forse, che per rendere onore a questo grande genio servisse qualcosa d’altro, qualcosa di diverso. Sentivo che mancava qualcosa.
Penso che la sua grande lezione prima che musicale sia stata culturale: volle sempre combattere, a suo modo, per onorare l’enorme contributo che la Chiesa cattolica ha dato, anche attraverso la musica, alla nostra civilizzazione. Il suo grido di dolore era proprio per la perdita di questa capacità della Chiesa di essere fautrice di grande cultura, di grande civilizzazione, per rincorrere le mode passeggere, i rimasugli della musica di consumo gettati in strada dalla furia capitalistica, le smanie di coloro che, non sentendo una identità religiosa e culturale per loro stessi, non la possono sopportare negli altri.
La sua posizione si era certo inasprita, non si può negare, e il motivo era l’abbandono di tutto ciò che di bello e santo la Chiesa aveva prodotto come frutto della sua intensa vita liturgica e spirituale. Anche coloro che hanno tentato di servire il rito di Paolo VI con degna musica, anche in lingua volgare, si sono trovati in enorme difficoltà, quando non estromessi del tutto.
Pio XII, che egli servì come Maestro della Cappella Sistina, nella Musicae Sacra Disciplina (1955) ben diceva: «In tal modo, per impulso e sotto l’auspicio della Chiesa, l’ordinamento della musica sacra nel decorso dei secoli ha fatto lungo cammino, in cui, sebbene talvolta con lentezza e a fatica, tuttavia è salito a poco a poco a maggior perfezione: dalle semplici ed ingenue melodie gregoriane fino alle grandi e magnifiche opere d’arte, nelle quali non solo la voce umana, ma altresì l’organo e gli altri strumenti aggiungono dignità, ornamento e prodigiosa ricchezza. Il progresso di quest’arte musicale, mentre chiaramente dimostra quanto la Chiesa si sia preoccupata di rendere sempre più splendido e gradito al popolo cristiano il culto divino, d’altra parte spiega come mai la Chiesa medesima abbia talvolta dovuto impedire che si oltrepassassero i giusti limiti e che, insieme con il vero progresso, s’infiltrasse nella musica sacra, depravandola, alcunché di profano e alieno dal culto sacro». Quando questa funzione di argine è venuta a mancare, nelle chiese è entrato di tutto, ma questo non ha contribuito a frenare l’emorragia dei fedeli.
Eppure la Chiesa era maestra di civiltà, oltre che di fede. Proprio quel coro della Cappella Sistina che il Maestro diresse per più di quarant’anni era il custode di una tradizione che prima che musicale era spirituale, era il frutto della consapevolezza della dignità di servire un Mistero grande come quello celebrato nella liturgia. Che cosa può esserci di più grande per un musicista? Quale soggetto più grande di attenzione che lo stesso Dio? E non un soggetto nel senso di Qualcuno a cui dare qualcosa che gli è dovuto come il culto, ma di Qualcuno che è dietro ogni tua ispirazione, dietro ogni tuo pensiero creativo, dietro ogni tua visione estetica, Qualcuno che, come suggeriva Agostino, ti è dentro più di te stesso.
La Tradizione non deve essere una gabbia, ma uno slancio. Se manca la spinta data dalla sana adesione alla Tradizione, la rincorsa è fiacca, stanca, non efficace.
Il cardinale e Maestro voleva testimoniare tutto questo, voleva che la sua Cappella Sistina fosse un modello per preservare il fuoco e non – come credono alcuni – per preservare le ceneri. Oggi che ceneri e fuoco sembrano sempre più flebili, il Maestro ci manca ancora di più.
Possa gioire il Maestro Bartolucci della liturgia celeste con il coro degli angeli, ascoltando quella musica ineffabile di cui ci ha offerto una scintilla durante il suo pellegrinaggio terreno.
Aurelio Porfiri

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