ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 24 giugno 2019

La grande palude del provvisorio

E POI? . . .


Dov’è la grazia, dov’è Gesù Cristo oggi? Poniamo che la "Neochiesa" salvi tutte le foreste e tutti i poveri della terra: e poi? Non avremo ancora risolto il problema essenziale: perché l’uomo, senza Cristo, sarà sempre "povero" 
di Francesco Lamendola  

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Immersa nella cultura del relativismo, nella filosofia spicciola dell’edonismo, concentrata senza respiro nell’inseguimento di piccole soddisfazioni che paiono cospicue solo per la totale mancanza di prospettiva, la stragrande maggioranza delle persone consuma la propria vita in cose di nessun conto, bramando oggetti meschini scambiati per gioielli preziosi, disperdendo tutte le energie per ottenere cose che, anche se raggiunte, non hanno altro potere che di dare un appagamento fugace e illusorio, lasciando l’anima più vuota e amareggiata di prima, senza mai spegnere la sete d’assoluto, anzi accrescendola ed esasperandola. 

Ogni tanto, per caso, una vaga intuizione si fa strada nelle tenebre e brilla per un istante di luce vivissima, poi subito si spegne: l’intuizione di come si potrebbe vivere, di cosa potrebbe essere l’esistenza terrena se si fosse consapevoli di qual è il suo vero fine; s’intravede per un attimo, si pregusta, quel meraviglioso senso di pace che viene dal non bramare più nulla, dal non inseguire più nulla, dal non essere più schiavi di appetiti e desideri incessanti, di oggetti carnali, che imprigionano l’anima nella dimensione terrena e le tarpano le ali al grande volo, cui si sentirebbe chiamata. Ma sono solo intuizioni fugaci, subito respinte nelle profondità della coscienza dall’incalzare di nuove brame e di nuovi timori, dalla corsa dissennata dietro speranze illusorie di felicità. Perché l’uomo è fatto per la felicità, su questo non vi è il minimo dubbio, dunque è fatto per la vita e non per la morte; ma che cosa sia la vera felicità, che cosa voglia dire vivere realmente la propria vita, su questo regnano la più grande confusione e i più grandi fraintendimenti. Il carattere tecnico della società moderna fa sì che ci si ponga di fronte alle cose con una mentalità essenzialmente tecnica: le si considera conl’occhio del Logos strumentale e calcolante: quanto possono rendere, se vale o no la pena di fare, quanto tempo, quanto denaro, quali vantaggi se ne possono ricavare. Non sappiamo più guardare alle cose per se stesse, con stupore e gratitudine, in maniera disinteressata: come osservava Oscar Wilde più d’un secolo fa, sappiano il prezzo di tutto, ma non conosciamo il valore di niente.

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Oggi la (falsa) chiesa vuol salvare la foresta amazzonica, gli indios, il clima, i migranti, i poveri: tutte cose in sé lodevoli, sia chiaro: ma dov’è la grazia? Dov’è la vita eterna? Dov’è Gesù Cristo? Ora, poniamo che si salvino tutte le foreste e tutti i poveri della terra. E poi?... Non avremo ancora risolto il problema essenziale: perché l’uomo, senza Cristo, sarà sempre povero!

C’è una frase che si sentiva ripetere continuamente, fino a qualche anno fa solo nell’ambito della cultura profana, poi, da qualche tempo in qua, anche in quello della religione cattolica; una frase rivolta ai giovani, che li esorta a inseguire i propri sogni. E fa male al cuore udirla ripetuta con tanta leggerezza e, ahimè, con tanta convinzione: perché è difficile trovare una frase più stupida e più grossolanamente demagogica, insulsa e pericolosa, o quanto meno fuorviante. Inseguire i propri sogni: è a questo che gli adulti devono spingere i giovani? Niente affatto: essi devono esortarli a seguire la via del dovere, la via della verità e la via del sacrificio: questo dovrebbero fare gli adulti, per avere la coscienza a posto nei confronti delle giovani generazioni. L’espressione vivere i propri sogni, non significa nulla; prima bisogna vedere che tipo di sogni siano; potrebbero anche essere degli incubi. In questa fase storica, segnata dalla cultura del relativismo, si direbbe che tutto sia uguale a tutto, che tutto vada egualmente bene, purché ci sia la sincerità, purché si sia se stessi. Questa è una enorme sciocchezza e una vera e propria contro-pedagogia. Che vuol dire essere se stessi? Il bambino, il giovinetto non sono ancora se stessi, per il semplice fatto che ancora non sanno chi siano: la loro personalità deve ancora formarsi, i loro i valori e ideali sono ancora in via di formazione. Essi stanno, per così dire, osservando e assaggiando il mondo; come si può chiedere loro di essere se stessi, prima di averli sufficientemente istruiti a distinguere fra il bene e il male, fra il dovere e il piacere, e aver fatto comprendere loro che il bene deve essere preferito al male, e il dovere al piacere?

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Anche se la cultura contemporanea esalta il vitalismo, l’attivismo ed il fare, sino alla frenesia, la verità è che essa insegue il nichilismo: la domina un istinto di morte, non di vita. Tutte le cose che essa rappresenta come desiderabili, come degne dei nostri sospiri e delle nostre brame, sono cose effimere, passeggere: attaccarsi ad esse, pertanto, significa attaccarsi a un destino di morte!

C’è un episodio minore, nella vita di san Filippo Neri (1515-1595), che bene illustra questo concetto; così lo rievoca lo scrittore Giuseppe Fanciulli nella sua biografia del santo, La vita degli angioli (Roma, Edizioni Paoline, 1976, pp. 98-100):
Se a taluno […] Filippo Neri mostrava le alte cime, a tutti raccomandava di misurare le forze in prove modeste, per acquistare il modo di riuscire in quelle gravi: “Attendete a vincervi nelle cose piccole, se volete vincervi nelle grandi”.
Lui, di così alto intelletto e di così grande dottrina, lui, ispiratore del Palestrina e del Baronio, raccomandava l’umiltà dell’intelligenza, perché sapeva che superbia e presunzione sono causa di molti mali, contristando lo spirito cristiano. Implorava: “Figliuoli, umiliate la mente, assoggettate l’intelletto. Figliuoli, siate umili e state bassi…”.
A proposito di vanagloria mondana, più di una volta un motto di Filippo bastò ad allontanarne il desiderio. C’era fra i suoi discepoli un giovane, chiamato Francesco Zazzara, di bella presenza, di ancor più bell’ingegno, dotato di naturale bontà. Studiava leggi con molto impegno e molto profitto. Le lodi eccessive di parenti incauti e di compiacenti amici l’avevano un po’ guasto, dandogli una smodata idea di sé e di quanto avrebbe potuto fare nel mondo: a sentir lui, gli doveva essere aperta la strada fino ai più alti gradi, ai più invidiati onori. Filippo si era accorto di questa brutta piega, ma non gli era sembrato di dover intervenire con dirette rimostranze, che sarebbero risultate sterili, tanto era l’infatuamento di quel bravo ragazzo. Anzi, una volta, quando Francesco, parlando con lui, magnificava i risultati dei suoi studi e il trionfo di esami recenti, mostrò di secondarlo con la più grande amabilità.

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San Filippo Neri

- Oh, beato te, mio caro Francesco! Adesso tu studi; poi, fatto dottore, comincerai a guadagnar bene, sarai avocato, farai prosperare la tua casa…
Il giovane ascoltava un po’ meravigliato. E Filippo con più vivo entusiasmo:
- Potrai entrare in Curia e far presto a salire. Beato te, beato te! Forse ti daranno incarichi per le nunziature e girerai il mondo, onorato e riverito da per tutto… Beato te!
Francesco Zazzara cercava di indovinare se il padre Filippo lo burlasse un poco; ma no, la sua faccia era come sempre bonaria, e il suo sorriso come sempre schietto.
- Quando si è conosciuti in molte parti, - seguitò a dire Filippo – da ogni parte viene onore e ricchezza. Certo, nella scala del mondo tu arriverai fino in cima… Beato te, beato te!
Dicendo l’ultimo “Beato te” prese tra le palme la testa del giovane e amorevolmente la trasse sul suo petto. Disse, quasi all’orecchio, in un soffio che raccoglieva tutta l’anima: - E poi?
Le due brevi parole scesero fino al cuore del giovane e vi suscitarono una tempesta. In quel movimento improvviso, tutta la vanità delle vanità si rivelava; e la risposta da dare a quel formidabile “E poi?”, faceva tremare. Francesco intese che l’umiltà è il maggior decoro dei grandi, e che la vera grandezza non è quella concessa dal mondo. Cambiò vita, entrò fra i padri dell’Oratorio, e seguì in tutto la Regola di Filippo.

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Oggi le omelie domenicali della maggior parte dei preti, per non parlare dei documenti del signor Bergoglio, sanno di sociologia, di psicologia, di politica, di ecologia, ma non hanno il minimo sentore di spiritualità: non c’è più il profumo dell’infinto, quando si entra in una chiesa; i luoghi sacri sono stati trasformati in luoghi mondani, con la scusa della carità (ostentata ed esibita)!

E poi? Conquistare l’amore di tante donne (o di tanti uomini): e poi? Ammassare grandi ricchezze, potersi concedere uno stile di vita da re: e poi? Scalare le vette del potere, giungere al vertice, avere tutti gli altri sotto di sé: e poi? La vita dei singoli, come quella delle società, è dominata dalla funesta illusione che il piacere, la ricchezza e il potere siano i fini dell’esistenza, mentre non sono che tappe, e sovente dei pericoli o delle distrazioni, sulla via del proprio perfezionamento spirituale. Perché è questo il fine della vita: raggiungere la propria perfezione, compito mai definitivamente raggiunto, ma capace di conferire all’anima la pace che essa brama, e di assegnarle una meta, uno scopo, nella grande palude del provvisorio e dell’effimero. Vi sono persone che dedicano tutti i loro pensieri alle conquiste sessuali, o al possesso di beni di consumo, o alla cura estetica del proprio corpo, o al modo di accrescere sempre più la loro disponibilità di denaro; persone che farebbero qualsiasi cosa, che scenderebbero a qualunque compromesso, che non si tirerebbero indietro di fronte ad alcuna bassezza pur di conseguire tali scopi. E poi? Una volta collezionata una nuova avventura erotica, acquistato un nuovo vestito firmato o una nuova automobile di prestigio, ottenuta un’ulteriore promozione, con relativo aumento di stipendio e di potere decisionale: che altro fare, che altro volere? Sempre le stesse cose? Ancora e sempre, fino alla sazietà, fino alla noia? Sempre con l’ansia di riuscire o il timore di fallire, sempre in balia di qualcosa di esterno? Anche se la cultura contemporanea esalta il vitalismo, l’attivismo ed il fare, sino alla frenesia, la verità è che essa insegue il nichilismo: la domina un istinto di morte, non di vita. Tutte le cose che essa rappresenta come desiderabili, come degne dei nostri sospiri e delle nostre brame, sono cose effimere, passeggere: attaccarsi ad esse, pertanto, significa attaccarsi a un destino di morte. È come voler salire a ogni costo su una nave la cui meta, lo si sa, è il naufragio. È un istinto di morte che spinge il viaggiatore, pur dopo essere stato messo in guardia, a salire sulla nave condannata; ed è un istinto di morte quello che spinge tante persone ad attaccarsi alle cose destinate a consumarsi e a finire. La cura esagerata del proprio aspetto, per esempio, non nasce da amore per la vita, ma da un cupo istinto di morte: il corpo è destinato alla morte, quindi dedicare ad esso tutti i propri pensieri, concentrare su di esso tutte la proprie cure, nel folle desiderio di far sì che esso appaia sempre giovane e desiderabile, in una lotta impossibile contro il tempo che scorre, è nient’altro che una lucida follia; eppure quante persone ne sono stregate! Attaccarsi al denaro, al potere, è lo stesso che attaccarsi alla giovinezza: nessuna di tali cose è destinata a durare, a permanere: sono tutte provvisorie. L’uomo, in quanto creatura terrena, è provvisoria; ciò che in lui non è provvisorio, ma durevole, non viene degnato della minima attenzione dalla maggior parte delle persone. Vi sono persone che non dedicano alla propria anima, al proprio destino immortale, neppure la centesima parte del tempo e dell’interesse che dedicano, invece, al proprio abbigliamento, alla propria abbronzatura e al proprio taglio di capelli. È come se tali persone avessero deciso di stabilirsi a vivere in umida cantina senz’aria e senza luce, quando avrebbero a disposizione un meraviglioso palazzo, con un verde giardino pieno di fiori e di profumi. Ignoranza? Certo: ma non solo; anche la presunzione di credersi furbi e intelligenti; anche la vanità di stupire gli altri non per quel che si è, ma per quel che si possiede e che si può sfoggiare, come un nuovo ricco che vuol far sapere a tutti che nuota nel denaro e che può levarsi qualunque capriccio.

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Oggi viviamo in una grande palude del provvisorio e dell’effimero! La vita dei singoli, come quella delle società, è dominata dalla funesta illusione che il piacere, la ricchezza e il potere siano i fini dell’esistenza, mentre non sono che tappe, e sovente dei pericoli o delle distrazioni, sulla via del proprio perfezionamento spirituale!

Mentre la società profana, mano a mano che si diffondeva la mentalità consumista, sprofondava sempre più in quest’orizzonte asfittico, c’era un’oasi di spiritualità e di riflessione sul vero significato della vita, ed era la Chiesa. Il clero, nel complesso, fino a oltre la metà del XX secolo, aveva conservato e tramandato una visione spirituale della realtà; non aveva mai perso il contatto con il sacro e con l’eterno; e non aveva mai smesso di richiamare le anime dalla futilità della vita carnale alla necessità, alla verità e alla bellezza della vita spirituale. Poi, a partire dal Concilio Vaticano II, tutto è cambiato. La mentalità carnale è penetrata nella Chiesa; il clero ha cominciato a ragionare e a sentire come gli uomini carnali; si è scordato che il vero cristiano vive nel mondo, ma non appartiene al mondo. Lo ha fatto un po’ per sentirsi moderno, un po’ per scusare una propria tendenza verso la carnalità: perché i preti viziosi c’erano anche allora. L’ascetismo è stato denigrato e la spiritualità deprezzata; la vita contemplativa ha cominciato ad apparire anacronistica e sterile.

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Dal Concilio Vaticano II, tutto è cambiato: la mentalità carnale è penetrata nella Chiesa; il clero ha cominciato a ragionare e a sentire come gli uomini carnali!
  
E poi?...

di Francesco Lamendola
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