(Julio Loredo, ATFP – febbraio 2019) Il pontificato di papa Francesco è stato puntellato da gesti clamorosi che hanno scardinato dottrine, pratiche e strutture finora ritenute consustanziali alla Chiesa. Egli stesso ha definito questa linea come un “cambio di paradigma”, cioè una netta cesura con la Chiesa prima di lui.
Ecco un nuovo gesto clamoroso, che potrebbe scombussolare tante cose.
Nel relativo silenzio dei media europei (quelli latinoamericani ne parlano un po’ di più), il Pontefice ha convocato un’Assemblea speciale del Sinodo dei Vescovi per la Regione panamazzonica, che avrà luogo a Roma nel mese di ottobre. L’Assemblea coinvolgerà i vescovi dei paesi che comprendono i territori amazzonici: Brasile, Perù, Colombia, Ecuador, Venezuela e Bolivia. Ai quali si sommeranno osservatori di altri paesi.
A tal fine, si è costituita la Red Amazónica Eclesial (Repam), un coordinamento di strutture ecclesiali latinoamericane, con sede a Quito, in Ecuador. Rappresentanti della Repam sono in contatto permanente con le Conferenze episcopali europee, nonché con organismi dell’Unione Europea, per promuovere il Sinodo nel Vecchio Continente.
“Scopo principale di questa convocazione è individuare nuove strade per l’evangelizzazione di quella porzione del Popolo di Dio, specialmente degli indigeni, spesso dimenticati e senza la prospettiva di un avvenire sereno, anche a causa della crisi della foresta amazzonica, polmone di capitale importanza per il nostro pianeta”, ha detto il Papa nell’Angelus del 15 ottobre 2017.
Di per sé, l’idea di convocare un Sinodo per promuovere l’evangelizzazione dei popoli indigeni dell’Amazzonia sarebbe encomiabile. Essi sono, infatti, una porzione del Popolo di Dio che deve ricevere la Buona Novella. Purtroppo, già nel breve testo della convocazione si possono scorgere almeno due elementi che destano non poca preoccupazione, specialmente nella logica del “cambio di paradigma”.
Si parla di “nuove strade per l’evangelizzazione”. Che cosa intende Francesco per “nuove”?
Le “antiche” strade cominciano nel secolo XVI, con l’evangelizzazione degli indigeni per opera dei missionari spagnoli e portoghesi, fra cui alcuni canonizzati: S. Toribio de Mogrovejo, S. Francisco Solano, S. José de Anchieta, S. Pedro Claver, S. Roque González de Santa Cruz, S. Pedro de San José de Betancur, S. Luis Beltrán, S. Felipe de Jesús e tanti altri.
Lo scopo di questa “antica” evangelizzazione era molto chiaro: annunciare a questi popoli la Buona Novella di Gesù Cristo, battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, conducendoli così nel grembo di Santa Romana Chiesa, all’interno di quell’immensa famiglia spirituale che configura la Civiltà cristiana. Con ragione papa Pio XII la definì “la più grande epopea missionaria dopo la fondazione della Chiesa”.
Da qualche decennio, però, è sorta una nuova corrente che contesta radicalmente tal evangelizzazione. Gli indios, dicono i seguaci di questa corrente, non hanno nessun bisogno di essere ammaestrati. È vero proprio il contrario: sono loro che ci devono ammaestrare. Non dobbiamo assolutamente portarli nel grembo della Chiesa. Anzi, è la Chiesa che deve adattare la sua dottrina, le sue pratiche e le sue strutture ai modi indigeni. D’altronde, non possiamo imporre agli indios il nostro concetto di Civiltà cristiana. Siamo noi che dobbiamo imparare dal loro modello tribale, più “innocente”, più “equo”, più “solidale” e per niente “consumista”.
Questa corrente – che si usa chiamare “indigenista” – ha perfino sviluppato una teologia: la “Teologia indigenista della liberazione”, o semplicemente “Teologia indigenista”.
I seguaci della corrente indigenista si stanno già mobilitando in tutta l’American Latina, e anche in Europa. Il Sinodo panamazzonico è un’occasione troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. Annidati nei dipartimenti delle varie Conferenze episcopali, coordinati dalla Repam, costoro stanno già preparando gli schemi, pubblicando testi base e organizzando la propaganda mediatica. Un po’ come fecero i progressisti in occasione del Concilio Vaticano II.
Sarà questo indigenismo che papa Francesco intende promuovere quando parla di “nuove strade per l’evangelizzazione”? Se non è ciò che intende, avrà messo allora in atto dispositivi per frenare o neutralizzare l’azione deleteria degli indigenisti? Oppure, col suo laissez faire, sta loro servendo in un vassoio d’argento l’occasione?
Un secondo elemento che desta preoccupazione è la menzione alla “crisi della foresta amazzonica, polmone di capitale importanza per il nostro pianeta”. Prima di tutto, questo è un dato scientificamente discutibile. La foresta amazzonica ha un denso sottobosco di materia in putrefazione che consuma di notte l’ossigeno prodotto durante il giorno. L’unico modo di farla diventare un vero polmone sarebbe ripulirla, cioè far intervenire l’uomo. Proprio ciò che gli ambientalisti non vogliono.
L’ambientalismo radicale va a braccetto con l’indigenismo, secondo cui gli indios sarebbero i custodi di antichissime conoscenze per la conservazione della natura. Proprio tale ambientalismo radicale serpeggia nell’enciclica Laudato Sii, che gli indigenisti sbandierano come una sorta di manifesto o programma.
A latere di queste due preoccupazioni centrali, sorgono altre domande:
– si vuole manomettere la liturgia, con il pretesto di adattarla alla mentalità e alla tradizione indigena;
– si vuole cambiare la disciplina ecclesiastica in materia di celibato, creando la figura dei preti amazzonici sposati;
– si vuole manomettere la struttura organica della Chiesa, creando una rete di comunità indigene, piuttosto che parrocchie, presentate poi come modello per la Chiesa universale.
All’orizzonte spunta l’utopia di una nuova Chiesa tribalista ed ecologista, vecchio progetto del progressismo latinoamericano, denunciato da Plinio Corrêa de Oliveira già nel lontano 1976. Solo che questa volta è promosso dal cuore della Cristianità.
Torneremo sull’argomento.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.