Nel saggio I diritti dell’uomo e la legge naturale Jacques Maritain riteneva i diritti umani una trasposizione secolare della legge naturale[1], e perciò compatibili con la visione cristiana dell’uomo nei suoi rapporti con la società, lo Stato e Dio. Il libro venne scritto nel 1948, poco prima della pubblicazione della Dichiarazione universale dei diritti umani da parte dell’ONU, la cui preoccupazione principale era evitare il ripetersi degli eccidi e degli orrori della seconda guerra mondiale; tale documento si situa nel solco della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Sebbene parte dei contenuti di tali carte dei diritti sia materialmente simile al decalogo e alla visione cristiana del bene comune e della legge naturale, a livello formale c’è un abisso tra quest’ultima e la visione moderna o postmoderna dei diritti umani, che la storia della secolarizzazione ha mostrato apertamente e tragicamente.
Ciò è di fondo dovuto all’aver perso di vista il Bene, superiore, precedente e fondativo rispetto all’uomo e al mondo i quali di esso partecipano, per sostituirlo con una visione immanente che punta a dei beni di questo mondo e sottintende una visione dell’uomo chiusa al trascendente. Muoversi all’interno di questi paletti ha portato alla secolarizzazione dello Stato e a cascata dell’intera società e sfera pubblica.
La dichiarazione del 1789 aveva volutamente tolto ogni riferimento al trascendente nei suoi articoli, in quanto la citazione dell’Essere supremo nel preambolo è del tutto estrinseca, e si limita a chiamarlo come testimone e non come fonte dei diritti o legislatore. Questo perché “il cielo si portasse in terra” ed “alfine la felicità diventi un diritto, la cui idea si sostituisca a quella di dovere”[2]. Come nota Estanislao Cantero Nuñez “a quel fine erano sufficienti i lumi della ragione […] perché ci sono solo verità naturali, cosi come spiegò Hazard”[3]. Tolto ogni riferimento al Bene superiore, l’uomo può fondare la sua felicità solo in ciò che è immanente in natura o nel proprio animo, e quindi solo in essi trovare il proprio bene e da lì costruire una società organizzata intorno ad un “bene comune”. In tale ottica quest’ultimo risente della pluralità di giudizi che si può dare in base a infiniti fattori e inclinazioni che portano a riconoscere un bene da perseguire in qualcosa di non condiviso (o addirittura avversato) da altri. Oltre a ciò, lo Stato si ritrova a non dover rendere conto del suo operato a nulla che lo preceda o che lo trascenda, limitandosi nel migliore dei casi a fare da arbitro in giochi di forza (per fini elettorali), mentre nel peggiore diventa esso stesso attore e diffonde una ideologia in proprio. Poiché in base all’articolo sesto della Dichiarazione del 1789 la legge “è l’espressione della volontà generale” quest’ultima può essere recapita o guidata da potere. In ogni caso, cosa è “bene comune” viene stabilito per legge dal potente di turno, il quale avrà anche il dovere di metterlo in atto.
Vi è inoltre un ulteriore mutamento che ha portato alla definizione dei diritti umani, uno slittamento semantico del termine diritto, il quale venendo ad essere ancorato ad una visione antropocentrica ha perso ogni legame con un bene oggettivo che si possa situare fuori dell’individuo. Togliere ogni legame con il Bene trascendente ha finito con il recidere i rapporti con ogni tipo di bene, anche naturale; tale passaggio è avvenuto anche per motivi strutturali: chiuso l’uomo e il suo intelletto nell’immanenza la ragione non può trovare il bene come troverebbe un qualunque ente o una verità naturale, poiché di quale realtà materiale si può dire “è bene in sé”? Dato che il bene non viene visto dalla mente come una qualunque realtà di questo mondo, chiudere l’intelletto nell’immanente ha portato a far perdere al diritto il fondamento che aveva in precedenze, cioè il suo riferimento ad un oggettivo bene comune da perseguire in quanto partecipazione del Bene.
Non essendoci un fondamento oggettivo del diritto, esso non può più essere visto allo stesso modo della classicità o del medioevo come oggetto della virtù della giustizia, ossia ciò che è dovuto ad un altro, alla società o a Dio nell’ottica del giusto/ingiusto e del bene/male oggettivo, i quali limitano e plasmano il diritto e le leggi. Venuta a mancare tale impalcatura il diritto ha iniziato ad indicare una forza morale soggettiva, ovvierò si iniziò ad intenderlo come ciò che qualcuno deve avere il permesso di fare senza interferenza, avulso dall’essere misurato e definito da ciò che è oggettivamente giusto; al contrario il bene e la giustizia vengono ad essere misurati da quanto un individuo è autonomo, indipendente e libero di fronte agli altri, alla società e a Dio. Così lo stesso “bene comune” perde il ruolo di misura dei diritti, finendo per essere misurato da quante più persone possibile hanno la maggiore libertà permessa.
Il vulnus di tale concezione del diritto consiste nel suo irriducibile individualismo, il quale negando ogni dovere verso qualcosa di superiore o precedente l’uomo (per esempio la legge naturale) porta a ritenere “diritto” almeno in potenza ogni cosa richiesta come tale da un gruppo o da un movimento ideologico: l’unico limite della libertà diventano gli altri, coloro che non condividono tale visione e che dunque si oppongono – vuoi per ragioni fondate o per motivi ideologici. Non potendo convincere questi ultimi (o chi detiene il potere) solo con slogan e frasi fatte, si cerca di tacitarli accusandoli di essere un limite al riconoscimento dei diritti e dunque un pericolo per la società e il “bene comune” così strutturato, dipingendoli come nemici grotteschi. Ci si può lecitamente domandare se la libertà e i diritti di alcuni valgano più della libertà e dei diritti di qualcun altro, poiché ogni gruppo definisce un insieme di cose che ritiene proprio diritto e che definiscono un bene che si vorrebbe pubblico e comune, e spesso le concezioni diverse sono inconciliabili e non possono convivere. Ma parlare unicamente di “uguaglianza” e di “diritti per tutti” porta a ritenere che gli oppositori, o chi semplicemente ha una concezione diversa del diritto, abbiano il permesso (e il diritto) di essere tali, rendendo impossibile tacitarli in nome della libertà. Si ricorre quindi alla discriminazione positiva[4], termine paravento per accusare gli avversari di “seminare odio” e quindi negare loro la libertà di esprimersi, non più in nome della libertà d’espressione, ma in nome della propria libertà appena raggiunta a colpi di leggi imposte dallo Stato (quando non allo Stato), vista come minacciata da chi non condivide il politicamente corretto delle élite intellettuali.
È del resto impossibile permettere tutto, ma la libertà non va limitata in nome di sé stessa o del potere dello Stato, ma in nome di qualcosa di superiore e che la fonda: il Vero/Bene/Giusto, che fa da discrimine tra vera/buona/giusta e falsa/cattiva/ingiusta libertà – che in questo secondo caso si tramuta in vera schiavitù ideologica. Per quanto certi movimenti neghino apertamente ogni riferimento a qualsiasi idea di Bene, essa è sempre un giudizio sotteso e in molti casi inespresso, il quale è fondamento delle rivendicazioni e forma la società che si vuole costruire. La società dei “diritti” per tutti inizia ritenendo Bene supremo la libertà e male ogni vincolo non volontariamente scelto, inserendosi in ciò pienamente nel solco della Dichiarazione del 1789 e divenendo la forma postmoderna di essa; ed ecco che a cascata tutte le rivendicazioni dei vari movimenti si sono fatte largo nel corso degli anni. La Dichiarazione nelle intenzioni di coloro che l’hanno scritta voleva fondare una società antropocentrica, sostituendo a Dio una qualche visione antropologica o sistema ideologico incentrato nell’immanente, dunque è conseguenza inevitabile ritenere gli altri l’unico limite alla propria libertà, limite che può essere rimosso in vari modi – dalla persuasione al genocidio “Vandea style”.
Tutti i movimenti ideologici si rifanno all’assioma “la mia libertà finisce dove inizia la tua”, e dunque chiedono libertà per condotte e pratiche che in passato erano scioccanti e esecrabili; e poiché tale assioma è l’unica verità inappellabile della post-modernità, non hanno bisogno di discutere della bontà o meno di certe cose: poiché esse ricadono all’interno di questo assioma, ne partecipano alla verità, e dunque sarebbe un crimine non permetterle. Ciò dimostra che in un modo o in un altro il riferimento ad un Bene supremo al quale la società deve conformarsi è ineliminabile; ogni gruppo che vuole fondare una società e una realtà umana deve dunque dichiarare apertamente e deve mettere in chiaro quale Bene vuole perseguire e raggiungere con le sue idee e nella scena pubblica, e a quali fini ordinare i mezzi economici, politici e sociali a disposizione. Il paravento del volontarismo dei diritti serve solo a nascondere (ipocritamente) che si sta lavorando per cambiare il Bene di riferimento della società senza farsene accorgere, come ha mostrato la storia e la cronaca recente. Solo riportando il discorso dai “diritti” al Bene/Vero si può sperare di arginare la spinta centrifuga e antisociale di certe realtà ideologiche, ed evitare paraventi e discorsi ipocriti sulla falsariga di “diritti per tutti”.
Riccardo Zenobi
[1] https://thejosias.com/2019/01/16/the-declaration-of-the-rights-of-man-and-of-the-citizen-against-natural-law/
[2] Paul Hazard, La pensée européenne au XVIIIe siècle de Montesquieu à Lessing. Tome 1, Boivin, Paris 1946, pp. 30-31
[3] Paul Hazard, op. cit., pp. 38 e 78, citato in Estanislao Cantero Nuñez, La concezione dei diritti umani in Giovanni Paolo II, testo tratto da http://www.totustuus.cloud/, pag. 7
[4] https://www.osservatoriodiritti.it/2018/04/16/diritti-umani-elenco-onu-definizione-storia-diritto-internazionale-dichiarazione-universale/
La sua [infame] strategia è sempre la stessa. Perché ci cadiamo sempre?…
La Tradizione della Chiesa insegna che il peccato delle origini fu “remote” (remotamente) di superbia e “proxime” (prossimamente) di disobbedienza, cioè il peccato dei progenitori fu un atto di disobbedienza al comando di Dio mosso ed alimentato da un previo moto di superbia dell'anima. A ben pensarci però – e per attualizzare l'evento delle origini da cui prende le mosse tutto il male del mondo e senza il quale non può spiegarsi nulla di ciò che vi avviene – il demonio ovvero il serpente propose alla donna una sola cosa, non più di una. Quale? La “parola magica”, distorta e propinata in tutti i modi da quei Pastori che hanno perso ormai la bussola della verità; una sola parolina ma davvero “serpentina”: discernimento. Di questo e altro ho parlato in questa mia recente trasmissione radio.
Psicologia del peccato originale e le sue attualizzazioni nel contesto ecclesiale odierno
(Fr. Pietro, 07. 03. 2019, radio-trasmissione su Radio Buon Consiglio)
La Tradizione della Chiesa insegna che il peccato delle origini fu “remote” (remotamente) di superbia e “proxime” (prossimamente) di disobbedienza, cioè il peccato dei progenitori fu un atto di disobbedienza al comando di Dio mosso ed alimentato da un previo moto di superbia dell’anima. A ben pensarci però – e per attualizzare l’evento delle origini da cui prende le mosse tutto il male del mondo e senza il quale non può spiegarsi nulla di ciò che vi avviene – il demonio ovvero il serpente propose alla donna una sola cosa, non più di una. Quale? La “parola magica”, distorta e propinata in tutti i modi da quei Pastori che hanno perso ormai la bussola della verità; una sola parolina ma davvero “serpentina”: discernimento…
Per cui parafrasando e traducendo nel contesto ecclesiale odierno i versetti della Genesi che ci narrano del peccato delle origini potremmo dire che il serpente, accostandosi ad Eva, è come se le avesse detto: “‘Dio ha detto…’, sì: ma noi facciamo discernimento. È necessario valutare ‘caso per caso’, la tua situazione merita ponderazione, comprensione… Non essere ‘esclusiva’, sii ‘inclusiva’… vorrai forse scagliarmi contro la pietra della dottrina del tuo Dio, freddo e legalista? Suvvia, ragiona, rifletti, valuta bene. Le eccezioni si possono sempre fare”…
Qui, in pratica, si trova tutto il dramma dell’uomo: riflettere, valutare non per scrutare filialmente e umilmente le ragioni della fede per poi obbedire con più lena, con più amore; no, ma per fare l’esatto contrario di ciò che Dio ha ordinato, per fare i propri comodi suggeriti dalle proprie voglie, dalle proprie passioni disordinate. Bisogna, invece, ricordare che il comando divino non è in genere totalmente afferrabile; perché vi sia un vero atto di omaggio verso Dio è conveniente che ci sia una certa oscurità così come similmente è necessaria una certa oscurità per compiere l’atto di Fede che altrimenti diverrebbe puro esercizio del raziocinio. Non si tratta, però, di un’oscurità che umilia ma che piuttosto eleva l’uomo e lo unisce intimamente a Dio. I misteri della fede, in ogni caso, sublimano l’uomo e gli scoprono la sua vera dignità se creduti e vissuti.
Discernimento… Si, il serpente propose ad Eva nient’altro che il discernimento. Ma attualizziamo. Anche oggi il falsario si maschera e fa la medesima proposta. Siamo di fronte ad una delle due parole chiave (insieme a sfide) utilizzate come cavallo di Troia in questo inizio di millennio per scardinare il cattolicesimo dall’interno. Discernimento suona bene, fa molto “monastero”: Enzo Bianchi vi ha intitolato anche un libro (e questo potrebbe già bastare per starne alla larga…). In realtà il senso genuino di questo termine non è niente di errato, tutt’altro; qualsiasi dizionario della lingua italiana (senza neppure voler scomodare la morale cattolica) lo definisce come “la facoltà e l’esercizio del discernere, cioè del distinguere il bene e il male; per estensione: giudizio, criterio”. Ovviamente per un cristiano, come per qualsiasi persona moralmente integra, si distingue tra il bene e il male ai fini di poter scegliere il bene (anche se non sempre si riesce ad attuarlo).
Ciononostante discernimento lo si sente sempre più frequentemente inteso, nella Chiesa d’oggi, come “la facoltà e l’esercizio di trovare una giustificazione, in un caso specifico, per fare ciò che pare e piace, anche se va contro la legge di Dio, col benestare di molti preti”. Ebbene: questo tipo di discernimento ha rovinato l’umanità e il suo destino, così bello nell’originario progetto di Dio.
Bisogna con ragione credere che tutto ciò che di malvagio avviene nel mondo sia radicato in quel primordiale evento della storia dell’umanità da cui hanno la loro scaturigine tutte le aberrazioni, tutte le modulazioni dell’umana iniquità, comprese quelle che vediamo palesemente sprigionarsi nel nostro infelice tempo.
Una nuova visione dell’amore coniugale
Esaminiamo più da vicino la proposizione secondo la quale l’atto dell’amore coniugale consiste nel «totale e reciproco dono di sé del marito e della moglie» (Familiaris consortio 32; Nuovo Catechismo n. 2370; questa tesi costituisce il fondamento del sistema intero della “Teologia del Corpo”).
La tesi è falsa: in primo luogo dal punto di vista metafisico, perché la persona umana è incomunicabile; in secondo luogo fisicamente, perché l’atto dell’amore coniugale implica essenzialmente la ricerca e il raggiungimento del piacere, senza il quale esso sarebbe di fatto impossibile; e in terzo luogo moralmente, perché l’amore di autodonazione tra gli sposi risulta escluso da due princìpi distinti.
Il primo viene espresso da san Paolo (1Cor 7, 4) colla parola: «La moglie non è arbitra del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è arbitro del proprio corpo, ma lo è la moglie». Ciò significa che ciascun sposo, essendo arbitro del corpo dell’altro, non può solo dare ma deve anche prendere.
Il secondo principio consiste nel comandamento di amare solo Dio «con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze, e con tutta la tua mente» (Lc 10, 27), e di amare il prossimo ad un grado inferiore, cioè “come te stesso”.
Si aggiunge che dove sono implicate relazioni coniugali, questo amore deve essere caratterizzato da modestia e moderazione (si veda il Catechismo Romano sull’uso del matrimonio: nel campo della sessualità la moderazione è equivalente alla castità; la modestia è una virtù complementare ad essa). Anzi, amare il prossimo con un amore totale sarebbe idolatria.
Alla luce della distinzione sopra esposta dei tre tipi di amore, l’atto dell’unione coniugale nella sua forma ideale deve essere considerato piuttosto come un atto di amore sensibile informato dall’amore razionale, che rende capace uno sposo di amare l’altro non come un oggetto ma come una persona, e inoltre informato dalla Carità, che rende capace lo sposo di amare l’altro in, e per amore di Dio.
Un mutamento nel concetto dell’amore
La crisi della famiglia e del matrimonio, che si manifesta nell’espansione sempre più larga di contraccezione, divorzio, aborto, fornicazione, adulterio, ed omosessualità, deriva ovviamente dallo spirito del Mondo e, in ultima analisi, dalla Natura Caduta.
Questo spirito si è purtroppo insinuato anche nel Magistero della stessa Chiesa cattolica. Gli estratti seguenti del libro “Il Matrimonio sotto Attacco” di don Pietro Leone (Solfanelli) hanno lo scopo di manifestare questo fatto e di analizzarne la natura secondo i principi teologici tradizionali della santa romana Chiesa.
Ci sono tre forme basilari di amore. Per primo vi è l’amore sensibile (o passione d’amore), di cui l’amore sessuale è un esempio; per secondo vi è l’amore razionale (o virtù dell’amore); per terzo vi è la Carità, che consiste in quella forma di amore razionale che è elevata dalla grazia Soprannaturale.
Il mutamento di dottrina da parte della Chiesa, fin dal Concilio Vaticano II colla sua apertura al Mondo in tutte le sue manifestazioni e più particolarmente nel suo insegnamento sul matrimonio consiste essenzialmente in una sostituzione dell’amore cristiano della Carità coll’amore sensibile: i sensi, la sensibilità, il sentimentalismo.
La Chiesa insegna che il matrimonio ha tre finalità: 1) la procreazione e l’educazione dei figli; 2) l’assistenza reciproca degli sposi; 3) il rimedio contro la concupiscenza (si veda il Catechismo Romano; si può notare che si possono anche intendere la seconda e la terza finalità insieme, come seconda finalità).
La Chiesa insegna inoltre che la prima finalità è anche la finalità primaria (secondo il Magistero perenne, la sacra Scrittura, i Padri della Chiesa, assieme alla teologia speculativa). In opposizione a questo insegnamento, certi autori moderni sostengono l’idea per cui il bene degli sposi (la seconda finalità) è sullo stesso piano o in un piano più alto rispetto al bene dei figli (la prima finalità).
Questa opinione moderna è stata condannata dal Magistero. Una Dichiarazione della Santa sede dell’aprile 1944 (AAS XXVI) pone la questione: «Può essere accettata la dottrina di certi autori moderni che negano che la procreazione e l’educazione del figlio sono il fine primario del matrimonio, oppure insegnano che i fini secondari non sono essenzialmente subordinati al fine primario, ma piuttosto hanno eguale valore e sono indipendenti da esso?».
A questo quesito venne risposto: «No, questa dottrina non può essere ammessa». Nella sua Allocuzione alle ostetriche (1951), Papa Pio XII si riferisce a queste dottrine come ad «una grave inversione dell’ordine dei valori e dei fini che il Creatore stesso ha stabilito».
Nonostante queste dichiarazioni, abbiamo visto (cfr. op. cit., cap. 5) come questa opinione moderna fu riproposta nel consesso del Concilio Vaticano II; come trovò la sua via (sebbene in una forma coperta) nelle pagine dell’Humanae vitae, e in seguito nel Nuovo codice di diritto canonico, nel Nuovo catechismo, e nella Familiaris consortio, tra l’altro.
La “Teologia del Corpo” deve essere vista in contrasto con la dottrina espressa dalle dichiarazioni del 1944 e del 1951. Infatti, anche se essa non rifiuta esplicitamente che la procreazione e l’educazione dei figli è la finalità primaria del matrimonio, essa è quasi esclusivamente incentrata sull’amore sponsale.
Al massimo, vi si menziona la procreazione semplicemente come un’aggiunta, come quando il Papa, in riferimento alla «comunione delle persone formata dall’uomo e dalla donna…», aggiunge: su «tutto questo, sin dall’inizio, discende la benedizione della fertilità» (14 novembre 1979).
La concezione particolare dell’amore coniugale come donazione reciproca di sé era già presente in alcuni degli autori che rifiutarono l’assoluta priorità della finalità procreativa del matrimonio. La Dichiarazione del 1944 sopracitata afferma che alcuni di questi autori sostengono che la finalità primaria del matrimonio sia «l’amore reciproco degli sposi e la loro unione, da sviluppare e perfezionare nel dono spirituale e fisico della loro persona».
Papa Pio XII, nell’Allocuzione sopracitata, osserva in maniera similare come certuni degli stessi autori ritengano che «il significato particolare e più profondo dell’esercizio del diritto matrimoniale» è che «l’unione corporale sia l’espressione e attuazione dell’unione personale e affettiva». A questo proposito, il Papa nota che: «Siamo faccia a faccia con la propagazione di un insieme di idee e di sentimenti esattamente opposto al sereno, profondo, e serio pensiero cristiano».
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