I gesuiti e il Tao: è sempre lo stesso schema. Bisogna fermarli: in che modo i gesuiti, sorti come "truppe scelte" della Chiesa e fedelissime al papa, si sono trasformati nella "mela infetta" che sta inquinando tutto il cesto ?
di Francesco Lamendola
Molti
si chiedono, ed effettivamente è la domanda del momento per chi abbia a
cuore le sorti della Chiesa, in che modo i gesuiti, sorti come truppe
scelte della Chiesa e fedelissime al papa, si siano trasformati nella
mela infetta che sta inquinando tutto il cesto, e abbiano avuto l’ardire
di porre uno dei loro sul seggio di San Pietro, cosa esplicitamente
vietata dal loro statuto, cambiando il loro ruolo di fedelissimi del
papa in quello di fedelissimi di se stessi e quindi di padroni assoluti
della Chiesa. Ora, per spiegare questa metamorfosi, questa deriva,
questa mostruosa sostituzione di ruolo e di prospettiva, non basta
risalire a Karl Rahner, né a Teilhard e Chardin, e neppure al cardinale
Désiré Mercier e alla Scuola di Lovanio; non basta risalire indietro
neppure fino al modernismo dei primi anni del ‘900, al gesuita George
Tyrrell, per esempio, che ne fu uno dei massimi animatori: bisogna
andare molto, ma molto più indietro.
Bisogna andare alla reducciones
del Paraguay e alle missioni in Asia, e specialmente alle celebri
controversie sui riti malabarici (indiani) e sui riti cinesi, cioè agli
inizi del XVI secolo, sotto il pontificato di Gregorio XV. C’è qualcosa,
e c’è sempre stato, nel modo d’intendere la fede e la predicazione del
Vangelo, da parte dei gesuiti, che doveva portare alle presenti
deviazioni e degenerazioni; e lo diciamo senza con ciò ignorare i gradi
mariti che i gesuiti hanno acquisito con il loro impegno e il loro zelo
apostolico, non di rado sacrificando la vita sulle croci fatte erigere
dall’imperatore del Giappone o al palo della tortura dei feroci Irochesi
nelle foreste del Canada. E ciò senza considerare, in questa sede, un
altro aspetto caratteristico della mentalità dei gesuiti o, se si
preferisce, della loro strategia di potere, cioè la tendenza all’intrigo
e ad insinuarsi subdolamente nei corridoi dei palazzi e delle regge,
onde esercitare pressioni di tipo politico servendosi del confessionale e
della direzione spirituale di principi e più ancora principesse,
reggenti, madri e consorti di sovrani.
I gesuiti e il Tao: è sempre lo stesso schema.
Nel
loro modo di evangelizzare e nella loro concezione della fede cattolica
vi è, probabilmente, un difetto d’origine: una tendenza a
intellettualizzare e a razionalizzare la relazione fra l’uomo e Dio e,
al tempo stesso, una specie di intima convinzione che a loro, e a loro
soltanto, spetta fissare gli strumenti idonei per diffondere la fede
presso i non cattolici; pretesa che, nel mondo post-cristiano del XX e
XXI secolo, si riflette nel modo di relazionare la Chiesa con il mondo,
che è, appunto, un mondo desacralizzato. Il nodo della questione,
secondo noi, consiste in questo: che la Chiesa, a giudizio dei gesuiti
moderni, deve farsi mondo, cioè deve abolire le distanze fra
l’annunzio e colui al quale si annunzia; la Chiesa deve farsi tutt’uno
con il mondo, per meglio capirlo, raggiungerlo, parlare una lingua che
gli sia comprensibile, e se possibile familiare. Insomma la radice della
deriva ereticale dei gesuiti risiede nella convinzione, da essi
maturata nell’arco non di qualche anno, o decennio, ma di almeno quattro
secoli, è l’idea che il fine giustifica i mezzi: che per raggiungere la
gente, bisogna adattare il Vangelo alla gente; e che non è l’uomo che
deve innalzarsi, con personale impegno e sacrificio, verso la Verità,
che è Gesù Cristo, ma è il Vangelo che deve essere calato in situazione,
che deve prendere le misure degli uomini, secondo il particolare tempo e
luogo in cui ci si trova. Ecco cosa pensava Pedroo Arrupe, preposito
generale dei gesuiti dal 1965 al 1983 (in realtà fio al 1981, perché
colpito da un ictus e sostituito da un commissario papale), cioè negli
anni cruciali per la definitiva deriva apostatica dell’ordine, alla
quale lui personalmente non fu certo estraneo (cit. in: Carl Bernstein e
Aldo Politi Sua Santità. Giovanni Paolo II e la storia segreta del nostro tempo (Milano, Rizzoli, 1996, pp. 434-435):
Temo
che stiamo per proporre le risposte di ieri per affrontare i problemi
di domani, che stiamo parlando in modo tale che la gente non ci capisce
più, che usiamo un linguaggio che non arriva dritto al cuore degli
uomini. Se è così, allora parleremo molto, ma solo a noi stessi. Infatti
nessuno ci ascolterebbe più, perché nessuno capirebbe quello che
cerchiamo di dire.
Perche
i gesuiti hanno avuto l’ardire di porre uno dei loro sul seggio di San
Pietro, cosa esplicitamente vietata dal loro statuto, cambiando il loro
ruolo di fedelissimi del papa in quello di fedelissimi di se stessi e
quindi di padroni assoluti della Chiesa?
La
pretesa di adeguare il messaggio cristiano alle culture sociali e anche
religiose dei popoli asiatici, come accadde in Cina e in India, con le
conseguenti controversie teologiche già ricordate, nasce da questa idea
fondamentale: che la Chiesa deve andare incontro al mondo sino a farsi
mondo lei stessa. Anche la pretesa di trasformare le reducciones
del Sud America in altrettanti laboratori teocratici, nei quali loro, i
gesuiti, e loro soltanto, sanno e stabiliscono quale sia la maniera
giusta di annunciare il Vangelo, anzi, quale sia la maniera giusta di
relazionarsi con gli indios, ad esclusione di tutti gli altri europei e
perfino di tutti gi altri sacerdoti e ordini religiosi, nasce dallo
stesso terreno: un terreno reso fertile dalla superbia intellettuale,
unita a una spinta evangelizzatrice che non guarda troppo per il sottile
quanto alla dimensione dottrinale e teologica, ma che punta a ottenere
il massimo risultato in termini quantitativi e formali di conversione.
Al tempo stesso, questo approccio pastorale ha sempre permesso ai
gesuiti di sentirsi speciali, in quanto più sensibili alle realtà
concrete dei popoli presso i quali svolgevano la loro opera missionaria;
di farli sentire migliori, più intelligenti, più lungimiranti, più
duttili, più abili, insomma complessivamente più capaci di chiunque
altro di stabilire cosa sia buono e giusto e opportuno nel modo di
porgere il Vangelo di Gesù ai non cristiani e ai non cattolici, e cosa,
invece, non lo sia: tanto più che i risultati pratici parevano dar loro
ragione. Ma il punto, nell’annunzio del Vangelo, è sempre quello:
decidere se la cosa più importante è convertire più gente possibile,
oppure convertire le persone in modo pienamente conforme alla Verità.
Scriveva lo storico della cultura austriaco René Fülop-Miller nel suo celebre libro Il segreto della potenza dei gesuiti (tr. italiana Milano, Mondadori, 1931; riduzione adattamento in: Oddone Ortolani-Mario Pagella, Il tempo e le opere. Corso di storia per la Suola media, Firenze, Le Monnier, 1967, pp. 206-207):
La
legge suprema della Cine era il Teo, la legge dell’universo, secondo la
quale si muovevano gli astri, i fili d’erba spuntavano dal suolo, gli
alberi si coprivamo di foglie, mormoravamo i ruscelletti e i mari
passavano dal flusso al riflusso.
L’imperatore,
secondo i cinesi, aveva avuto dagli dèi l’incarico di governare e
dirigere il popolo, in modo che il Tao umano stesse in armonia con il
Tao celeste e a tal fine il sovrano doveva munire di anno in anno il suo
popolo di un giusto calendario.
L’imperatore
aveva ordinato già da lungo tempo la pubblicazione di un libro
indicatore dei tempi e da allora non era passato anno senza che
l’imperiale tribunale della matematica non avesse fatto degli accurati
calcoli astronomici.
Nel
calendario tutto quel che convenisse fare o non fare era fissato. Così
erano segnati in rosso e in nero i giorni e le ore favorevoli o
sfavorevoli per i lavori dei campi, per la conclusione dei matrimoni,
per il cambio di abitazione, per le riparazioni alle navi, per la
caccia, per il pascolo, per le sepolture e le esecuzioni capitali.
Ora
accadeva ormai da molti anni che il raccolto andasse male, che i
ministri governassero nel proprio interesse e rubassero come corvi.
L’imperatore non riusciva più a fari obbedire, perché dappertutto c’era
grande fermento.
L’imperatore,
altamente preoccupato, si consultava notte e giorno coi suoi ministri
sul odo di impedire il disastro che si avvicinava e non sapendo più come
salvarsi si rivolse alla fine anche ai gesuiti. I padri rifletterono a
lungo, fecero delle misurazioni, coprirono di calcoli lunghe strisce di
carta e constatarono alla fine che il tribunale della matematica nel
fissare il calendario era caduto in un errore grossolano: i calcoli
astronomici erano sbagliati ormai da lungo tempo.
Quest’annuncio
gettò la corte nella più nera costernazione. Vi furono naturalmente dei
mandarini che si levarono a difendere la tradizione e a protestare la
critica che preti stranieri osavano fare ad istituzioni antichissime;
ma ben presto fu il cielo stesso che s’incaricò di testimoniare in
favore dei gesuiti.
In
Cina le eclissi solari venivano considerate come fenomeni di
straordinaria importanza; l’imperatore doveva essere preavvisato già un
mese prima e tutti gli altri mandarini con le insegne della loro
dignità dovevano radunarsi a tempo debito nel cortile del tribunale
astronomico. Ora i gesuiti avevano predetto per un dato giorno una
eclissi solare, fissando addirittura l’ora in cui doveva cominciare il
fenomeno, e ciò senza che nel calendario ci fosse la minima indicazione
al riguardo.
All’ora
predetta il disco solare cominciò ad oscurarsi e tutti i dignitari si
gettarono in terra, conforme il cerimoniale, colla fronte rivolta al
suolo e in tutta la città risuonò il rullo dei tamburi; i gesuiti
avevano guadagnato la partita per lungo tempo, giacché era dimostrato
che il metodo di calcolo degli astronomi cinesi non serviva, e che il
calendario, secondo il quale era stato governato l’impero, era proprio
sbagliato.
La
pretesa di adeguare il messaggio cristiano alle culture sociali e anche
religiose dei popoli asiatici, come accadde in Cina e in India, con le
conseguenti controversie teologiche già ricordate, nasce da questa idea
fondamentale: che la Chiesa deve andare incontro al mondo sino a farsi
mondo lei stessa.
Questo
episodio ci sembra esemplare di un certo modo d’intendere la missione, e
più in generale la pastorale, da parte dei gesuiti: che si tatti della
Cina del XVII secolo o delle periferie post-cristiane dell’Europa
odierna, il ragionamento non cambia. I gesuiti pensavano, e pensano
tuttora, di avere ogni diritto a sfruttare le loro conoscenze e la loro
cultura per varare un aggiornamento pastorale che corrisponde, in
pratica, alla inculturazione del cattolicesimo nei diversi ambiti
storico-sociali nei quali ci si trova. Perciò ai cinesi si predica un
Vangelo compatibile col culto locale dei defunti, e si dà al Dio
cristiano un nome equivalente al concetto cinese di divinità, anche se
ciò significa giocare sul filo dell’equivoco e lasciar credere ai
convertiti cinesi quel che non è, vale a dire che fra Gesù Cristo e la
vita eterna in senso cristiano, e le loro precedenti credenze confuciane
o taoiste o buddiste, non c’è alcuna differenza decisiva. In questo
modo i cinesi diventano cattolici, si fa per dire, pur seguitando a
restare quel che erano: non c’è una rottura con le loro credenze di
prima della conversione: l’uomo nuovo cristiano s’innesta direttamente
sull’uomo vecchio e convive con lui. Allo stesso modo, oggi i gesuiti
dicono ai protestanti che possono far la Comunione, se sono sposati con
un cattolico, in nome dell’ecumenismo; agli ebrei che non hanno alcuna
necessità di convertirsi, perché l’Antica Alleanza è sempre valida e
loro sono sempre il popolo eletto; agli islamici che non occorre che si
convertano, perché Dio stesso vuole l’esistenza delle diverse religioni e
il papa ha baciato il Corano, senza contare che siamo tutti –
cristiani, ebrei e islamici – discendenti di Abramo e abbiamo in comune
la fede nel Libro (ma quale Libro, poi: sempre lo stesso?); agli
omosessuali, che possono praticare l’omosessualità, anche nel caso siano
dei sacerdoti, perché Dio ci vuole felici e “realizzati”; ai
divorziati, ai separati, a quelli che hanno praticato l’aborto, che ciò
non pregiudica l’amore di Dio e la misericordia di Dio, perché Dio sopporta i nostri peccati, come dice volentieri il signor Bergoglio; e soprattutto perché Dio non è cattolico:
la sua affermazione forse più scandalosa, eppure perfettamente in linea
con la “pastorale” dei gesuiti, da molto tempo. Era logico che si
sarebbe arrivati a questo punto; la sola cosa veramente nuova, ma
anch’essa, in fondo, a ben considerare, prevedibile, è che i gesuiti a
un certo punto, abbiano sentito la necessità d’impadronirsi direttamente
del vertice della Chiesa, piazzando uno dei loro sulla cattedra di San
Pietro. Bisognava imporre alla Chiesa tutta, schiacciando le ultime
resistenze e spazzando via le ultime perplessità, il nuovo corso: quello
dell’annuncio di un Dio non cattolico. E il Vangelo di Gesù Cristo, a
questo punto, che cos’è, cosa ne rimane? Perché nel Vangelo, fino a
prova contraria, si parla di un Dio cattolico; in esso Gesù Cristo dice
di Se stesso: Io sono la via, la verità e la vita. Non dice: io e Confucio; né: io e il Tao; e nemmeno: io e Maometto. Dice anche, fino a prova contraria: Io sono nel Padre e il padre è in me; e chi ha visto me, ha visto il Padre; e nessuno può venire al Padre se non per mezzo di me.
Ora, che ne facciamo di tutte queste affermazioni, nell’era del
gesuitismo al potere? Semplice: le gettiamo nel cestino della carta
straccia. Un gesuita di primo piano, il nuovo generale dopo l’elezione
di Bergooglio, Sosa Abascal, l’ha detto chiaro e tondo: noi non sappiamo
cosa disse realmente Gesù, perché ai suoi tempi non c’erano i
registratori. Il messaggio è chiaro: il cristianesimo è tutto da
riscrivere. Smitizzando, storicizzando, razionalizzando. E il buon Sosa,
coerentemente, ha dato subito l’esempio, affermando che il diavolo è
solo un’immagine simbolica del male, non esiste come persona. È partito
da dove era più facile: che importanza può fare quel brutto tipo del
diavolo? Ma fra poco arriveranno molto più in alto, fino a Gesù Cristo; e
qualcuno ci è già arrivato: Cristo? Era solo un uomo: parola di Enzo
Bianchi. E il gesuita Bergoglio non nega, tutt’altro; anzi sorride, e
dice che Bianchi è uno dei suoi teologi più cari (l’altro è anche’esso
un eretico conclamato, Walter Kasper).
I
gesuiti sono completamente fuori controllo: i loro capi, quanto meno,
che hanno ben chiaro in mente dove vogliono arrivare. Sono pericolosi.
Bisogna fermarli, prima che riescano a provocare danni irreparabili.
I gesuiti e il Tao: è sempre lo stesso schema
di Francesco Lamendola
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