Il nostro posto è là dove Dio ci chiama e dove ci invita ad andare: abbiamo perso la visione finalistica dell’universo e l’idea della vita come dono da quando abbiamo scordato le dimensioni "naturale e soprannaturale" dell’uomo
di Francesco Lamendola
Qual il nostro posto? Qual è il posto nel mondo destinato a ciascuno di noi? Non in senso fisico, naturalmente, ma in senso spirituale e morale. Dove dobbiamo stare, a quale criterio ci dobbiamo ispirare? Da quando, con la cultura moderna, abbiamo perso la visione finalistica dell’universo, e da quando, con il dilagare del materialismo, abbiamo scordato la duplice dimensione dell’uomo, naturale e soprannaturale, queste domande semplici, ovvie, alle quali certamente i nostri nonni sapevamo rispondere, per noi sono diventate un muro, una barriera invalicabile. Peggio: si è fatta strada l’idea che pretendere di dare ad esse una risposta sia un atto di suprema presunzione, e, allo stesso tempo, di suprema ottusità: come se solo gli sciocchi e i presuntuosi potessero presumere di sapere qual è il posto nel mondo a noi riservato.
E non basta: l’uomo moderno dà ormai per scontato e dimostrato che nessun posto, in particolare, ci è destinato per il semplice fatto che un destino, uno scopo ultimo, una finalità suprema, non sono dati ad alcuno; che tutto il mondo nasce dal caso, si regge (si fa per dire) sul caso, e a caso è destinato a finire, così come a caso finiranno le nostre vite individuali. E che non c’è alcuna lezione da trarre, nessun insegnamento, nessuna regola; anzi, che il vero insegnamento della modernità è l’assenza di qualsiasi fine, e pertanto di qualsiasi obiettivo educativo per la persona. Se tutto va secondo il caso, allora è illusorio e sbagliato voler insegnare qualcosa a qualcuno: quel che c’è da sapere, nel piccolo cabotaggio della propria vita, ciascuno lo deciderà da sé, in base alle proprie personali esigenze. Tanto, la navigazione oceanica è diventata una cosa d’altri tempi; una cosa per dei poveri pazzi, come don Chisciotte. Oggi si vive alla giornata e si muore alla giornata: così, come viene.
Questo è il segreto per udire la chiamata e per sapere quel che Dio vuole da ciascuno di noi, dove vuole che andiamo a collocarci: l’umiltà! Senza umiltà del cuore, non si ode la voce della chiamata; la superbia la copre e la rende impercettibile.
Certo, è strano. Se riceviamo un invito a pranzo, quando arriviamo davanti alla tavola imbandita, domandiamo al padrone di casa dove dobbiamo sederci: perché lui, secondo uno schema preciso, certamente ha destinato un posto per ciascuno dei commensali, non a casaccio, ma tenendo conto di una serie di fattori, che lui conosce meglio di noi; perciò, prima di sederci, attendiamo che sia lui a dirci quale sedia occupare. Al contrario, quando ci affacciamo alla mensa della vita, uscendo dalla puerizia e cominciando a cercare la via del nostro futuro, non ci poniamo minimamente il problema di sedere al posto giusto, di individuare il posto a noi destinato; per essere più precisi: non ci sfiora neppure l’idea di chiederlo, proprio come colui che riceve un invito a pranzo attende che gli venga indicata la sedia a lui destinata. Evidentemente, abbiamo smarrito l’idea della vita come dono; di conseguenza, abbiamo smarrito la nozione che, se si viene invitati, senza dubbio ci è anche stato destinato un posto. E se pure, qualche volta, ci sfiora la mente un simile pensiero, al massimo arriviamo a concepirlo per la nostra dimensione terrena: arriviamo, cioè, a porci la domanda su che cosa siamo stati chiamati a fare in questa vita. Eppure, il destino finale dell’uomo non è la morte, ma la vita; perciò egli dovrebbe aver sempre chiara l’idea che ogni cosa, ogni pensiero, ogni atto, tutto quel che facciamo e tutto quel che ci viene chiesto di fare, deve esser fatto con l’occhio sempre rivolto alla meta ultima: la vita eterna. Non ha senso preoccuparsi solo e unicamente della meta terrena, perché la meta terrena è, in ogni caso, la morte. E del resto, a che giova conquistare il mondo intero, se si perde la propria anima? Sono parole di Gesù Cristo; si vede che perfino i cristiani, o quelli che si dicono tali, si scordano di meditarle e di tenerle sempre presenti in ogni circostanza della vita. Un cristiano che non pensa alla meta ultima è un cristiano a metà; o, per meglio dire, è un cristiano moderno. L’uomo moderno si preoccupa solo del qui e ora; il suo occhio non sa più rivolgersi verso l’infinito.
L’uomo moderno voltando le spalle a Dio e cercando la propria realizzazione esclusivamente nell’ordine della natura, si è reso infelice da se stesso, e ha reso disarmonica e, spesso, insensata, la sua stessa vita!
Ecco, allora, che la domanda sul cosa si lega alla domanda sul dove. Ogni persona è chiamata ad occupare quel certo posto nel mondo che corrisponde alla funzione che deve svolgere. Ma come si fa a sapere qual è la funzione, e quindi qual è il posto? Esattamente come quando si riceve un invito a pranzo a casa di un amico: lo si domanda a lui, o si attende che sia lui a indicare dove sederci. Per un credente, l’amico che ci ha invitati a pranzo è Dio: è quindi a Lui che bisogna chiedere quale posto occupare. La maggior parte delle persone tende a scegliere i posti più belli, cerca di accaparrarseli in qualunque modo: le professioni più prestigiose, gli incarichi meglio retribuiti, le posizioni che garantiscono il maggior numero di privilegi. Giova rileggersi, nel Vangelo, la parabola degli invitati al banchetto di nozze (Luca, 14, 1, 7-11):
Un sabato si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo.
Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: «Cedigli il posto!». Allora dovrai con vergogna occupare l'ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va' a metterti all'ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: «Amico, vieni più avanti!». Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».
Il nostro posto è là dove Dio ci chiama e dove ci invita ad andare!
Questo è il segreto per udire la chiamata e per sapere quel che Dio vuole da ciascuno di noi, dove vuole che andiamo a collocarci:l’umiltà. Senza umiltà del cuore, non si ode la voce della chiamata; la superbia la copre, la rende impercettibile. Non ha forse Gesù raccomandato l’umiltà come stile di vita? Non ha ammonito che, se non ci si fa piccoli come i bambini, non si entra nel regno dei Cieli? E non ha reso lode al Padre celeste per aver nascosto la verità ai superbi e agli orgogliosi (anche in senso intellettuale) e averla, invece, rivelata a piccoli e ai semplici? L’umiltà, dunque, non è “solo” una virtù bella e ammirevole; è anche lo strumento necessario per spostare la propria esistenza sul piano dell’assoluto, perché senza di essa noi non riusciremo mai ad udire la voce di Dio. Non che Dio abbia smesso di chiamarci; ci conosce e ci chiama per nome, uno ad uno; ma se l’umiltà non abita nei nostri cuori, non la udiremo, neppure se risuonasse forte come il tuono. E questo ci riconduce al problema fondamentale dell’uomo moderno, ossia la dimenticanza della vera natura dell’uomo. La personalità umana si articola in due dimensioni: l’ordine della natura e l’ordine della Grazia. All’ordine della natura appartengono la sensibilità, l’affettività, la volontà, la ragione, la memoria e la coscienza. Oggi si tende a identificare con queste facoltà tutta la personalità umana, come se l’essere dell’uomo si esaurisse nell’esplicazione delle sue facoltà immanenti. Ma c’è anche una dimensione superiore, l’ordine della Grazia, che vivifica, rinnova e perfeziona le facoltà puramente umane, e trasferisce tutta la vita dell’individuo su un piano più alto, trasfigurandola e sublimandola. Per fare un esempio: nell’ordine della natura, l’amore è quel sentimento che si rivolge a una determinata persona, senza la quale l’individuo ha l’impressione di non poter più vivere: è, dunque, una forma di dipendenza, anche se può essere ingentilita dalla disponibilità a donarsi e dalla sollecitudine nei confronti di quella persona. Tuttavia, chi ama solo nell’ordine della natura, non giungerà mai all’amore perfetto: quello, per dirne una, che sa perdonare le offese. Per giungere all’amore perfetto, che è l’amore perfettamente disinteressato, gratuito, inesauribile, e, nello stesso tempo, l’amore che ci innalza dall’umano al divino, e ci fa vedere come amare davvero significhi provare amore e desiderio di bene per tutti gli esseri umani, nessuno escluso, bisogna fare un salto di qualità. Questa sovrabbondanza del cuore, e il possesso dei mezzi atti a condurre la vita buona, la pazienza la tenacia, il coraggio, la rettitudine, la benevolenza, vengono dalla Grazia e non dalla natura.
Come scrive mirabilmente il padre Dante: solo in Dio e nell’uniformarsi alla Sua volontà, vi è la nostra vera pace e la felicità vera. Per essere in pace con se stessi, per essere felici, bisogna uniformare la propria volontà alla volontà di Dio!
Restando nell’ordine della natura si può arrivare fino a un certo punto; si può condurre una vita buona, ma fino a un certo punto; poi, quando le difficoltà si accavallano l’una sull’altra, i cerchioni della volontà saltano, e tutta la vita spirituale della persona va alla deriva. Come trovare la forza di amare, assistere, accompagnare fino all’ultimo una persona affetta da una grave malattia, non solo invalidante, ma anche degradante; un malato di Alzheimer, ad esempio, che non riconosce più le persone care, anzi le insulta e le maltratta tutto il giorno, tutti i giorni? Dove trovare la forza interiore, la capacità di dedizione, lo spirito di sacrificio per un compito del genere; e, per giunta, riuscire a conservare la tenerezza, la dolcezza, la benevolenza nei confronti di quella persona, e anche, cosa non secondaria, nei confronti di se stessi? Come sottrarsi all’angoscia, alla disperazione, alla tentazione di lasciarsi andare al pessimismo e al disamore di sé? Tutto questo è possibile nell’ordine della Grazia, non in quello della natura. È la Grazia divina che fortifica l’anima, moltiplica le energie fisiche e psichiche, offre punti di riferimento, saldi ancoraggi e un orizzonte di speranza, là dove, umanamente parlando, ci sarebbe solo il deserto e, per forza di cose, presto o tardi, un desiderio di morte. E come resistere alla tentazione di scappare, finché si resta sul piano della realtà naturale, e si confida solo nelle proprie risorse umane? Scoraggiarsi, aver paura, voler fuggire, sono sentimenti umani, sono reazioni umane: e sono perfettamente logiche, quando ci si trova alle prese con situazioni particolarmente gravi, nelle quali non si riesce a intravedere una via d’uscita. Eppure la via d’scita c’è, c’è sempre, c’è anche se noi non la vogliamo vedere: ed è la confidenza in Dio. L’uomo che confida in Dio, che si abbandona a Lui, che gli offre il suo patire e gli chiede umilmente la luce di cui ha bisogno, nelle tenebre che lo circondano, non rimane deluso, perché Dio non aspetta altro che quel momento: il momento in cui la nostra umana superbia viene umiliata e in noi si desta, o si ridesta, la pianticella dell’umiltà. Ed è proprio così che Dio ci vuole: umiliati, per poterci innalzare; seduti all’ultimo posto, per renderci l’onore di farci alzare e sedere al posto d’onore, accanto a Sé.
Così rispondeva san Pio X a quanti, al principio di agosto 1914, mentre in Europa scoppiava la guerra che egli aveva cercato in ogni mondo di scongiurare, gli suggerivano di lasciare Roma, come atto di protesta contro l‘immane sciagura che stava per abbattersi sul mondo (cit. in: Francesco Zanetti, Pio X aneddotico, Roma, Istituto Editoriale San Michele, 1937, p. 217):
Qualche mio predecessore (…), in momenti luttuosi e pericolosi prese la via dell’esilio: in quanto a me, con la grazia di Dio, preferisco che questa mia veste bianca sia intrisa di sangue, piuttosto che muovermi dal posto in cui il Signore mi ha voluto.
Gesù ha raccomandato l’umiltà come stile di vita: non ha forse ammonito che, se non ci si fa piccoli come i bambini, non si entra nel regno dei Cieli? E non ha reso lode al Padre celeste per aver nascosto la verità ai superbi e agli orgogliosi (anche in senso intellettuale) e averla, invece, rivelata a piccoli e ai semplici? L’umiltà, dunque, non è “solo” una virtù bella e ammirevole; è anche lo strumento necessario per spostare la propria esistenza sul piano dell’assoluto, perché senza di essa noi non riusciremo mai ad udire la voce di Dio!
Qual è il nostro posto?
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