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lunedì 17 giugno 2019

Verso il “casino” – come ci chiede Papa Francesco?

Suor Berzosa, nominata membro dell’Ufficio dei vescovi, dice che il sacerdozio femminile arriverà

La settimana scorsa, il Vaticano ha annunciato che Papa Francesco ha aggiunto quattro donne come Consultrici della Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi.
È stata la prima volta che le donne sono state nominate nel corpo (dei vescovi, ndr), che è stato creato nel 1965 e, come indica il nome, è tradizionalmente maschile.
Tra loro c’è la spagnola Suor Maria Luisa Berzosa, presidente di Faith and Joy, una federazione internazionale dedicata all’educazione e alla promozione del benessere sociale.
Di seguito una intervista a Berzosa fatta da Inés Sant Martín nella mia traduzione.
Papa  Francesco saluta suor Maria Luisa Berzosa Gonzalez al Sinodo dei giovani
Papa Francesco saluta suor Maria Luisa Berzosa Gonzalez al Sinodo dei giovani
Crux: Si aspettava di essere nominata nella commissione permanente del Sinodo?
Berzosa: Assolutamente no. Ho partecipato al Sinodo dei Vescovi sul Discernimento Giovanile e Vocazionale dello scorso anno, e ho avuto l’opportunità di viaggiare in Spagna per condividere questa esperienza. Ma quando tutto questo è finito, anche la mia esperienza sinodale è terminata. Non sapevo nemmeno che ci fosse una commissione permanente della Segreteria del Sinodo! 
È perché ha tenuto dei discorsi memorabili durante il Sinodo del 2018, o sa se è stata scelta per qualcosa che ha detto o ha fatto lo scorso ottobre, mentre l’incontro si è svolto a Roma?
No. Ho partecipato al Sinodo come membro della commissione a cui sono stata assegnata, quella degli esperti e dei consulenti. Come tutti i miei colleghi di quella commissione, ho lavorato molto duramente, perché c’era molto da fare ogni giorno. E’ stata una grande commissione in cui lavorare. Abbiamo lavorato sodo, ma eravamo molto in sincronia.
Ma poiché c’erano pochissime donne al Sinodo – 12 di noi al di fuori dei giovani – siamo state molto significative perché abbiamo insistito per essere visibili. Ci siamo fatte sentire, abbiamo fatto un “casino” – come ci chiede Papa Francesco.
Quanto è significativo il fatto che la commissione permanente del Sinodo abbia ora quattro donne, tre religiose e una laica?
Voglio leggerlo come un piccolo segno, un piccolo passo nel cammino per dare più visibilità alle donne, per includere le loro voci – una pluralità di voci che va oltre quella del clero. È un modo per aprire la prospettiva, aggiungendo punti di vista diversi. Alla fine della giornata, questa è stata la proposta del Sinodo dell’anno scorso: Una Chiesa sinodale, secondo il Concilio Vaticano II, dove non c’è una sola voce o una sola persona, ma una Chiesa che è una comunità di comunità.
Qual è il ruolo delle donne nella Chiesa?
Qual è il ruolo delle donne nella Chiesa, o quale dovrebbe essere? Quelli di noi che sono dentro, che si sentono membra vive della Chiesa e non semplici spettatori, si sentono parte di essa attraverso una cordiale appartenenza e per la fede che abbiamo, ma hanno bisogno di più visibilità, più luoghi di leadership, posizioni di responsabilità, una maggiore presenza nel processo decisionale.
C’è ancora molta strada da fare?
Sì, è vero che la società civile si è mossa molto su questo e c’è ancora molto da fare, e la stessa cosa nella Chiesa. Ma io sono ottimista, non perdo mai la speranza, e voglio credere che mentre continuiamo a fare piccoli passi nella giusta direzione, anche se sembrano insignificanti, stiamo andando avanti, senza fermarci.
E penso che questo sia qualcosa che va a beneficio di tutta la Chiesa, non solo delle donne.
Questo implica che il sacerdozio dovrebbe essere aperto anche alle donne?
Personalmente, dato lo stato attuale della struttura, non vorrei che fosse così. Le cose dovrebbero cambiare. Ma penso che se si fanno passi, si fanno processi, si assumono responsabilità, l'[ordinazione delle donne] ci sarà alla fine di questo processo, senza molto rumore, come una progressione naturale.
È vero che quando accompagno spiritualmente una persona, non posso sentire la sua confessione, e devo chiamare qualcun altro a guidare la liturgia. E a volte vorrei essere in grado di farlo.
Ci sono molte religiose che non sono trattate correttamente, che vengono maltrattate o trattate come se fossero inferiori. Conoscendo la realtà dall’interno, pensa che sia così?
Sì, e c’è molto da fare, ma da entrambe le parti. Credo che non ci siano soggiogatori senza assoggettatamento, né persone soggiogate senza soggiogatori. A volte una persona si arrende o si apre alla sottomissione. Altri, è chiaramente un caso di abuso di potere, impediscono ad una persona di essere libera.
Dobbiamo prestare attenzione, e se ci sono stati casi di sottomissione all’interno della Chiesa, dobbiamo fare in modo che non accadano mai più. Dobbiamo tenere gli occhi aperti e parlare, dire ciò che va detto e porre le domande che vanno poste.
Questo comportamento abusivo non può essere permesso, ma non solo quando si tratta di sorelle religiose. Una persona, chiunque sia, non può essere trattata come fosse meno di un essere umano. Gli abusi di potere non fanno bene agli abusati, ma diminuiscono anche la dimensione umana dell’abusante.
Molte volte chi “serve” non comprende il significato della parola servizio, che non è sinonimo di schiavitù…..
Esattamente. Eppure molte volte finisce per essere schiavitù. Ecco perché abbiamo bisogno di dialogare, di parlare, di esporre le situazioni, senza aver paura di farlo. Perché la paura è anche un modo per sottomettere le persone, che impedisce ad una persona di svilupparsi pienamente.
Lei parla dell’importanza del dialogo, del parlare. Quale ruolo ha Papa Francesco nella costruzione di quello che lei descrive come un cammino in avanti attraverso il dialogo, senza timore di parlare?
Costruisce questo cammino attraverso i suoi gesti, con le sue parole, i suoi atteggiamenti….. Penso che sia un uomo che parla più con i gesti che con le parole, anche se le sue parole sono molto chiare. Il suo modo di accompagnare il cammino della Chiesa è quello di aprire le porte con i gesti, attraverso le parole e facendo piccoli passi.
Forse non riesce a fare tutto quello che vorrebbe fare, o che noi vogliamo che faccia di più, ma apprezzo quei piccoli gesti, ogni piccolo passo avanti. La speranza mi stimola. Non dovremmo avere paura di correre dei rischi. La paura può essere paralizzante.
Deve essere possibile andare avanti senza paura, anche quando si tratta delle donne nella Chiesa: Non siamo ragazze, siamo adulte anche nella nostra fede, e quindi meritiamo di avere voce in capitolo.
Fonte: Crux now

George: “Caro Padre Martin, trattenere la verità, anche per un senso di compassione, equivale a non amare veramente la persona a cui si è al servizio”

Qualche giorno fa è stato pubblicato il documento vaticano sulla ideologia gender. Tale documento ha irritato molti, tra cui il gesuita padre James Martin, consultore dei media vaticani, e vicino agli ambienti LGBT. Robert George, professore presso la prestigiosa università di Princeton, gli ha scritto questa affettuosa lettera, ma severa nei contenuti, che propongo ai lettori di questo blog nella mia traduzione.
Padre Jame Martin, gesuita
Padre Jame Martin, gesuita
 Caro padre Jim [Martin]:
Twitter probabilmente non è il posto migliore per la discussione che mi piacerebbe avere, ma vorrei fare qui alcuni punti in difesa di Papa Francesco e degli insegnamenti della Chiesa che sono fortemente rafforzati nel recente documento su cui tu, nella tua lodevole compassione, hai espresso riserve e preoccupazioni.
Tra le più grandi conquiste del cristianesimo c’è il suo profondo rifiuto della separazione tra l’io interiore e il corpo, cosa che si trova, ad esempio, nel platonismo, nel cartesianesimo e (in modo più pertinente) in varie forme di gnosticismo, antico e moderno. La tentazione di abbracciare tale separazione è perenne, ma la Chiesa ha sempre resistito a essa ed ha testimoniato fedelmente l’unità della persona, del corpo umano e dello spirito. Noi esseri umani non siamo “fantasmi nelle macchine”. Siamo i nostri corpi (qualunque cosa siamo) e non li “abitiamo” e non li usiamo semplicemente come strumenti estrinseci del presunto “io reale”, considerato come psiche, spirito o anima. Il corpo, maschio o femmina, lungi dall’essere un oggetto subpersonale da usare e persino manipolato dal “sé” o “persona”, è parte di un aspetto irriducibile della realtà personale dell’essere umano.
Questa comprensione della persona umana – questa antropologia filosofica – è alla base delle verità morali proclamate dalla Chiesa, comprese (tra le tante altre) quelle relative al matrimonio, alla morale sessuale e alla santità della vita umana. Rifiutarla significa togliere il tappeto da sotto quelle verità. È questa antropologia che è in gioco nel dibattito sull’identità sessuale o di genere. Affermare che la persona umana è il suo corpo (maschile o femminile) non significa affatto suggerire che le persone che sperimentano disforie di genere “non esistano”. E neppure suggerire che tali persone siano qualcosa di meno che portatori di una profonda, intrinseca, e pari dignità, preziosi fratelli e sorelle che meritano di essere non solo rispettati, ma apprezzati e amati.
Rispettare, apprezzare e amare una persona, tuttavia, non richiede – e talvolta non ci permette – di avallare le sue convinzioni filosofiche o ideologiche o, a fortiori, di affermare scelte che possono portare alla luce tali convinzioni. Una normale mossa retorica che si incontra quando si parla di questo punto è l’affermazione che la “verità” di una persona (specialmente la verità sulla sua “identità”) è stabilita dalla sua “esperienza vissuta”. Ma l’esperienza (compresa l'”esperienza vissuta”) non è autolegittimante. Supporre il contrario significa cadere in una forma di soggettivismo che il cristianesimo, l’ebraismo, l’Islam e, in effetti, tutta la sana filosofia rifiutano fermamente. I nostri sentimenti sono reali, ma non determinano la realtà – anche la realtà della propria identità di essere umano. Una disforia, sia che si tratti di una disforia di genere o di un altro tipo di disforia, può indurre una persona sinceramente – e intensamente – a sentire di essere qualcosa di diverso da quello che è, ma non può trasformarlo o trasformarla in quello che lui o lei sente di essere. I sentimenti sono soggettivi, ma le verità antropologiche fondamentali sono oggettive.
Naturalmente, mancare di rispetto a qualcuno che sperimenta una disforia di qualsiasi tipo, compresa una disforia di genere, è sbagliato. Ridicolizzare, canzonare o dileggiare qualcuno che sta cercando di affrontare una disforia, è crudele e grottesco. E’, infatti, non cristiano e, per essere schiettamente giudicante, peccaminoso. E questo è vero indipendentemente dal fatto che un individuo che sperimenta una disforia la affronti in un modo che noi crediamo (o la Chiesa insegna) renda giustizia ai nostri obblighi verso la verità sulla persona umana e la sua identità. Ti ho sempre elogiato e lodato per aver difeso l’umanità e la dignità di tutte le persone, compresi quelli che si identificano come “minoranze sessuali”, compresi quelli che si identificano come transgender. Ma spero che anche tu, in particolare nel tuo ministero pastorale individuale e nel tuo commento pubblico, fonderai il tuo lavoro sulle verità proclamate dalla Chiesa sulla nostra natura incarnata di maschio e femmina.
Avremmo motivi convincenti per affermare queste verità – e per unirci a Papa Francesco nel respingere le ideologie di genere che le rifiutano o le compromettono – anche se non fossimo cattolici. Una sana filosofia è una sana filosofia. Ma come cattolici abbiamo ulteriori motivi per occuparci di queste verità e per unirci alla loro proclamazione, anche quando testimoniarle è difficile e rischioso, come è diventato ai nostri giorni in cui le verità antropologiche e morali fondamentali proclamate dalla Chiesa sono impopolari tra i potenti e le persone influenti. E, se posso dirlo, queste verità devono essere alla base della cura pastorale di un sacerdote o di un diacono nei confronti dei cattolici che sperimentano, e così spesso lottano profondamente con, le disforie di genere. È fondamentale per chi fornisce la cura pastorale dire la verità – l’intera verità – nell’amore, anche quando la verità, o aspetti della verità, sono sgraditi e forse sgradevoli. Trattenere la verità, anche per un senso di compassione, equivale a non amare veramente la persona a cui si è al servizio. La verità, cui noi cattolici crediamo, è liberatrice e vivificante, anche quando è difficile da ascoltare e difficile da vivere. La pastorale e la verità sono nella stessa unità “ilomorfa” del corpo e dello spirito. Sono inseparabili – e ogni tentativo di separarli si rivelerà, alla fine, qualcosa di molto peggio di un semplice fallimento. E il prezzo più alto sarà pagato da coloro che hanno più bisogno di ascoltare tutta la verità proclamata.
In fede, Robby.

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