ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 25 giugno 2019

Nel vuoto pressoché generale

IL CASO
Aborto o omicidio? Il cieco travaglio della Cassazione

Se il feto è persona durante il parto, allora perché non usare la sentenza della Cassazione a favore della vita? I giudici hanno attribuito la qualifica di soggetto di diritto in maniera arbitraria. Porre sotto l’egida della mera convenzione lo stabilire quando diventiamo persone e quando cessiamo di esserlo provoca enormi rischi per tutti noi. 


La Cassazione il 30 gennaio scorso si è pronunciata su un caso di decesso di un bambino durante il parto. La sentenza n. 27539 è stata depositata il 20 giugno scorso ed è illuminante per comprendere come per la legge italiana e i giudici, l’attribuzione ad un essere umano della qualifica di soggetto di diritto, cioè di persona, sia assolutamente arbitraria perché meramente convenzionale.


Partiamo dai fatti. Una donna al momento del parto viene assistita da un’ostetrica che, secondo i giudici di primo e secondo grado, nonché per i giudici della Cassazione, ha provocato colposamente la morte del feto per asfissia perché non si era accorta della sofferenza del bambino e così non aveva comunicato questo stato di emergenza al medico, impedendo in tal modo a costui di intervenire con manovre particolari per salvare il bambino. Più in particolare, come indicato dalla Cassazione ricordando il verdetto di primo grado, “il mancato rilievo del battito cardiaco non consentiva di scoprire la sofferenza fetale già in atto e l'omessa comunicazione al ginecologo della complicanza sopravvenuta impedivano l'adozione delle manovre urgenti ed indispensabili per scongiurare la morte in utero del feto”.

Tralasciamo per amor di sintesi molte questioni giuridiche che solleva la sentenza ed arriviamo al nocciolo duro della questione. Gli avvocati difensori, nell’impossibilità di scagionare la propria assistita, avevano chiesto ai giudici di derubricare l’imputazione da omicidio colposo ad aborto colposo. Giuridicamente parlando, possiamo parlare di omicidio se la morte è inferta ad un soggetto di diritto, altrimenti se è solo un essere umano non persona parliamo di aborto. Ma quando avviene questo passaggio dall’essere umano al soggetto di diritto? Per la difesa l’essere umano diventa soggetto di diritto cioè persona fisica, ex art. 1 del codice civile, al momento della nascita, ossia, secondo loro, quando è avvenuta “la fuoriuscita dall'alveo materno e col compimento di un atto respiratorio”. In breve: alla prima boccata di ossigeno siete persone, prima no. La morte del piccolo essendo avvenuta prima di questo momento rientra nei casi di aborto e non di omicidio.

La Cassazione non è d’accordo e anticipa il momento in cui l’essere umano diventa persona per lo Stato e lo individua al momento del travaglio. Per quale motivo? Perché una forma particolare di omicidio è quello perpetrato sull’infante che, in presenza di particolari condizioni, prende il nome di infanticidio. Si può incorrere in infanticidio ex art. 578 cp anche quando la madre provoca la morte del figlio “durante il parto”. Dunque la morte ricercata durante il parto configura una specifica ipotesi di omicidio e quindi ciò significa che durante il parto abbiamo un soggetto di diritto.

Ma cosa significa “durante il parto”? Infatti il parto è composto da più fasi: a quale fase specifica ci dobbiamo riferire? I giudici della Cassazione affermano che, secondo un certo orientamento giurisprudenziale, il momento in cui noi magicamente diventiamo persone è quello del travaglio. Non più come si asseriva una volta nel momento in cui c’è il distacco del nascituro dall’utero, ma nel travaglio. Da ciò si conclude che, dal momento che il piccolo è morto durante il travaglio, questi era soggetto di diritto, ma provocare la morte di un soggetto di diritto significa incorrere nel reato o di infanticidio o di omicidio. In questo caso, dato che la morte non è stata provocata dalla madre, bensì dall’ostetrica, il reato è quello di omicidio e di omicidio colposo per mancanza di diligenza, prudenza e professionalità. Così i giudici di Cassazione: “Al riguardo, infatti, secondo l'unanime e consolidato orientamento della giurisprudenza, in tema di delitti contro la persona, il criterio distintivo tra la fattispecie di interruzione colposa della gravidanza e quella di omicidio colposo si individua nell'inizio del travaglio e, dunque, nel raggiungimento dell'autonomia del feto”. E quindi non si tratta di aborto colposo, ma di omicidio colposo.

Questo per illustrare le argomentazioni che riguardano la vicenda giudiziaria.

Ma tali argomentazioni aprono ad alcune riflessioni. La prima, la più importante: il momento in cui diventiamo persone per il diritto è stato fissato arbitrariamente, cioè in modo convenzionale. La legge con l’art. 1 del codice civile (ma esistono norme che dicono l’opposto) e i giudici hanno stabilito in modo apodittico che noi siamo qualcuno per lo Stato solo al momento della nascita e, volendo individuare il momento esatto, durante il travaglio. Ora vorremmo chiedere ai giudici – e la domanda è affetta volutamente da una puntina di intemperanza - che differenza passa tra un bambino che si è staccato dall’utero materno – passibile di aborto se non può sopravvivere ad esempio quando gli mancano i reni e il cervello – e il medesimo bambino qualche istante dopo che è nel bel mezzo di un travaglio? Perché il primo per il diritto non è persona fisica e il secondo sì? Quale differenza biologica così scriminante relega il primo a cosa e il secondo lo eleva, in modo prodigioso, a status di persona?

I giudici, come indicato prima, rispondono che prima del travaglio non è autonomo e dopo sì. Ne siamo sicuri? Provate a lasciare lì sul lettino un infante senza assistenza e vediamo se e quanto è autonomo. E, al fine di saggiare l’esistenza di una autentica autonomia personale, proviamo tutti noi, giudici compresi, a vivere senza medici che ci curano, supermercati, benzinai, ingegneri che costruiscono case, forze di polizia che tutelano la nostra sicurezza e vediamo quanto campiamo. Come il bambino nel ventre della madre non è perfettamente autonomo perché dipende da lei per l’energia ricavata dal nutrimento, che lei gli fornisce, e per l’ambiente protetto in cui lo custodisce, così non lo è nemmeno dopo, necessitando di molte cure e assistenza.

Quindi l’assegnazione del patentino di persona soggiace al mero arbitrio. In ossequio a questa logica  – in cui logica non c’è  – se i giudici hanno ragione a fissare come momento generante la soggettività giuridica nel travaglio, parimenti dovrebbe essere riconosciuta altrettanto ragionevolezza agli avvocati difensori nello stabilire questo momento un attimo dopo il travaglio, ossia quando il piccolo inizia a respirare. Coerenti con questi principi, potremmo posticipare ancor di più l’attimo in cui smettiamo i panni di organismo non personale e ci rivestiamo di quelli di organismo personale e fissarlo quando iniziamo a relazionarci con gli altri, quando manifestiamo atti di autocoscienza etc., così come fecero i famigerati Giubilini e Minerva che in un loro articolo pubblicato su rivista scientifica affermarono che legittimamente si poteva parlare di aborto post nascita, perché fino a quando non c’è persona non abbiamo omicidio, bensì “solo” aborto. E’ la medesima logica sposata dal nostro ordinamento giuridico, eccettuato qualche norma, e dai giudici di Cassazione. Va da sé poi che porre sotto l’egida della mera convenzione lo stabilire quando diventiamo persone e quando cessiamo di esserlo provoca enormi rischi per tutti noi: e se domani per il diritto noi smettiamo di essere persone quando finiamo in coma oppure quando non possiamo più guarire da una malattia grave? Una volta c’era la razza a far da spartiacque tra persone e non persone, oggi semplicemente i criteri sono cambiati.

I giudici, per avvalorare la tesi che il bambino nascente è come noi e non come un feto qualsiasi, indicano l’esistenza di un “quadro normativo e giurisprudenziale italiano ed internazionale di totale ampliamento della tutela della persona e della nozione di soggetto meritevole di tutela, che dal nascituro e al concepito si è poi estesa fino all'embrione”. A parte il fatto che il termine “nascituro” ricomprende quello di “concepito” ed “embrione”, questa affermazione appare contraddittoria con tutta la sentenza. Se è soggetto di diritto anche il concepito salta la distinzione giuridica tra omicidio colposo e aborto colposo e dunque anche, più semplicemente, tra omicidio e aborto, perchè anche l’aborto sarebbe un omicidio, solo compiuto prima della nascita. E dunque, a dar retta al senso di questa affermazione, la legge 194 dovrebbe essere dichiarata incostituzionale.

Parimenti potremmo usare le stesse argomentazioni articolate dalla Cassazione per chiedere l’abrogazione della legge 194: se il bambino durante il travaglio non può essere ucciso, parimenti, perché nulla cambia, non dovrebbe essere ucciso un istante prima, quando è ancora nell’utero della madre. Ma da istante prima a istante prima arriviamo al concepito, perché durante tutto lo sviluppo del nascituro, ci dice l’embriologia, nulla cambia, se non il numero di cellule e il loro perfezionamento. In breve: perché non usare questa sentenza a nostro favore?

Tommaso Scandroglio
http://www.lanuovabq.it/it/aborto-o-omicidio-il-cieco-travaglio-della-cassazione

REGNO UNITO
Sentenza ribaltata: no ad aborto forzato su disabile

La Corte d’Appello di Londra ha stabilito che ai medici non deve essere permesso di praticare l'aborto forzato su una giovane disabile con ritardo mentale. Ribaltata, quindi, la decisione della Corte di Protezione che aveva sostenuto che l’aborto fosse nel “miglior interesse” della ragazza, nonostante la contrarietà stessa di quest’ultima, della madre e dell’assistente sociale.



Ai medici inglesi non dovrà essere permesso di praticare un aborto forzato su una giovane disabile con un ritardo mentale, giunta alla ventiduesima settimana di gravidanza, della cui vicenda avevamo riferito qui. È quanto ha stabilito nell’udienza di ieri, a Londra, la Corte d’Appello, ribaltando così la decisione presa dal giudice Nathalie Lieven, che con la sentenza del 21 giugno presso la Corte di Protezione aveva autorizzato i dottori a eseguire l’aborto sulla ragazza, sostenendo che ciò fosse nel suo «miglior interesse», nonostante la contrarietà della stessa donna incinta, della madre di lei e dell’assistente sociale.

Secondo quanto riferisce la Press Association, i giudici d’Appello - Richard McCombe, Eleanor King e Peter Jackson - renderanno note in seguito le motivazioni della sentenza. Ma intanto si può registrare con sollievo la notizia, pur nella consapevolezza che c’è poco da stare allegri perché la posizione dei medici e del giudice Lieven mostra che è stato compiuto un altro passo lungo il piano inclinato della cultura della morte, passando dall’idea dell’aborto come “libera scelta” a quella dell’aborto obbligatorio per i disabili.

La decisione della Corte d’Appello arriva dopo le circa 90.000 firme raccolte in meno di 48 ore dall’associazione Right to Life, che in una petizione lanciata attraverso la piattaforma Citizen Go chiedeva al ministro della Sanità, Matthew Hancock, di «intervenire in questo caso, per quanto possibile, per evitare questa grave ingiustizia inflitta dallo Stato a questa famiglia e garantire che questa donna non sia costretta ad avere un aborto». Nella petizione si metteva tra l’altro in discussione l’adeguatezza della Lieven nel giudicare la questione, vista la sua nota militanza abortista. Ma dei parlamentari pro vita avevano fatto notare le scarse possibilità di intervento, in questa fattispecie, sia da parte del ministro sia dello stesso parlamento. Tra loro, il conservatore Jacob Rees-Mogg, che parlando alla Catholic News Agency aveva spiegato: «Ciò è profondamente preoccupante, ma non esiste una strada parlamentare per contestare questa decisione».

Dunque, il tempestivo ricorso presentato alla Corte d’Appello dal team legale della madre, una nigeriana con esperienze da ostetrica, si è rivelato provvidenziale. Prima che i giudici McCombe, King e Jackson ribaltassero la sciagurata sentenza della Corte di Protezione, si erano registrati gli interventi sulla vicenda di due vescovi britannici.

Si tratta dello scozzese John Keenan, vescovo di Paisley, che aveva pubblicato un video chiedendo di firmare la petizione di Right to Life e parlando di «un pericoloso nuovo sviluppo» nell’imposizione del «potere dello Stato sui suoi cittadini».

L’altra presa di posizione è stata quella del vescovo ausiliare di Westminster, John Sherrington, che sulle tematiche riguardanti la vita umana opera come portavoce della Conferenza episcopale dell’Inghilterra e del Galles. Funzionari dell’arcidiocesi di Westminster hanno invece precisato alla CNA che il cardinale Vincent Nichols non avrebbe fatto nessuna dichiarazione personale sulla vicenda.

«Ogni aborto è una tragedia», ha detto Sherrington, aggiungendo che in un caso del genere si tratterebbe di una tragedia «aggravata» dalla decisione di imporre l’aborto alla ragazza. «Costringere una donna ad abortire contro la sua volontà, e contro quella della sua stessa famiglia, viola i suoi diritti umani, per non parlare del diritto del suo bambino non nato alla vita in una famiglia che si è impegnata a prendersi cura di questo bambino. In una società libera come la nostra, esiste un delicato equilibrio tra i diritti dell’individuo e i poteri dello Stato».

Dopo la solidarietà espressa alla famiglia, «che custodiamo nelle nostre preghiere», il vescovo ausiliare di Westminster ha quindi detto che questo caso «solleva serie domande sul significato del “miglior interesse” [di cui si è vista l’applicazione a fini eugenetici nei casi dei piccoli Charlie Gard e Alfie Evans, di fatto uccisi perché disabili con una scarsa “qualità della vita”, ndr] quando un paziente manca di capacità mentale ed è soggetto alla decisione della corte contro la sua volontà».

Dichiarazioni che in sé e per sé ci stanno, per carità, e nel vuoto pressoché generale sono certo meglio di niente, anche se per la gravità del caso sarebbe stato lecito attendersi dai vescovi inglesi un richiamo ben più potente, che ricordasse pure alle anime decise a imporre l’aborto a questa ragazza il pericolo che corrono per la loro salvezza eterna, facendo la guerra ai piccoli, alla sacralità della vita e, in definitiva, a Dio. Sarebbe stata un’opera di misericordia spirituale.

Ermes Dovico

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