Tolleranza, approvazione, incitamento
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Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio (Mt 5, 8).
La mentalità moderna, forgiata dall’ideologia della Rivoluzione Francese, impone a priori di essere tolleranti su qualsiasi cosa, a prescindere da qualunque criterio morale. Un principio del genere, di conseguenza, si dimostra privo di ogni riferimento che non sia l’arbitrio individuale e si rivela pertanto un pernicioso germe di anarchia totale. Del resto non poteva accadere diversamente, dato che tale concetto di tolleranza è corollario dell’idea di una libertà non regolata dal vero né orientata al bene, di una fraternità che pretende di affermarsi uccidendo il padre comune e di un’eguaglianza appiattente in quanto priva del necessario fondamento ontologico, l’uguale dignità di natura che appartiene a tutti gli uomini, ma che non esclude differenze nelle doti fisiche o intellettuali, negli stati di vita o nelle competenze culturali, nelle cariche ricoperte o nei meriti personali, nei diversi gradi del carattere sacramentale o nelle speciali grazie conferite ad alcuni.
Le menti plagiate da questa visione artificiale finiscono col vedere la realtà attraverso una lente deformante e con l’imporre violentemente agli altri, in nome del “progresso”, i propri volubili capricci.
Una tolleranza così intesa, una volta assunta dall’autorità come regola dell’agire, viene facilmente scambiata per un’approvazione dei comportamenti illeciti. Nella disposizione psicologica dell’uomo comune, il cui intelletto è offuscato tanto dal peccato originale quanto dagli errori cui ha acconsentito, l’omissione del giusto intervento e della correlativa pena da parte di chi ne ha il dovere, che sia a livello civile o religioso, è interpretata come un’autorizzazione a commettere reati e peccati. Se poi chi dovrebbe vigilare sui comportamenti altrui onde impedire il male, in nome di un falso concetto di libertà, dà ad intendere di non volerlo fare, il delinquente o il peccatore si sente ulteriormente incitato ad attuare i suoi propositi disordinati e a perseverare nella sua cattiva condotta (specie se si tratta di un immigrato al quale – non si sa in base a quale privilegio – tutto sarebbe consentito). Ciò non accade più soltanto con bambini e adolescenti, ma pure con moltissimi adulti che non sono maturati a livello morale oppure, nell’ebbrezza di una vita senza freni, sono regrediti a quel livello di sviluppo, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti.
Un accenno particolare, in questi tempi di calura estiva, merita l’abbigliamento, soprattutto quello femminile. Nell’elenco dei frutti dello Spirito Santo fornitoci da san Paolo nella Lettera ai Galati, secondo laVulgata, c’è posto anche per la modestia (cf. Gal 5, 23 Vulg.). Il termine latino designa quella virtù, collegata alla temperanza, che suggerisce la giusta misura in ogni cosa; nella tradizione cattolica, essa è stata applicata in particolar modo all’esposizione del proprio corpo agli sguardi altrui. L’abito è un linguaggio che tacitamente veicola un messaggio; come il turpiloquio corrompe a poco a poco l’animo, i costumi e le relazioni, così l’abbigliamento immodesto fomenta la lussuria tanto in chi lo indossa quanto in chi lo vede. Anticamente, per rispetto dell’autorità suprema, ci si copriva persino le mani, come mostrano i mosaici paleocristiani. Anche se tale uso è superato, vige pur sempre l’obbligo di vestire in modo decente, in modo da non svilire il proprio corpo e da non ferire il pudore del prossimo. Il rispetto è un valore universale; per un credente, oltretutto, è il primo gradino della carità, senza salire il quale è impossibile ascendere ulteriormente. Ma oggi, a quanto pare, né il rispetto né la carità godono di stima effettiva, se non a parole.
Chi va in chiesa, a maggior ragione, deve scrupolosamente interrogarsi sul modo in cui si presenta, non solo per riguardo ai sacerdoti e agli altri fedeli, ma soprattutto per l’onore di Dio. In passato le rappresentanti del gentil sesso erano tenute a coprirsi il capo, visto che la chioma può diventare un fattore di vanità e di seduzione. Oggi, al contrario, ragazze e ragazzine ignare del pudore, oltre che sulla pubblica via, scorrazzano beatamente anche nelle parrocchie svestite come donne di strada. In realtà, i genitori hanno l’obbligo morale di non farle uscire di casa in simili tenute e i sacerdoti quello di non farle entrare nel recinto sacro, ma accade di trovarne finanche sull’altare per le letture o per il servizio liturgico… Tolti gli sciagurati ministri che perseguono scientemente questo tipo di obiettivi in vista di una pretesa promozione della donna nella Chiesa, anche quelli più moderati si limitano a stringere le spalle con un’espressione rassegnata: «Che possiamo farci?… Se diciamo qualcosa, se ne vanno e non tornano più».
La domanda, semmai, dovrebbe essere: «Che ci vengono a fare, visto che qui non ricevono alcuna educazione e che, al contrario, si sentono confermate e incitate a continuare così?». Se qualcuno, vivendo sulla Luna, volesse ancora accampare la scusante che sono fanciulle innocenti, dovrebbe informarsi un pochino sulle abitudini di adolescenti e preadolescenti, spesso all’avanguardia sia nella fruizione che nella produzione in proprio di pornografia. Cosa non si riesce a fare con un cellulare, al giorno d’oggi! Si rimane annichiliti ad ascoltare certi racconti: la realtà supera l’immaginazione. In un contesto del genere, l’enorme dispiegamento di forze richiesto dall’organizzazione di centri e campi estivi non porta assolutamente alcun frutto, se non in peggio, specie se i ragazzi vengon regolarmente portati in parchi acquatici dove il caldo e l’eccitazione generale non possono non avere precisi effetti psicofisici. L’estate – soleva ripetere don Bosco – è la vendemmia del diavolo; ma non siamo più nell’Ottocento, che diamine! Adesso gli dan man forte pure i preti.
Educare alla purezza e alla modestia è diventato un nuovo tabù, dopo che il Sessantotto ha spazzato via quelli naturali, posti dalla sapienza divina a protezione della dignità umana, specie in ciò che concerne la trasmissione della vita. Quel poco di “religioso” che ancora persiste nelle iniziative parrocchiali, peraltro, è proposto in modo talmente ridicolo e grottesco da diventare per i giovani ulteriore motivo di irrisione della nostra santa fede. Balletti e canzonette, specie se eseguiti da preti, frati e suore, rappresentano per gli adolescenti una gustosissima occasione di esilaranti quanto salaci battute e irriverenze, se non di vere e proprie bestemmie. In questo caso, l’incitamento al peccato è molto più esplicito e diretto, come se non bastasse il resto. Quale risultato di una missione, non c’è male davvero: la gioventù corrotta si sente rassicurata, incoraggiata com’è a perseverare sulla strada intrapresa… quella dell’Inferno. Povere anime! Chi le strapperà alle fauci del demonio? Che cosa mai combineranno, un domani, quando saranno a loro volta genitori?
Ma il clero moderno, che non disdegna di lanciarsi in ignominiose esibizioni da balera, non crede né al diavolo né alla dannazione eterna; non ha idea di cosa sia lo stato di grazia o il peccato mortale e ha abiurato perfino la Presenza reale… La perdita della fede non può condurre se non a esiti del genere, che sono poi il terreno di coltura di una mentalità omosessuale e di una prassi libertina da viveur consumato. Anche in questo caso, la tolleranza dei vescovi finisce coll’essere percepita come un’approvazione e si trasforma in incitamento. Come stupirsi, poi, di tanti scandali? Il prete che esercita il mestiere di animatore da villaggio turistico o, al massimo, di assistente sociale o di “professionista del sacro”, quando stacca dal lavoro si cambia d’abito (se ancora porta quello clericale) e si dedica ai suoi interessi personali… quali, è meglio non approfondirlo. Nessuno, d’altronde, lo ha educato alle virtù sacerdotali, anche perché, di solito, non ha la più pallida nozione del sacerdozio stesso, cioè dello stato e del potere sacri di cui è stato investito con l’ordinazione. Difficile pensare che tale risultato non sia stato deliberatamente ottenuto per mezzo di rettori e professori di seminario.
È sintomatico che il documento di lavoro del sinodo amazzonico previsto per ottobre non utilizzi, riguardo all’assunzione del ministero, il termine ordinare, bensì la parola nominare. La sostituzione lessicale non è casuale, ma denuncia un chiaro slittamento semantico: il prete non farebbe altro che esercitare una funzione di presidenza che non richiederebbe la continenza né comporterebbe un carattere indelebile. Questi sono i frutti di quella sedicente “teologia” tedesca che negli ultimi decenni, per mezzo degli studi e con l’incentivo di fiumi di denaro elargito in “aiuti”, ha ideologicamente colonizzato le diocesi latinoamericane. Invece in seminario qui da noi, quasi trent’anni fa, mi sentii spiegare da un formatore, oggi vescovo, che il celibato sarebbe un carisma collegato alla vocazione sacerdotale: per verificare la seconda, bisognerebbe quindi accertare che uno fosse dotato del primo; come, non ci fu dato sapere.
Già allora i semi della confusione, senza che alcuno trovasse nulla da eccepire, venivano gettati a piene mani. Anzitutto il celibato è uno stato di vita e, in duemila anni, non è mai stato considerato un carisma; in secondo luogo, la dinamica del discernimento vocazionale è esattamente inversa: una volta riconosciuti gli abituali segni della chiamata divina, la disponibilità del candidato a rinunciare al matrimonio, vocazione naturale universale, è garanzia della sua sincera volontà di accoglierla, dato che la continenza perfetta è stata richiesta ai ministri di Dio (anche coniugati) fin dai tempi apostolici e c’è quindi un alto grado di probabilità che non sia una mera legge ecclesiastica, ma una norma di diritto divino. Si tratta comunque di un’esigenza posta ai Suoi ministri dal Signore stesso, o direttamente o tramite la Chiesa: l’esercizio del sacerdozio comporta di per sé la rinuncia all’uso del matrimonio, tanto è vero che anche nella disciplina orientale (che, in deroga a quella originaria, impone ai preti secolari di sposarsi da giovani) nei giorni in cui celebra la divina liturgia il sacerdote deve astenersi dai rapporti coniugali.
Se però un seminarista disprezza il matrimonio, non avvertendo alcuna attrazione per la donna e per la procreazione, dev’essere fermato: una vocazione autentica non nasce da queste false premesse con la copertura del celibato. Ciò non significa certo, all’opposto, che debba necessariamente fare o aver fatto esperienze sessuali, come si pretendeva negli anni Settanta, quando si son formati molti dei vescovi attuali: la continenza al di fuori del matrimonio è un obbligo morale per ogni battezzato, anzi – dato che è di legge naturale – per ogni essere umano. Anche gli sposati devono coltivare la castità propria del loro stato, in modo tale che la loro unione non sia una copertura della libidine, ma un’espressione di amore sempre aperta alla vita.
Le esigenze della carità e le rispettive responsabilità che si sono assunti impongono a genitori e sacerdoti l’ineludibile impegno di educare i bambini, fin dalla più tenera età, alla modestia e alla continenza. Quella della tolleranza è una scusa talmente logora da non essere più tollerabile, dato che ha aperto la strada alla distruzione della famiglia e al crollo della natalità, effetti della degradazione dell’uomo e della donna causata dalle mode immodeste e dalle abitudini lascive, promosse dalla massoneria e da quei magnati ebrei che finanziano cinema, musica e televisione. Se non vogliamo scomparire, dunque, ritorniamo sulla buona strada: basta con la tolleranza come comoda scusa per non fare il proprio dovere; curiamo la disciplina nell’educazione, il rispetto del pudore, la giusta stima sia della castità che del matrimonio.
Pubblicato da Elia
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