ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

domenica 4 novembre 2018

Questa soluzione al Cristo non va..

Il sacerdote e il compromesso

Nessun uomo può servire due padroni. Ciò malgrado, il sacerdote tenta a volte di conciliare alla meno peggio il Simone e il Pietro che sono in lui. Ma questa soluzione al Cristo non va. Nel suo sacerdote non vi è posto per calcoli del più e del meno. Nostro Signore esige un amore smisurato, ma talvolta la nostra natura vuole il compromesso. Era questo spirito che il Signore aveva in mente quando esortò i suoi seguaci a non sentirsi paghi di aver fatto semplicemente quel che erano tenuti a fare.
[E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due – Mt 5, 41]

Qui nostro Signore avrebbe potuto benissimo riferirsi a un trasporto obbligatorio di bagaglio militare, non all'obbligatorietà di occuparsi d qualcuno, o di fare compagnia a qualcuno. Esempio supremo sarebbe quello di Simone di Cirene, che fu costretto a caricarsi della Croce [Mc 15, 21].
San Luca ci dà un vivido quadro del sacerdote che non ha voglia di fare tutto ciò che il Signore esige da Lui, del tentativo quindi di arrivare a un compromesso, o dell'obbedienza a metà al volere divino. E' degno di nota il fatto che nel presentarci il protagonista lo chiami con il solo nome di Simone. Ecco il brano [Lc 5, 1-6]:
[Mentre intorno a Lui la gente s'affollava per udire la Parola di Dio, Egli stava presso il lago di Gennèsaret; e vide ferme alla riva del lago due barche, dalle quali erano scesi i pescatori per lavare le reti. Egli salì su una di quelle barche, su quella di Simone, e lo pregò di scostarsi un po' da terra. E, seduto sulla barca, ammaestrava la folla. Quando cessò di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e calate le vostre reti per la pesca». Simone gli disse: «Maestro, noi abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; però sulla tua parola calerò la rete». Ciò fatto presero tanta quantità di pesce che si rompeva loro la rete. - traduzione Bibbia annotata da Giuseppe Ricciotti]
Dopo essere stato cacciato da Nazareth, che era la sua città, nostro Signore si era ditretto a Cafarnao, che da allora sarebbe stata la base della sua attività. Trovatosi premuto dalla folla, aveva cercato rifugio in una barca, che apparteneva a Simone. Scostatosi un po' dalla riva, aveva cominciato a parlare alla folla. Quindi, dopo aver finito, aveva pregato Simone di spingersi al largo e di gettare le reti. “Va al largo e cala le reti per la pesca”, gli aveva detto.
Simone però non era per niente convinto. Non aveva intenzione di sfidare il Signore, ma neanche era disposto ad ubbidire di tutto cuore. La parola stessa che usò nel rispondere a Gesù rispecchia l'ambiguità del suo atteggiamento. “Maestro” aveva detto.
Era la stessa parola che Giuda avrebbe usato nel tradirLo, una parola priva della minima allusione alla divinità, tutt'al più un'ammissione della sua condizione di insegnante, di “rabbi”.
Questa parola rivela i pensieri di Simone. “Che cosa ne sa Lui, che viene da Nazareth, della maniera con cui si pesca a Cafarnao”, deve aver certamente pensato. “A quest'ora del giorno, chi mai si sognerebbe di pescare? Chi fa il mestiere del pescatore sa benissimo che si pesca di notte; e noi abbiamo sgobbato tutta la notte senza trovare niente”.
Pietro sapeva tutto sulla pesca nel lago di Genézaret. Di conseguenza, fu per rispetto verso il Maestro, quasi si direbbe per dargliela vinta, che acconsentì a spingersi un po' al largo, promettendo di calare la rete quando il Signore glielo avesse detto. Il Signore aveva parlato di reti; Pietro era venuto a un compromesso con se stesso parlando di una rete. Egli scagliò sul volto del Signore il grido amaro delle ore, sterili della vita, ma quando la rete prese una tale quantità di pesci che quasi si rompeva, da tergo della forma massiccia di Simone proruppe immediatamente la forma sacerdotale di Pietro:
[Al veder questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore” - Lc 5, 8]
Si noti il duplice cambiamento dei nomi. Cristo non è più il “Maestro”: è il “Signore”, Simone non è più Simone: è Simon Pietro. Sotto gli effetti del miracolo operato dal Sommo Sacerdote a beneficio dello spregevole “io” di Simone, la natura del sacerdote si afferma su quella dell'uomo. Ciò che Simone aveva preso era ben più del pesce: era il Signore.
Fintanto che noi pensiamo al Signore come a un “Maestro”, ci pare che ciò che facciamo sia sufficiente e che basti calare una sola rete anche quando Egli parla di reti al plurale, ma nel momento in cui lo Spirito Santo ci fa consapevoli del dominio di Dio, ci fa comprendere per mezzo suo di essere i suoi sacerdoti, allora scende su di noi la terrificante coscienza del peccato. Quanto più riconosciamo la santità del Sommo Sacerdote, tanto più ci rendiamo conto dei nostri errori. La condizione del successo di tutto il sacerdozio non sta in noi come operai, né nelle nostre scuole o nei nostri circoli. Prima l'operaio aveva fallito, poi la rete quasi si rompeva. La nostra sufficienza ci viene da Dio. La ragione del nostro insuccesso va piuttosto ricercata nel nostro guardare a Lui soltanto come al Maestro e non come al Signore, o anche nel fatto che la nostra obbedienza alla sua volontà è tutt'altro che totale. E' probabile che nel momento in cui Simon Pietro si rese conto della sua indegnità, nostro Signore lo abbia preso per la mano. Questo, almeno, è ciò che le ultime parole della narrazione suggeriscono:
[Gesù disse a Simone: “Non temere; d'ora in poi sarai pescatore di uomini” - Lc 5, 10]
Si direbbe un paradosso, eppure sembra che nostro Signore attiri i sacerdoti più vicino a Sè proprio quando essi sono maggiormente consapevoli della distanza che li separa da Lui. Noi predichiamo in modo efficace la Parola di Dio soltanto quando abbiamo tremato per tanto ministero. I sacerdoti e i missionari che hanno il maggior numero di conversioni sono quelli che provano nel modo più profondo e schiacciante il senso della propria indegnità personale.
Quando un sacerdote si lamenta di non riuscire a fare conversioni nella sua parrocchia, nella sua città o nella sua missione, è tempo si chieda se fa affidamento sulle proprie risorse. Vi è sempre un motivo se la divina assicurazione “... sarai pescatore di uomini” non ha efficacia. Ricordo una parrocchia del sud America nella quale otto soltanto degli ottomila fedeli andavano alla Messa domenicale. In sei anni, un nuovo sacerdote portò il numero delle sante Comunioni distribuite nei giorni feriali a milleottocento. Predicò ottanta ritiri spirituali all'anno ed ebbe la gioia di vedere il novantotto percento dei suoi parrocchiani compiere i loro doveri religiosi. Nostro Signore disse che avrebbe fatto di noi dei pescatori di uomini. Il successo deriva dalla nostra intimità con Lui.

Fulton J. Sheen (Il sacerdote non si appartiene – Fede & Cultura)


Il sinodo dei giovani ha dimenticato i Santi giovani


di Giorgio Enrico Cavallo
Il documento finale del sinodo dei giovani ha lanciato l’appello: servono dei nuovi santi! Giustissimo. Come “coltivare” questa santità, però, è rimasto un vero enigma. Eppure, i 167 paragrafi del documento avrebbero potuto essere del tutto inutili: se la necessità è quella di avere dei nuovi santi, un sinodo rivolto ai giovani non avrebbe potuto far altro che indicare la via tracciata dagli innumerevoli santi giovani, da san Luigi Gonzaga a santa Maria Goretti, da santa Gemma Galgani a san Domenico Savio.

Proprio in riferimento a quest’ultimo, mi sia permessa una digressione personale. La mia famiglia ha ospitato, nelle scorse settimane, una ragazza giapponese. Mia moglie aveva in casa un vecchio libriccino su san Domenico Savio, scritto in giapponese e presumibilmente rivolto a chi sa poco o niente della Chiesa Cattolica. La ragazza l’ha letto con vivo interesse, scoprendo qualcosa a lei completamente sconosciuto: non conosceva don Bosco, non conosceva i rudimenti della fede cattolica. Leggere la vita di quell’umile ragazzo del Piemonte ottocentesco le ha lasciato qualcosa di positivo: ha scoperto l’assiduità ai sacramenti, la serietà, la fedeltà di un ragazzo, la sua devozione, l’orrore che provava per il peccato. Sarebbe bastato il motto di questo santo giovanissimo (“la morte, ma non il peccato”) per dare un vago senso al Sinodo 2018.

Invece, niente di veramente profondo ed utile traspare dalla (scontata) lettura del documento sinodale. Si dà importanza all’ascolto, «un incontro di libertà, che richiede umiltà, pazienza, disponibilità a comprendere» (§ 6), che ha «valore teologico e pastorale» (§ 9). Si sostiene la «necessità che la Chiesa si schieri coraggiosamente dalla parte [degli emarginati] e partecipi alla costruzione di alternative che rimuovano esclusione ed emarginazione» (§ 11). Il testo analizza a volo d’uccello i problemi di oggi, dall’esclusione sociale ai rischi del web, dalla sessualità disordinata al precario mondo del lavoro, concedendo (ovviamente) ampio spazio al fenomeno migratorio, vera pietra angolare del pontificato in corso: essi costituirebbero «un “paradigma” capace di illuminare il nostro tempo e in particolare la condizione giovanile» (§ 25).

Tutto bellissimo. Ma la profondità del documento sinodale è pari a quella del “tema libero” di liceale memoria: si parla di argomenti triti e ritriti, senza fornire alcuna risposta convincente o utile a dimostrare che il documento sinodale è stato scritto da cristiani e non da un’associazione umanitaria a caso. Perché è vero che «in generale i giovani dichiarano di essere alla ricerca del senso della vita e dimostrano interesse per la spiritualità» (§ 49), ma è anche vero che la spiritualità è ormai scomparsa da quella vita della quale essi (e tutti noi) cercano il senso; e il testo sinodale non dà indicazioni serie per ritrovarla. Usando le classiche parole-chiave della “neo-lingua cattolica”, dispensa discernimenti a tutto andare, ma non sa cogliere il nocciolo della situazione: a che pro discernere, se manca la sostanza? E la sostanza è una sola: il riconoscimento della regalità di Cristo, centro della vita umana. 
Non è un concetto difficile. Lo avevano capito benissimo i nostri grandi santi giovani, ma di loro non c’è traccia nel documento sinodale. Invece, c’è la «Chiesa che accompagna» e la «Chiesa quale ambiente per discernere». Invece, ci sono le solite affermazioni che hanno il sapore del malcelato slogan politico, ad esempio: «Migranti: abbattere muri e costruire ponti», §147) o della più totale edulcorazione («integrare sempre più la dimensione sessuale nella propria personalità, crescendo nella qualità delle relazioni e camminando verso il dono di sé», § 150).

Dopo aver letto questi paragrafi fumosi, intrisi di una mentalità edulcorante, che ha orrore delle tinte forti e che si esprime con una neo-lingua macchinosa e inespressiva, si rimpiange la schiettezza dei vecchi libretti delle vite dei santi, che in poche pagine, con pochi esempi significativi, sapevano indirizzare sulla retta via. Altro che “accompagnamento” e “discernimento”. Sono sicuro che in quel libretto scritto anni fa in giapponese, la vita di san Domenico Savio è scritta in modo chiaro, senza pudori dettati dal politically correct e senza strizzate d’occhio alla filosofia del mondo. Se è di santi che abbiamo bisogno, i cristiani dovrebbero avere orrore delle parole vuote e iniziare davvero a cercare di farsi santi secondo il motto di san Domenico Savio: “La morte, ma non il peccato”.
http://campariedemaistre.blogspot.com/2018/11/il-sinodo-dei-giovani-ha-dimenticato-i.html
San Carlo, l’Arcivescovo che «ha rifatto l’episcopato europeo»

Legislatore, amministratore, pastore, asceta, San Carlo Borromeo condusse più esistenze in una sola vita. Da secoli egli è lustro alla Chiesa ed è dimostrazione di cosa un solo uomo possa fare nel risollevare le sorti delle diocesi, ieri come oggi tremendamente minate dagli errori. Le opere di questo Santo costituiscono un vero e proprio corso di teologia pastorale, ma a rendere accessibili le sue riforme ai contemporanei, nonché ad immortalarne la memoria, hanno fondamentalmente contribuito la sua carità, la sua dedizione e il suo spirito sacerdotale.
La personalità dell’Arcivescovo di Milano – il Vescovo modello secondo lo spirito del Concilio di Trento, con gli occhi ardenti di fede e il viso scavato dai digiuni – si impose in tutta Europa nel giro di pochi decenni, con un vigore difficile oggi da immaginare per personalità ecclesiastiche. In una Chiesa fortemente in fermento, tormentata dalla questione della salvezza, il suo zelo apostolico e la sua generosità rappresentarono una manifestazione eccezionale del risveglio spirituale e pastorale di una Cristianità martoriata dall’eresiarca Martin Lutero. Egli fu risposta vivente alle tesi protestanti sull’utilità delle opere e sul valore indispensabile dei sacramenti e dei riti liturgici.
Nessun Santo in Europa è stato raffigurato come San Carlo Borromeo, perfino prima della sua canonizzazione. Cappelle e chiese in quantità sono intitolate a lui. Non c’era credente nel XVII secolo che non conoscesse la sua effige attraverso la piccola medaglia incisa da Rossi nel 1563 (già nel 1611, un anno dopo la sua canonizzazione, erano state battute 150 milioni di medaglie in suo onore) o grazie agli innumerevoli ritratti che decoravano gli altari e alla gigantesca statua, alta 28 metri: il cosiddetto «Carlone», che sovrasta l’incantevole Lago Maggiore.
Fra i vari aspetti della personalità del Vescovo della diocesi di Sant’Ambrogio, l’iconografia seicentesca ha posto in rilievo soprattutto l’immagine del pastore al servizio del popolo, che distribuisce i suoi averi ai poveri e, a rischio della sua vita, porta aiuto ai milanesi durante la peste del 1567.
In un dipinto di Crespi, a Santa Maria della Passione a Milano, il Santo è raffigurato seduto a tavola mentre legge, accontentandosi come i poveri, di un tozzo di pane e di un bicchiere d’acqua. Una tela di Borgianni, allievo di Caravaggio, lo rappresenta, invece, in mezzo agli appestati con un orfanello in braccio. Nella chiesa di San Carlo ai Catinari o di San Lorenzo in Lucina a Roma le pennellate di Piero da Cortone e di Serraceni mostrano un San Carlo che distribuisce vestiti e biancheria ai malati.
L’iconografia borrominiana è eloquente e incisiva, tanto immediata, quanto edificante. In una cappella di cui è titolare in Santa Prassede, dove si conservano delle sue reliquie, è raffigurato prostrato davanti al crocifisso, da cui si arguisce che dalla meditazione della Passione di Cristo attingeva la forza per continuare la sua missione. In un’altra cappella, corrispettiva a quest’ultima, prega davanti al Santissimo Sacramento, rapito in estasi. A copertina del presente testo abbiamo posto, per sintesi drammatica e trionfante allo stesso tempo, lo straordinario quanto attuale, nella sua evocazione, dipinto San Pio V e San Carlo Borromeo difendono il Cattolicesimo dall’Islam e dall’eresia protestante di Giovanni Gasparro – olio su tela, 220 x 160 com, 2017. Adelfia (Bari), Collezione privata. Image copyright © Archivio Luciano e Marco Pedicini – carissimo collaboratore di «Europa cristiana».
Oltre ad essere pastore e uomo di preghiera, San Carlo è un capo, una roccia di ordine e di autorità. «Milano non gli basta, ha bisogno del mondo intero», scrisse con la penna intinta nel veleno della gelosia, Annibal Caro, segretario del Cardinale Farnese.
Discendente per parte di padre da una nobile famiglia milanese con vaste proprietà terriere sulle rive del Lago Maggiore, era per parte di madre, Margherita de’Medici, nipote del Cardinale de’Medici. Nel 1559 aveva solo 21 anni quando suo zio, appena eletto al soglio pontificio, con il nome di Pio IV, lo chiamò a Roma, promuovendolo protonotario apostolico, referendario della Segnatura apostolica, Segretario di Stato, membro di varie congregazioni, amministratore dell’Arcivescovo di Milano. E lo creò Cardinale. Grazie a tutti questi incarichi, divenne uno degli uomini più ricchi del Sacro Collegio.
Da bambino Carlo aveva avuto un’educazione pia e, destinato alla carriera ecclesiastica, ricevette la tonsura all’età di 8 anni; divenne abate a 12 e seguì gli studi all’Università di Diritto a Pavia. Per apprezzare le qualità del Cardinale ventiduenne, si devono osservare la pazienza, la diplomazia, la tenacia che impiegò per convincere i principi e gli altri prelati della Chiesa della necessità di riaprire il Concilio di Trento, interrotto dall’impopolarità di Papa Paolo IV. Operando come agente di collegamento, studiando tutti i dettagli delle questioni, come era uso fare,  appianò gli ostacoli sollevati dalla Francia e dalla Spagna, eliminando le obbiezioni.
Finalmente, il 18 gennaio 1562, un centinaio di vescovi si riunì a Trento, e venne aperta la XVIIª sessione dell’Assise. Carlo Borromeo, rimasto nell’ombra a Roma, si tenne informato di tutti gli sviluppi delle otto sessioni che seguirono, fino alla chiusura del Concilio del 3 dicembre 1563, intervenendo discretamente e svolgendo trattative per trovare giusti equilibri. Il suo senso di dedizione e la sua competenza contribuirono in modo determinante al successo delle sedute. Tuttavia fu soprattutto al termine del Concilio che iniziò la sua prodigiosa missione: i vescovi avevano stabilito i princìpi, ma ora si dovevano creare le condizioni pratiche e il quadro istituzionale nel quale la riforma avrebbe dovuto operare.
Proprio durante l’Assise si verificò un fatto che mutò drasticamente il corso della sua vita: morì il fratello maggiore, Federico. Il lutto lo pose di fronte ad una scelta: rimanere quel che era oppure, assumendo le funzioni di capofamiglia, avrebbe dovuto lasciare l’abito ecclesiastico? Scrisse ad un parente: «Questa perdita mi ha fatto progredire nella grazia del Signore. Questo fatto, più di ogni altra cosa, mi ha fatto toccare nel vivo la nostra miseria e la vera felicità della gloria eterna». Fino ad allora aveva ricevuto solo il diaconato e suo zio avrebbe potuto accordargli la dispensa per tornare allo stato secolare… Ma non solo scelse questa strada, decise di essere sacerdote.
Sreparò sotto la direzione spirituale dei Gesuiti, seguendo gli Esercizi di Sant’Ignazio. L’ordinazione sacerdotale si svolse in segreto e il 15 agosto 1563 celebrò la sua prima Santa Messa, mentre il 7 dicembre venne nominato Vescovo di Milano nella cappella Sistina.
Il pensiero della morte, la spiritualità di Sant’Ignazio e la direzione del Padre gesuita Ribera ebbero una grande influenza su di lui. Intraprese un percorso di penitenza, ambendo alla perfezione cristiana e allacciò rapporti con san Filippo Neri, del quale condivideva lo zelo riformatore. Il suo esempio fece scuola: il Papa stesso moderò il tenore di vita della Casa pontificia, raccomandando modestia al suo seguito. Il comportamento di San Carlo suscitava ammirazione, scrisse, per esempio, il legato veneziano nel 1565: «A ciascuno dà un esempio talmente sublime che si può dire a ragione che da solo egli fa più bene alla corte di Roma che tutti i decreti tridentini insieme».
San Carlo desiderava far ritorno nella diocesi di Milano, di cui era stato nominato Arcivescovo il 2 maggio 1564, ma Pio IV lo volle ancora con sé come suo braccio destro nel concretizzare le direttive del Concilio. Una delle prime misure fu la creazione di una commissione incaricata di fondare un Seminario romano. Borromeo, allora, interpellò i Gesuiti per inviarli a Milano, dove aprirono un loro Seminario il 10 dicembre 1564, addirittura prima di quello di Roma. Si occupò delle cerimonie liturgiche, di cui controllò il decoro e il rispetto dei riti, perché fino ad allora, troppo spesso, il culto divino si era svolto in maniera disordinata e ignorante. Intervenne personalmente nella musica sacra, che a quei tempi traeva spunti, motivi e regole dal canto profano. Vennero rivisti la Bibbia e il Breviario, nonché la composizione del messale, completata sotto il pontificato di San Pio V. Infine sorse l’esigenza di redigere un sommario della dottrina cristiana e Carlo Borromeo partecipò all’elaborazione del Catechismo, pubblicato nel 1566.
A fianco del Pontefice collaborò a molte altre attività, fra cui la revisione dell’Indice e un’edizione degli scritti dei Padri della Chiesa, impegnandosi anche per una riforma del Sacro Collegio. Mise pure in atto un piano mirabile per migliorare le condizioni sanitarie di Roma; creò alloggi per i mendicanti; controllò le attività del Monte di pietà; contribuì al restauro e alla decorazione di alcune chiese. Intanto non trascurava la diocesi di Milano, dove per sua volontà fu reintrodotta la clausura nei conventi. Per introdurre le riforme conciliari, vi inviò un sacerdote di Verona di sua fiducia, Nicola Ormaneto, uomo molto capace. Una delle principali prerogative di San Carlo fu proprio quella di circondarsi di persone di grandi qualità.
Finalmente entrò in Milano come Arcivescovo. Era il 23 settembre 1565. Ma nella notte fra l’8 e il 9 dicembre era nuovamente a Roma per assistere il Papa morente. Le porte del conclave vennero chiuse il 19 dicembre e il 7 gennaio i Cardinali scelsero come successore di Pio IV un fautore della riforma tridentina, il Cardinale Ghislieri, che prese il nome di Pio V. Quest’ultimo avrebbe voluto che il Cardinale Borromeo rimanesse a Roma, ma questi gli chiese con insistenza la grazia di poter far ritorno nella sua diocesi, in conformità con il principio di residenza effettiva formulato dal Concilio di Trento. Lasciò le sue ricchezze di beni e di opere d’arte e il 5 aprile fece ritorno a Milano, senza pompe. Qui, per vent’anni, sotto i pontificati di San Pio V e di Gregorio XIII, svolse un lavoro immane di riordino, di rinnovamento e di santificazione, dando egli stesso l’esempio, sottoponendosi a penitenze severe ed elevando in virtù il tenore di vita del vescovado. «Servirebbe a ben poco emanare decreti di riforma se poi noi stessi non li osservassimo», scrisse al Duca di Mantova.
La diocesi di Milano contava 740 parrocchie, quasi 200 conventi e monasteri, circa 3.350 preti su una popolazione di 560 mila persone. Da ben 80 anni nella diocesi, che si estendeva ben oltre la zona di Milano, fino a Verona e alle tre vallate svizzere del Canton Ticino, non risiedeva l’Arcivescovo… il degrado dottrinale e morale era evidente. Proprio per questa ragione San Carlo intraprese le sue instancabili visite pastorali, visitando le parrocchie e riorganizzando l’intera amministrazione della provincia ecclesiastica. Contemporaneamente creò un immenso archivio, dove raccolse tutte le informazioni possibili, divise per argomento, sulle parrocchie e sui sacerdoti. Un preziosissimo lavoro di statistica ecclesiastica, del tutto nuovo fino ad allora, che doveva essere continuamente aggiornato. Inoltre era posto sotto controllo il buon ordine dei registri parrocchiali. La riunione dei concili provinciali e dei sinodi diocesani erano assai utili all’Arcivescovo per seguire da vicino il buon andamento del piano riformativo. L’insieme di tutte queste misure furono raccolte negli Acta Ecclesiae Mediolanensis.
L’Arcivescovo entrava nei dettagli delle prescrizioni relative all’amministrazione dei sacramenti e della regolamentazione degli uffici; si occupava dell’ordinamento della pulizia delle chiese, della gestione delle biblioteche, dell’organizzazione delle feste e delle processioni religiose.
Tutto questo suo industriarsi per il Regno di Dio in terra viene contrastato da quegli ecclesiastici e religiosi che non vogliono la santità nella Chiesa. Il clima si arroventa a tal punto che il 26 ottobre 1569, mentre San Carlo prega nella sua cappella, gli sparano con un archibugio un colpo che gli trafigge il rocchetto e la sottana, reliquie oggi conservate nella Cattedrale di Bordeaux. Ma la pallottola non lo ferisce. L’attentatore è un certo Farina, appartenente agli Umiliati, i quali, dopo aver ricevuto l’ingiunzione di rispettare le riforme e di condurre una vita più virtuosa, hanno tentato di assassinarlo.
Durante i suoi viaggi pastorali San Carlo consacra chiese, studia la fondazione di un seminario o di un ordine religioso, verifica la competenza e la moralità dei preti, esamina i catechismi e, ad uso dei parroci, pubblica le Istruzioni per la predicazione della parola di Dio, un trattato nel quale vengono definiti i doveri dei pastori e i mezzi disponibili per compiere meglio questa missione; poi mette in circolazione il Monito per i confessori.
La fondazione e l’organizzazione di seminari diventò pietra fondativa della restaurazione cattolica. Poiché il primo Seminario fu quello dei Gesuiti, la maggioranza dei seminaristi sceglieva l’abito della Compagnia di Gesù, quindi, per ovviare a questo problema, l’Arcivescovo pensò di fondare l’ordine degli Oblati di Sant’Ambrogio, una congregazione di sacerdoti diocesani che vivevano in comunità, ai quali affidò, dal 1578, l’incarico di amministrare i seminati e di dedicarsi, sotto la sua guida, al ministero delle anime. Il successo portò alla creazione di un’altra congregazione di Oblati, ma laici e posti al servizio della diocesi.
Sua preoccupazione fu anche l’educazione e l’assistenza. L’opera educativa venne coronata dall’organizzazione di scuole di dottrina cristiana, dove gli studenti venivano istruiti e formati cattolicamente. Verso il 1550 il personale docente era composto da 3000 persone, fra preti e laici, distribuite per 140 istituti con 40 mila scolari. L’organizzazione, che riceveva la sua costituzione dalle mani di San Carlo, era basta su una gerarchia complessa, capitanata da un priore. Anche l’arrivo delle Orsoline, per l’educazione delle giovani, corrisponde all’esigenza pedagogica di San Carlo. Numerose poi le iniziative di beneficenza e di istituzioni atte ad accogliere gli abbandonati e i diseredati: orfanotrofi, ospizi, asili notturni per i medicanti. Nei periodi di carestia, l’Arcivescovo attivò le «mense popolari» e il vescovado stesso provvedeva al mantenimento di alcune migliaia di diseredati.
Quest’uomo di azione era anche uomo di profonda contemplazione. Era capace di meditare per otto ore di seguito, durante la notte, su un tema preciso. Recitava il Breviario inginocchiato sul nudo pavimento e dormiva soltanto quattro o cinque ore su un vecchio pagliericcio. Proverbiale la frugalità dei suoi pasti: dal 1571 si nutriva soltanto una volta al giorno con pane, acqua e un po’ di verdure. Nella sua camera solo il pagliericcio ed una poltrona, neppure un caminetto. Amici, medici, il Papa in persona si preoccupavano delle trascuratezze che aveva per la sua salute.
San Carlo era molto devoto di Gesù Eucaristia, che manifestava in pienezza durante l’adorazione del Santissimo Sacramento e durante la solenne celebrazione del Corpus Domini. Era poi un innamorato della Passione di Nostro Signore. Raccomandava ai sacerdoti e ai vescovi la pratica degli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio, rendendoli obbligatori per gli ordinandi e ai preti impose la prassi quotidiana dell’esame di coscienza.
Fervore, pietà, intensa abnegazione. Organizzava preghiere pubbliche e processioni, incoraggiava i pellegrinaggi e le visite alle Basiliche. Memorabili i suoi pellegrinaggi per venerare la Sacra Sindone a Torino, e a Roma, in occasione del Giubileo del 1575.
Impressionante il dispendio di energie che profuse durante la peste di Milano, che esplose nell’autunno del 1576. Per un momento si ebbe timore che anche l’Arcivescovo fosse rimasto contagiato dal morbo, ma guarì e proseguì il suo lavoro percorrendo senza riposo le strade della città e dei paesi. I mali della popolazione rapprendevano la punizione per i peccati, perciò, per implorare il perdono e la misericordia di Dio, San Carlo prescrisse pubbliche preghiere di penitenza e di purificazione. Organizzò eroicamente processioni per le strade, partendo dalla cattedrale, dove la paura si univa al raccoglimento della gente. Egli, in cima al corteo, portava una grande crocifisso. Per gli abitanti relegati in quarantena e per i malti del lazzaretto, erano le campane delle chiese ad indicare l’ora per le preghiere. Da dicembre l’epidemia iniziò a regredire. Il 20 gennaio 1577 si celebrò una grande festa in onore di San Sebastiano. Le case vennero asperse con l’acqua benedetta; le processioni espiatorie avanzarono lungo le vie. A settembre l’Arcivescovo, come ringraziamento della fine di quella che venne chiamata «la peste di San Carlo», pose la prima pietra della chiesa votiva di San Sebastiano.
Tre settimane prima della morte, ad un frate cappuccino che lo supplicava di badare alla sua salute, rispose: «Per illuminare gli altri una candela deve consumarsi». Il 2 novembre 1584, al ritorno da un pellegrinaggio a Torino si fermò ad Asconia, nel Canton Ticino, dove voleva aprire un Seminario; ma fu assalito dalla febbre e fece ritorno ad Arona e da qui, moribondo, fu trasportato a Milano. Si spense nella notte fra il 2 e 3 novembre, all’età di 46 anni.
La Chiesa della controriforma deve molto a San Carlo Borromeo. Per tutte le diocesi d’Europa gli Acta Ecclesiae Mediolanensis rappresentarono un monumento della tradizione pastorale e un modello da imitare. Il Cardinale Bellarmino raccomandò di leggere la vita di San Carlo Borromeo, intanto Bossuet, Fléchier e San Vincenzo de’Paoli si servirono dei suoi trattati e delle sue argomentazioni per le loro omelie. San Francesco di Sales fu influenzato dai metodi di San Carlo, d’altronde aveva l’abitudine di farsi leggere a tavola i racconti della sua vita, pubblicati da Bascapé nel 1602. Con Papa Pio IV si può veramente affermare che l’Arcivescovo Carlo di Milano ha «rifatto l’episcopato europeo».

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