La grazia più grande è amare umilmente se stessi. Il cristiano riconosce la Chiamata di Gesù, non la confonde con altre voci: bisogna imparare ad amarsi ma poiché nessuno ne è capace da se stesso bisogna chiedere l’aiuto di Dio
di Francesco Lamendola
La grazia più grande è amare umilmente se stessi. Quando l’abbiamo letta, questa frase ci ha folgorati per la sua chiarezza e per la sua nuda, abbagliante verità. È di un grande scrittore del Novecento, Georges Bernanos, l’autore del Diario di un curato di campagna, uno dei più bei romanzi dell’ultimo secolo, apparso nel 1936; dal libro il regista Robert Bresson ha poi tratto, nel 1951, il film omonimo, destinato a restare come un’opera magistrale nella storia del cinema, intensamente interpretato dall’attore belga Claude Laydu nella parte del protagonista, il giovane curato del paesino d’Ambricourt. È significativo che di questo duplice capolavoro, della letteratura e del cinema, si parli oggi così poco, specie nell’ambito della cultura cattolica, che dovrebbe averlo caro quant’altri mai: sarà forse perché la commovente figura del protagonista è essenzialmente quella di un mistico, il quale si disinteressa delle necessità materiali dei suoi parrocchiani, ma è pronto a dare se stesso, fino al sacrificio della vita, per salvare le loro anime e riconciliarle con Dio? Certo non è, questa figura, in linea con quella oggi delineata dalla neochiesa uscita dal Vaticano II, la cosiddetta chiesa in uscita: non ha nulla del prete di strada, né del prete operaio, né del prete modernista; non scusa né giustifica i vizi e non perdona i peccati insieme ai peccatori, ma dice pane al pane e vino al vino.
Eppure, quanta struggente delicatezza, quanta eroica sollecitudine per le pecorelle del suo gregge, vi sono in lui! Non è un prete qualsiasi, né un paladino dei diritti civili, né un campione dell’integrazione, dell’inclusione e via banalizzando, e neppure del discernimento; è un prete tutto d’un pezzo, pur nella fragilità della sua costituzione fisica. Malato di cancro allo stomaco, quasi spezzato nel corpo, sa di avere pochi anni da vivere; eppure si getta nella sua missione sacerdotale con tutta l’anima, senza risparmio, senza riguardi, meno di tutti verso se stesso. Si considera solo un povero, misero strumento nelle mani della grazia del Signore; non ha altre ambizioni, né altri desideri, che quello di essere un buon operaio nella vigna di Gesù Cristo, o almeno un operaio che non sfiguri troppo agli occhi della gente: e non perché tema il giudizio sulla sua persona, ma solo perché ha un altissimo concetto della missione spirituale della quale un sacerdote è investito al momento della consacrazione.
La grazia, per la maggior parte degli uomini, consiste nel dimenticare il proprio io, nel liberarsi del loro piccolo e meschino ego, radice di tutti i mali, perché sorgente di tutte le brame e le passioni disordinate, paura compresa.
Riportiamo l’ultima pagina del diario del curato d’Ambricourt, che costituisce il celebre romanzo di Georges Bernanos Diario di un curato di campagna (titolo originale: Journal d’un curé de campagne, Paris, Librairie Plon, 1936; traduzione dal francese di Adriano Grande, Milano, Mondadori, 1946, 1975, pp.287-288):
Ho detto il rosario, con la finestra aperta su un cortile che somiglia a un pozzo nero. Ma mi sembra che, sopra di me, l’angolo del muro rivolto a levante incominci a imbianchirsi.
Mi sono ravvoltolato nella coperta e l’ho persino abbassata un po’ sulla mia testa. Non ho freddo. Il mio dolore abituale non mi prova più, ma ho voglia di vomitare.
Se lo potessi, uscirei da questa casa. Mi piacerebbe rifare attraverso le strade vuote, il cammino percorso ieri mattina. La mia visita al dottor Laville, le ore passate al caffeuccio della signora Duplouy, adesso non mi lasciano che un torbido ricordo, e non appena cerco di fissarvi lo spirito, d’evocarne i particolari precisi, provo una stanchezza straordinaria, insormontabile. Ciò che in me ha sofferto, dunque, non è più non può più essere. Una parte della mia anima rimane insensibile, lo resterà sino alla fine.
Certo, rimpiango la mia debolezza davanti al dottor Laville. Dovrei aver vergogna, tuttavia, di non sentirne alcun rimorso; giacché, infine, quale idea ho potuto dare d’un prete a quell’uomo, così risoluto, così fermo? Non importa! È finita. Quella specie di diffidenza che avevo di me, della mia persona, si è dissipata, credo, per sempre. Questa lotta è giunta al suo termine. Non la capisco più. Sono riconciliato con me stesso, con questa povera spoglia.
Odiarsi è più facile di quanto si creda. La grazia consiste nel dimenticarsi. Ma se in noi fosse morto ogni orgoglio, la grazia delle grazie sarebbe di amare umilmente se stessi, allo stesso modo di qualunque altro membro sofferente di Gesù Cristo…
Potente riflessione, potentemente vera: tale da lasciar senza parole per la sua assoluta e quasi spietata esattezza: se in noi fosse morto ogni orgoglio, la grazia delle grazie sarebbe di amare umilmente se stessi, allo stesso modo di qualunque altro membro sofferente di Gesù Cristo. Si poteva dire di più, o meglio, con così poche parole? La grazia, per la maggior parte degli uomini, consiste nel dimenticare il proprio io, nel liberarsi del loro piccolo e meschino ego, radice di tutti i mali, perché sorgente di tutte le brame e le passioni disordinate, paura compresa. Si è dominati dalla paura per la stessa ragione per cui si è dominati da smodati desideri: una sopravvalutazione del proprio io, una preoccupazione patologica nei suoi confronti, ora di proteggerlo, ora di soddisfarlo. E la paura genera anche l’auto-disprezzo, che è un amore patologico di sé, ma rovesciato nel suo contrario. In ultima analisi, quindi, è l’orgoglio la molla perversa da cui partono i nostri pensieri e le nostre azioni che ci rendono prigionieri del nostro stesso io, e c’impediscono di rivolgere le nostre energie verso qualche fine più alto, che trascenda la mera soddisfazione di bisogni immediati, veri o presunti e ci consenta di crescere: perché non esiste crescita interiore se non imparando a distaccarsi dalle passioni dell’io. Tuttavia, se fossimo capaci di spegnere in noi l’orgoglio, il vero demone che alimenta la nostra schiavitù, allora saremmo in condizione di poter ricevere la grazia più grande di tutte, della quale solo gli spiriti più generosi sono degni: imparare ad amare se stessi nel modo giusto, senza narcisismo, senza avidità, senza gelosia, senza egoismo, senza meschinità, senza nulla che ci separi da quanto di buono, di vero e di bello esiste al mondo: perché allora, e soltanto allora, saremmo in grado di dare senza aspettarsi di ricevere, di capire senza voler spiegare ogni cosa, di amare senza attaccamento e senza secondi fini.
Il belga Claude Laydu nella parte del protagonista di Diario di un curato di campagna, uno dei più bei romanzi dell’ultimo secolo, apparso nel 1936; dal libro il regista Robert Bresson cui fu tratto il film omonimo nel 1951, destinato a restare come un’opera magistrale nella storia del cinema.
Straordinaria scoperta. Sia quando cerchiamo di sopravanzare, e magari di calpestare gli altri, i loro diritti, le loro legittime aspettative, e non esitiamo a ostacolarli, a denigrarli, a calunniarli, per fare spazio alle nostre smodate ambizioni; sia quando ci deprimiamo e ci umiliamo in maniera esagerata, patologica, per esempio quando cadiamo in depressione, l’origine di tali comportamenti è la stessa: una assolutizzazione dell’io, una tirannide dell’io, il quale, se non può essere il primo fra tutti, vuole almeno l’amara soddisfazione di sentirsi l’ultimo, il più disgraziato, il più infelice: ma non è forse, anche questa, una maniera di essere primo, e sia pure alla rovescia? Per chi è incapace di accettare un ruolo discreto, indossare la maglia nera è meglio di niente, se non può indossare la maglia rosa. L’importante, per colui che è schiavo del proprio ego e delle sue passioni, è non trovarsi nel mezzo; non confondersi con gli altri; non sparire alla vista, quella altrui e la propria. Finché si è in testa, oppure anche in coda, tutti lo possono vedere, tutti possono dire: Eccolo, è lui, è proprio lui!; solo chi si adatta non occupare una posizione in vista, solo chi impara a vivere con discrezione, con sobrietà, camminando con passo leggero e parlando sottovoce, solo costui è sulla strada giusta per liberarsi dal fardello dell’ego e per ricevere, in compenso, un bene infinitamente superiore a qualsiasi soddisfazione mondana: la luce della grazia divina. La grazia, infatti, non scende su di noi fino a quando vogliamo primeggiare, fino a quando camminiamo pestando forte i piedi, fino a quando parliamo a voce alta, innalzando il tono sino a gridare. No: la grazia è per i piccoli, per i semplici, per i modesti, per gli umili e per i silenziosi. La grazia si rivela dove regnano il silenzio, la semplicità e il raccoglimento. In mezzo al frastuono, anche se ci fosse, non la si potrebbe udire, non si potrebbe vedere la sua luce abbagliante: sarebbe occultata dallo sfavillio appariscente, ma effimero, di mille piccole luci artificiali.
Del resto ancora una volta, basta rimettersi al modello indicato dal solo Maestro pienamente e infallibilmente veritiero che sia mai stato sulla terra, Gesù Cristo (Luca, 14, 7-11):
Osservando poi come gli invitati sceglievano i primi posti, disse loro una parabola: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più ragguardevole di te e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: Cedigli il posto! Allora dovrai con vergogna occupare l'ultimo posto. Invece quando sei invitato, va' a metterti all'ultimo posto, perché venendo colui che ti ha invitato ti dica: Amico, passa più avanti. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».
La grazia è per i piccoli, per i semplici, per i modesti, per gli umili e per i silenziosi.
La grazia più grande è amare umilmente se stessi
di Francesco Lamendola
continua su:
L'UOMO TOTALE E' CRISTIANOSoltanto l’uomo cristiano è l’uomo totale. Ossia una concezione che non trascura nulla non lascia agli impulsi e ai moti interiori la libertà di disgregarsi a loro piacimento ma impone ad essi la signoria della ragione naturale
di Francesco Lamendola
Se dovessimo indicare, fra le tante, la causa principale dello smarrimento dell’uomo moderno di fronte al reale, della sua perplessità, della sua alienazione e della sua impotenza, che inizia con il don Chisciotte di Cervantes e l’Amleto di Shakespeare e arriva fino agli antieroi straniti di Svevo, di Pirandello, di Kafka, di Musil, di Joyce e di Beckett, diremmo che essa risiede nella mutilazione e nella frammentazione dell’immagine che egli ha di se stesso. L’uomo moderno, e specialmente l’uomo contemporaneo, non si percepisce più come una unità e non si percepisce più come un essere coerente.
Non solo ha smarrito il senso della propria unitarietà, ma ha anche smarrito le ragioni per cui le sue componenti costituiscono un organismo vitale, efficiente, rivolto all’affermazione e quindi alla vita. Al contrario, l’uomo odierno sembra tutto concentrato nella negazione piuttosto che nell’affermazione. Egli percepisce come proprio “io” solo una piccola parte del suo vero essere, e quella sola parte la immagina come enormemente più grande di quella che è davvero; inoltre non riesce più ad armonizzare le componenti del suo organismo, la parte fisica con quella spirituale, questa con quella intellettuale, e questa, a sua volta, con quella morale. Non riesce a padroneggiare i suoi istinti, anzi molto spesso non comprende neppure perché i suoi istinti andrebbero padroneggiati, e lascia ad essi le briglie sciolte affinché lo conducano dove vogliono loro, disordinatamente e senza alcun progetto. Addirittura, molto spesso non riesce ad accordare in se stesse neppure la sua parte fisica, o la sua parte istintuale, o la sua parte intellettuale: in altre parole, dentro di lui gli organi combattono fra di loro, gli istinti si fanno la guerra, i pensieri si contraddicono e si contrastano vicendevolmente. Regna l’anarchia più totale, ma non è un’anarchia gioiosa (anche se talvolta pretende di crederlo e cerca di farlo credere agli altri), bensì un’anarchia dolorosa, nella quale l’uomo infligge a se stesso dei colpi tremendi, senza sosta, ed esce spossato da un cimento implacabile che lo vede comunque sconfitto, dato che nessuno può uscire vittorioso da una contesa inconcludente e distruttiva con se stesso.
Se Cristo non si fosse incarnato, non avremmo i capolavori dell’arte sacra, le Natività, le Madonne, le Crocifissioni; non avremmo i ritratti degli Apostoli, dei Santi, dei Martiri, delle Vergini e dei Beati: non avremmo nulla, come nulla dell’uomo vi è nell’arte islamica, perché, in quella cultura, rappresentare l’uomo, che è fatto a immagine di Dio, equivarrebbe a una mancanza di rispetto nei confronti del Creatore.
Tutto questo accade perché la civiltà moderna nasce come una rivolta deliberata contro Dio, e quindi l’uomo moderno ha volutamente obliato e rimosso le sue radici cristiane. Di conseguenza, si è scordato di quando, immerso nella prospettiva cristiana, era in pace con se stesso e sapeva affrontare con maggiore saldezza le difficoltà e le lacerazioni della vita; al contrario, gli è stato fatto credere, dalla cultura oggi dominane, che l’età cristiana, e specialmente il medioevo, sia stata caratterizzata da una così violenta repressione degli istinti, da aver sfigurato il suo essere naturale, sacrificandolo sull’altare di un irraggiungibile aldilà. Teniamolo bene a mente: quando un nuovo paradigma culturale si sovrappone a quello preesistente, vengono mobilitate tutte le arti della propaganda per convincere i membri della società che sono passati dal male al bene, dalle tenebre alla luce, dall’errore alla verità; e così è accaduto anche, e soprattutto, nel passaggio dalla civiltà cristiana alla sedicente civiltà moderna. Ma la verità è che nella visione cristiana l’uomo è posto come una totalità: nessuna delle sue componenti viene sacrificata a vantaggio delle altre, e tutte si armonizzano vicendevolmente, beninteso secondo una precisa gerarchia di valori, in base alla quale lo spirituale comanda all’intellettuale, l’intellettuale al morale, e il morale all’istintuale. Non è vero che la componente fisica viene ignorata e disprezzata, tanto è vero che il cristianesimo parla della resurrezione dei corpi, e come se non bastasse, parla di un Dio che si è incarnato ed è vissuto sulla terra soffrendo e morendo fra gli uomini, per mano di essi, per poi risorgere. Anche nell’induismo gli dèi si incarnano, ma prendono solo l’apparenza fisica, conservando tutta la loro potenza divina senza alcun residuo di umana fragilità. Inoltre, nelle altre religioni si parla della liberazione dal corpo. Nel buddismo, in particolare, il giudizio sul corpo e sulla vita materiale è talmente negativo che il ciclo delle rinascite svolge appunto la funzione di consentire il totale affrancamento da esso: il Nirvana equivale al superamento totale e definitivo della dimensione corporea.
L’uomo moderno sembra tutto concentrato nella negazione di se stesso, auto-condannatosi a una vita interiore di "Anarchia dolorosa", che lo sta portando all'autodistruzione.
È opportuno, per mettere meglio a fuoco ciò che si intende per uomo cristiano totale, riportare una pagina del grande filologo tedesco Erich Auerbach Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale (titolo originale: Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur, Berna, 1946; traduzione dal tedesco di Alberto Romagnoli e Hans Hinterhäusen, Torino, Einaudi, 1956), là dove commenta i caratteri di Farinata degli Uberti e di Cavalcante Cavalcanti nella Divina Commedia di Dante:
Nel nostro passo, vi sono due dannati, i quali vengono introdotti in stile illustre, e la cui personalità terrena è conservata con piena realtà nella loro dimora ultraterrena. Farinata è, come sempre, grande e superbo, e Cavalcante ama la luce del mondo e suo figlio non meno, anzi nel suo dubbio, più caldamente che in terra. Così ha voluto Dio, e così tutti questo s’inserisce nel realismo figurale della tradizione cristiana.Mai prima esso fu spinto tanto lontano; mai, forse nemmeno nell’antichità, è stata impiegata tanta arte e tanta potenza espressiva per raggiungere una tale intensità, quasi dolorosa, di rappresentazione della forma terrena dell’essere umano. Ciò è consentito a Dante appunto DALLA INDISTRUTTIBILITÀ CRISTIANA DELL’UOMO TOTALE, e proprio per averla espressa con tanta potenza e con tata realtà, egli aprì la strada all’autonomia dell’essenza terrena; egli creò nel mezzo del’aldilà un mondo di personaggi e di passioni terrene, che esce dalla cornice e diventa indipendente. La figura supera il compimento, o meglio, il compimento serve a dare ancora maggior rilievo alla figura. Si ammira Farinata e si piange con Cavalcante; quello che più,ci commuove non è che Dio li abbia dannarti, ma che l’uno si incrollabile e che l’altro provi un così acuto rimpianto del figlio e della dolce luce. La terribile condizione dei dannati serve soltanto quale mezzo per accrescere l’effetto di questo sentimenti del tutto terreni.
Dante, cristiano integrale, ha dell’uomo una visione integrale, che tutto abbraccia e nulla esclude: in questo senso, e solo in questo senso, si può anche dire che egli apre la strada all’autonomia dell’essenza terrena. Ma l’essenza terrena, per lui, è inimmaginabile al di fuori della relazione con Dio; l’uomo, per lui, semplicemente non ha senso, anzi non è neppure pensabile, prescindendo dalla relazione d’amore con il suo Creatore. .
Tralasciamo, in questa sede, le considerazioni propriamente estetiche dell’Auerbach e anche la sua convinzione che, nella Divina Commedia, il contesto religioso e morale sia “cornice” e che la realizzazione artistica dei personaggi e delle situazioni oltrepassi di molto tale cornice; cioè, in definitiva, che Dante apra la strada, forse inconsapevolmente, all’autonomia dell’essenza terrena nella cultura occidentale. Sono le opinioni di un dotto e geniale filologo, ma sono pur sempre opinioni; e, ai nostri occhi, hanno il torto di rammentare troppo da vicino la netta distinzione fra “poesia” e “non poesia” di crociana memoria, distinzione che non ci trova assolutamente d’accordo. A parte questo, dicevamo, ci preme qui evidenziare un fatto: che Dante, proprio perché poeta cristiano, e poeta cristiano dalla punta dei piedi alla radice dei capelli, è anche il vero poeta dell’uomo e della sua più profonda umanità; e questo accade appunto perché la visione cristiana, e solo la visione cristiana, ha una concezione totale dell’uomo, ossia una concezione che non trascura nulla, non disprezza nulla, vede e considera tutto, ogni aspetto, ogni impulso e ogni moto dell’anima, dal più basso al più alto; e, nondimeno, non lascia agli impulsi e ai moti interiori la libertà di disgregarsi a loro piacimento, ma impone ad essi la signoria della ragione naturale, in primo luogo, e della coscienza cristiana, in secondo luogo. Si noti come Dante si commuove e addirittura sviene davanti al dramma umano di Paolo e Francesca; ma se tale è la sua reazione umana, nondimeno egli non esita un momento a ritenere, e giudicare, che il loro peccato sia meritevole dell’inferno. E questa non è sovrastruttura, non è cornice, non è il contrario della poesia, ossia dottrina, ma è tutt’uno con la sua umanità, e anche con la sua commozione e la sua tenerezza quando parla con l’anima di Francesca. Dante, cristiano integrale, ha dell’uomo una visione integrale, che tutto abbraccia e nulla esclude: in questo senso, e solo in questo senso, si può anche dire che egli apre la strada all’autonomia dell’essenza terrena. Ma l’essenza terrena, per lui, è inimmaginabile al di fuori della relazione con Dio; l’uomo, per lui, semplicemente non ha senso, anzi non è neppure pensabile, prescindendo dalla relazione d’amore con il suo Creatore. Non si faccia di Dante un umanista ante litteram; la questione, del resto, è già stata ampiamente dibattuta, specialmente a proposito del XXVI canto dell’Inferno, quello del folle volo di Ulisse e dei suoi compagni verso l’ignoto; Dante non è un precursore degli umanisti, ma è, al contrario, il massimo dei poeti medievali. Perché, se lo mettano bene in testa i critici progressisti e neopositivisti, il medioevo non è stato affatto una stagione culturale e spirituale di mortificazione dell’uomo, ma, al contrario, la sola età della storia nella quale l’uomo ha trovato la sua piena e gioiosa affermazione nella realtà del cosmo. Prima, con le religioni pagane, egli era soggetto al capriccio degli dèi: era come le foglie al vento, che cadono e non lasciano traccia di sé; poi, con la cosiddetta civiltà moderna, è diventato una scheggia impazzita, un essere disancorato dalle proprie radici e totalmente alienato, smarrito in un cosmo (ordine) divenuto caos, cioè disordine incomprensibile e non più ricomponibile.
Per la mentalità moderna, rozzamente edonista e materialista, il corpo è fatto per il piacere, perché l’uomo è un animale puramente biologico, non è il figlio di Dio, fatto a immagine e somiglianza del suo Creatore; pertanto, il fatto che il cristianesimo predichi e insegni la pudicizia e la castità, viene interpretato come una forma di disprezzo e di censura nei confronti del corpo, ma la verità è esattamente all’opposto !
Da quanto abbiamo detto emerge che l’allontanamento dell’uomo occidentale dalla propria matrice cristiana ha coinciso con l’inizio della sua dissociazione, particolarmente dell’anima dal corpo, e quindi della sua crescente e irrimediabile infelicità. Lungi dall’aver mortificato il corpo, il cristianesimo lo ha nobilitato e santificato. Come dice san Paolo (1 Corinzi, 6, 9-19):
Non illudetevi: né immorali, né idolàtri, né adùlteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio.
E tali eravate alcuni di voi; ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio! «Tutto mi è lecito!». Ma non tutto giova. «Tutto mi è lecito!». Ma io non mi lascerò dominare da nulla. «I cibi sono per il ventre e il ventre per i cibi!». Ma Dio distruggerà questo e quelli; il corpo poi non è per l'impudicizia, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo. Dio poi, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza.
Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di una prostituta? Non sia mai! O non sapete voi che chi si unisce alla prostituta forma con essa un corpo solo? I due saranno, è detto, un corpo solo. Ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito. Fuggite la fornicazione! Qualsiasi peccato l'uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà alla fornicazione, pecca contro il proprio corpo. O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!
Soltanto l’uomo cristiano è l’uomo totale. Ossia una concezione che non trascura nulla non lascia agli impulsi e ai moti interiori la libertà di disgregarsi a loro piacimento ma impone ad essi la signoria della ragione naturale.
Soltanto l’uomo cristiano è l’uomo totale
di Francesco Lamendola
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