Quando inizia la deriva dei gesuiti? 4 secoli fa: con il caso di Daniello Bartoli. I gesuiti hanno sempre mostrato la tendenza a voler assorbire le ultime novità della "cultura profana": lo chiamano dialogo con il mondo moderno
di Francesco Lamendola
I gesuiti, lo abbiamo affermato più volte, sono diventati il cuore della macchina di auto-distruzione della Chiesa che sta accelerando ogni giorno la sua opera sinistra e che sta conducendo allo sbando, cioè nell'apostasia, tanto più grave in quanto inconsapevole, milioni e milioni di anime. Pertanto è di fondamentale importanza capire come questo sia avvenuto e quando abbia avuto inizio. Molti pensano: con il pontificato di Bergoglio. Altri pensano: no, con il Concilio Vaticano II e la “svolta antropologica” diKarl Rahner. Altri risalgono ancora più indietro: ai pasticci teologici di Teilhard de Chardin e al favore con cui furono accolti, nonostante le perplessità e le reazioni negative della parte ancora sana dell'ordine. Altri, infine, ritengono che la deviazione dall'ortodossia cattolica si sia iniziata ai primi del Novecento, con il modernismo: dopotutto, dicono, George Tyrrell era un gesuita, benché poi sia stato espulso dall’ordine e scomunicato.
Il gesuita Daniello Bartoli (1608-1685)
Ebbene, a nostro parere la deviazione ha avuto principio molto, ma molto prima: quattrocento anni fa. Il che vuol dire quasi fin dall'inizio dell'ordine. E ci proponiamo di illustrarlo attraverso un caso emblematico, quello del padre Daniello Bartoli (1608-1685), che il Leopardi considerava come il più grande prosatore del Seicento e uno dei maggiori prosatori di tutta la letteratura italiana. Naturalmente, in questa sede non ci interessano le sue doti letterarie, delle quali peraltro ci siamo occupati in altre occasioni; qui ci interessa il gesuita Bartoli, e precisamente la sua concezione del mondo e della relazione fra uomo e Dio. E per averne un'idea adeguata, non interroghiamo i suoi scritti specificamente religiosi, e neppure quelli di ordine storico, apologetico ed edificante, ai quali è legata la sua celebrità; bensì quelli di natura scientifica. Perché il Bartoli, come tanti altri suoi confratelli, nutriva spiccati interessi scientifici oltre che letterari, coltivati non solo per mezzo di letture, ma anche con esperimenti diretti, ai quali aveva almeno assistito; stimava e ammirava Galilei, da lui definito "quel grand'uomo", e condivideva l'entusiasmo per la scienza che è la caratteristica saliente del XVII secolo, ed è come l'altra faccia della lussureggiante sensibilità barocca. L'atteggiamento scientifico di Bartoli è caratterizzato dalla percezione dell'universo come una grande macchina, e di Dio come l'artefice di tale macchina; e così come la macchina desta in noi stupore e meraviglia (la meraviglia essendo anche la chiave di lettura di tutta la poetica barocca, intesa come volontà di suscitare il massimo stupore nei lettori), così non possiamo non provare uno stupore e una meraviglia ancor più grandi al pensiero dell'autore di tale immenso e articolatissimo meccanismo. Né si tratta solo di un pensiero astratto, ma di una vera e propria conoscenza: un "trovare" Dio nella perfezione delle macchine da lui create (cose, piante e animali, uomo compreso). Ciò ricorda la pretesa galileiana che Dio, in fatto di matematica, abbia le stesse opinioni, e anzi addirittura professi le stesse certezze e giunga alle medesime verità, cui può giungere l'uomo, attraverso la corretta applicazione del metodo matematico (come affermato nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo). Ma se l'universo è una macchina, e se anche l'uomo è una macchina, allora il meccanicismo prende il posto del finalismo, perché una macchina non ha un fine, ma solo dei compiti da svolgersi, secondo l'intenzione con cui è stata costruita. Ma se l'uomo è una macchina, che posto ha in lui la vita dell'anima? E se Dio è un costruttore di macchine, che posto ha l'amore nel disegno della creazione? E se la vita umana funziona come un meccanismo ben oliato, dove va a finire e a cosa serve il libero arbitrio, la capacità di discernere fra il bene e il male? Perché, per una macchina, bene è ciò che essa esegue secondo l'intenzione dell'artefice, male ciò che non sa eseguire. Ma la salvezza eterna è una questione meccanica? E che parte ha in questo meccanismo il mistero della divina Incarnazione del Verbo? E che ruolo svolge il mistero della Santissima Trinità?
Il gesuita George Tyrrell
Osservava un grande critico letterario, Giovanni Getto, nella sua raccolta di saggi Barocco in prosa e in poesia (Milano, Rizzoli, 1969, p. 467):
Nell'introduzione al trattato "Del ghiaccio" il Bartoli lascia comprendere qual è la sua visione del mondo: "Una sì gran machina com'è tutto il mondo, anzi in lui tante machine così ben disposte, così strette incatenate quante sono le parti che si adunano a comporlo, tutte di tanta forza e tutte in opera...". E abbiamo visto come il Bartoli parli dell'"impareggiabile machina" del corpo umano e della "maravigliosa machina dell'orecchio". E a proposito di un insetto, sempre in quel trattato, esclama: "Quante machine sono adunate in un animaluccio d'un atomo, o d'un punto, e ordinate ad organizzarlo!". Perfino e piante si configurano come macchine: "Chi dunque spiasse dentro al corpo d'un albero, che al di fuori non dà apparenza d'opera studiata, rimarrebbe attonito al vedere i tanti ordigni, che tutti a luogo, con ordine troppo ben inteso disposti, variamente lavorano. Machine spirituali, condotti d'acqua e canaletti d'aria; ricettacoli e conserve, dove raccogliere e digestir l'umore; scolatoi per dove scaricarne il soverchio o scolarne il dannoso.". Insomma la parola "machina" diventa nel nostro autore una parola tematica, il simbolo di una particolare intuizione del mondo. Tale visione porta con sé la certezza di una divina presenza operante, di un Dio creatore, di una "divinità ingegnera", come si esprime il Bellini. Le cose sono infatti "fatture di propria mano del divino artefice, lavorate con tanto studio e con tal magistero di sapienza e d'arte che vi si scuopre dentro visibile il maestro", un maestro che è facile riconoscere "grande ne' gran lavori", e nei piccoli "niente men grande o maggiore". Sicché, conclude il Bartoli, "io m'ardisco a dire che chi ben intende quel che ha dentro di sé la piccolissima sera d'un occhio, vi truova più da stupire che nel grandissimo cerchio de' cieli; e nel globo d'un pomo vede un lavoro di più misterioso artificio che nel corpo del sole". Ebbene, l'assunzione del modello 'macchina' per la spiegazione e comprensione dell'universo fisico", l'immagine di Dio come ”artefice”,, lo stesso riconoscimento della dignità dell'operazione sperimentale, sono tutti elementi che comprovano un nuovo modo di considerare la tecnica e la scienza giunto a maturazione nel Seicento.
Gesuiti protagonisti al Concilio Vaticano II: Karl Rahner, Henri-Marie de Lubac e Pedro Arrupe
Senza dubbio: ma anche e soprattutto un nuovo modo di considerare Dio! Questo continuo paragonare le cose, le piante e gli animali, la stessa persona umana, a delle macchine; e, di conseguenza, paragonare il loro autore ad un "artefice", segna una rottura vera e propria con secoli e secoli di teologia cristiana. Mai, nel pensiero dei Padri della Chiesa e dei grande teologi, San'Agostino, san Tommaso d'Aquino, per non parlare di San Paolo e degli autori del Nuovo Testamento, mai si era visto fare un simile paragone; mai Dio era stato paragonato a un artiere, e le sue creature a delle macchine; neppure nei libri dell'Antico Testamento, e specialmente nei Salmi, ove si esalta la potenza creatrice di Dio attraverso la magnificenza delle sue opere. Nel Cantico delle creature san Francesco enumera le bellezze del creato, riconducendole sempre allo splendore di Dio: anche in questo caso non vi è nulla di meccanico, nulla che richiami al massonico Grande Architetto dell'universo. Ciò che manca, nella similitudine dell'artefice, è la dimensione dell'amore: vediamo la sapienza divina, vediamo l'ingegno, vediamo l'ordine, vediamo la potenza, ma non vediamo l'amore. Questo Dio tanto ammirato dal Bartoli è un Dio generico, astratto, buono per tutte le culture e per tutte le stagioni; non ha nulla di specificamente cristiano, tanto meno di cattolico. Si dirà che l'ammirazione per le macchine e la tendenza ad abusare delle metafore sono aspetti caratteristici della civiltà barocca, e che Bartoli si lascia semplicemente prendere un po' la mano dai gusto del suo tempo. Vero, verissimo: ma proprio qui sta il male. Non stiamo parlando solo della natura, ma di Dio. Galilei aveva già introdotto la visione meccanicista della natura: nel Saggiatore, la cicala che viene vivisezionata per scoprire l'origine del suono prodotto da essa non è che uno strumento, uno strumento musicale, che può essere scomposto e smontato pezzo per pezzo, per capire in che modo funziona. Ora il Bartoli inferisce dalla visone meccanicistica della natura una visione meccanicistica di Dio: ma questo significa già un allontanarsi dalla retta dottrina e dal Magistero della Chiesa. E per la meno nobile delle ragioni, cioè per la superbia intellettuale. Gonfi d’orgoglio per aver dato alla Chiesa più astronomi, più matematici, più storici, più filologi e più eruditi di qualunque altro ordine religioso, i gesuiti, pur essendo arrivati per ultimi, si ritennero liberi d’introdurre nella teologia cattolica un nuovo paradigma, assolutamente contrastante non solo con quello tomista di matrice aristotelica, ma con la stessa concezione cristiana del mondo: il paradigma meccanicista, mutuato dalla rivoluzione scientifica di Francesco Bacone, Cartesio, Galilei, Leibniz e Newton. Il paradigma cristiano e cattolico è finalista, non meccanicista; le cose sono ordinate da Dio ad un fine e l’uomo più di tutte le altre, essendo una creatura dotata di ragione e di libero arbitrio, non sono pezzi d’un ingranaggio che rispondono a una inesorabile necessità naturale. Il meccanicismo è un paradigma tendenzialmente materialista, perché riduce al minimo lo spazio del libero arbitrio e praticamente a zero il rullo del soprannaturale: che c’entra la vita del’anima, con il meccanicismo? E che c’era la Grazia, che c’entra la Redenzione, che c’entrano la risurrezione della carne, il Giudizio finale e la vita eterna?
Il gravissimo errore teologico che caratterizza i Gesuiti è l'adattamento della "verità eterna" alle capacità di comprensione contingenti e relative degli esseri umani. La disponibilità ad adattarsi e ad "aggiornarsi" non sono pregi, ma difetti, e difetti estremamente gravi!
D'altra parte, qui traspare un altro aspetto tipico dell'atteggiamento mentale dei gesuiti, sin dal loro inizio: la duttilità, la capacità di adattarsi alle situazioni, di assorbire i paradigmi culturali nuovi o diversi (si pensi alla loro attività missionaria in India e in Cina e alla disinvoltura nell'adattare la predicazione del Vangelo agli usi e alle credenze locali), il che può sembrare un pregio solo se si prescinde che dal fatto che la posta in gioco, per così dire, è la Verità divina. Per quanto riguarda quest'ultima, la disponibilità ad adattarsi e ad "aggiornarsi" non sono pregi, ma difetti, e difetti estremamente gravi. Infatti passa il principio che Dio non è Dio, ma è quel Dio che io posso cogliere, con gli strumenti intellettuali che mi sono dato qui e ora, in questo particolare momento, in questo particolare luogo. Domani cambieranno gli strumenti, cambieranno i paradigmi, e Dio per me diverrà qualcos'altro. No: qui siamo in presenza di un gravissimo errore teologico: l'adattamento della verità eterna alle capacità di comprensione contingenti e relative degli esseri umani. Ma se le cose stano così, perché mai Dio si è dato la pena di rivelarsi agli uomini? perché il Verbo si è incarnato, è vissuto fra noi, è morto ed è risorto? Perché ha fondato la sua Chiesa, perché ha dato precise istruzioni ai suoi apostoli, su come predicare e battezzare per annunciare il Vangelo? Poteva risparmiarsi la fatica: dopotutto, ogni uomo e ogni epoca hanno la loro percezione del divino; il nucleo della Verità è troppo al di sopra delle nostre capacità: possiamo solo affidarci a quel che di Lui noi possiamo vedere e capire. Oggi il dilagare della mentalità scientifica ci induce a paragonarlo a un fabbricante di macchine; domani, quando sarà cambiato il paradigma, lo vedremo in un'altra maniera. Ma il Vangelo, cosa ci sta a fare? La vita e la morte di Gesù, le sue Parole, a che cosa sono servite?
I gesuiti, oggi con al vertice un loro "confratello", sono diventati il cuore della macchina di auto-distruzione della Chiesa che sta accelerando ogni giorno la sua opera sinistra e che sta conducendo allo sbando, cioè nell'apostasia!
Quando inizia la deriva dei gesuiti? Quattro secoli fa
di Francesco Lamendola
continua su:
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.