Qualche giorno fa è stato pubblicato il documento vaticano sulla ideologia gender. Tale documento ha irritato molti, tra cui il gesuita padre James Martin, consultore dei media vaticani, e vicino agli ambienti LGBT. Robert George, professore presso la prestigiosa università di Princeton, gli ha scritto questa affettuosa lettera, ma severa nei contenuti, che propongo ai lettori di questo blog nella mia traduzione.
Caro padre Jim [Martin]:
Twitter probabilmente non è il posto migliore per la discussione che mi piacerebbe avere, ma vorrei fare qui alcuni punti in difesa di Papa Francesco e degli insegnamenti della Chiesa che sono fortemente rafforzati nel recente documento su cui tu, nella tua lodevole compassione, hai espresso riserve e preoccupazioni.
Tra le più grandi conquiste del cristianesimo c’è il suo profondo rifiuto della separazione tra l’io interiore e il corpo, cosa che si trova, ad esempio, nel platonismo, nel cartesianesimo e (in modo più pertinente) in varie forme di gnosticismo, antico e moderno. La tentazione di abbracciare tale separazione è perenne, ma la Chiesa ha sempre resistito a essa ed ha testimoniato fedelmente l’unità della persona, del corpo umano e dello spirito. Noi esseri umani non siamo “fantasmi nelle macchine”. Siamo i nostri corpi (qualunque cosa siamo) e non li “abitiamo” e non li usiamo semplicemente come strumenti estrinseci del presunto “io reale”, considerato come psiche, spirito o anima. Il corpo, maschio o femmina, lungi dall’essere un oggetto subpersonale da usare e persino manipolato dal “sé” o “persona”, è parte di un aspetto irriducibile della realtà personale dell’essere umano.
Questa comprensione della persona umana – questa antropologia filosofica – è alla base delle verità morali proclamate dalla Chiesa, comprese (tra le tante altre) quelle relative al matrimonio, alla morale sessuale e alla santità della vita umana. Rifiutarla significa togliere il tappeto da sotto quelle verità. È questa antropologia che è in gioco nel dibattito sull’identità sessuale o di genere. Affermare che la persona umana è il suo corpo (maschile o femminile) non significa affatto suggerire che le persone che sperimentano disforie di genere “non esistano”. E neppure suggerire che tali persone siano qualcosa di meno che portatori di una profonda, intrinseca, e pari dignità, preziosi fratelli e sorelle che meritano di essere non solo rispettati, ma apprezzati e amati.
Rispettare, apprezzare e amare una persona, tuttavia, non richiede – e talvolta non ci permette – di avallare le sue convinzioni filosofiche o ideologiche o, a fortiori, di affermare scelte che possono portare alla luce tali convinzioni. Una normale mossa retorica che si incontra quando si parla di questo punto è l’affermazione che la “verità” di una persona (specialmente la verità sulla sua “identità”) è stabilita dalla sua “esperienza vissuta”. Ma l’esperienza (compresa l'”esperienza vissuta”) non è autolegittimante. Supporre il contrario significa cadere in una forma di soggettivismo che il cristianesimo, l’ebraismo, l’Islam e, in effetti, tutta la sana filosofia rifiutano fermamente. I nostri sentimenti sono reali, ma non determinano la realtà – anche la realtà della propria identità di essere umano. Una disforia, sia che si tratti di una disforia di genere o di un altro tipo di disforia, può indurre una persona sinceramente – e intensamente – a sentire di essere qualcosa di diverso da quello che è, ma non può trasformarlo o trasformarla in quello che lui o lei sente di essere. I sentimenti sono soggettivi, ma le verità antropologiche fondamentali sono oggettive.
Naturalmente, mancare di rispetto a qualcuno che sperimenta una disforia di qualsiasi tipo, compresa una disforia di genere, è sbagliato. Ridicolizzare, canzonare o dileggiare qualcuno che sta cercando di affrontare una disforia, è crudele e grottesco. E’, infatti, non cristiano e, per essere schiettamente giudicante, peccaminoso. E questo è vero indipendentemente dal fatto che un individuo che sperimenta una disforia la affronti in un modo che noi crediamo (o la Chiesa insegna) renda giustizia ai nostri obblighi verso la verità sulla persona umana e la sua identità. Ti ho sempre elogiato e lodato per aver difeso l’umanità e la dignità di tutte le persone, compresi quelli che si identificano come “minoranze sessuali”, compresi quelli che si identificano come transgender. Ma spero che anche tu, in particolare nel tuo ministero pastorale individuale e nel tuo commento pubblico, fonderai il tuo lavoro sulle verità proclamate dalla Chiesa sulla nostra natura incarnata di maschio e femmina.
Avremmo motivi convincenti per affermare queste verità – e per unirci a Papa Francesco nel respingere le ideologie di genere che le rifiutano o le compromettono – anche se non fossimo cattolici. Una sana filosofia è una sana filosofia. Ma come cattolici abbiamo ulteriori motivi per occuparci di queste verità e per unirci alla loro proclamazione, anche quando testimoniarle è difficile e rischioso, come è diventato ai nostri giorni in cui le verità antropologiche e morali fondamentali proclamate dalla Chiesa sono impopolari tra i potenti e le persone influenti. E, se posso dirlo, queste verità devono essere alla base della cura pastorale di un sacerdote o di un diacono nei confronti dei cattolici che sperimentano, e così spesso lottano profondamente con, le disforie di genere. È fondamentale per chi fornisce la cura pastorale dire la verità – l’intera verità – nell’amore, anche quando la verità, o aspetti della verità, sono sgraditi e forse sgradevoli. Trattenere la verità, anche per un senso di compassione, equivale a non amare veramente la persona a cui si è al servizio. La verità, cui noi cattolici crediamo, è liberatrice e vivificante, anche quando è difficile da ascoltare e difficile da vivere. La pastorale e la verità sono nella stessa unità “ilomorfa” del corpo e dello spirito. Sono inseparabili – e ogni tentativo di separarli si rivelerà, alla fine, qualcosa di molto peggio di un semplice fallimento. E il prezzo più alto sarà pagato da coloro che hanno più bisogno di ascoltare tutta la verità proclamata.
In fede, Robby.
Fonte: Mirror of Justice
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