Quando Paolo Villaggio mi chiese di pregare per lui
Questo non è un ricordo di Paolo Villaggio, non è l’immagonita presa d’atto di quanto il fantozzismo vi sia nell’anima di tanta storia e tanta cronaca d’Italia, non è il tentativo del cristiano perbene di smarcarsi da un uomo che fino alla fine ha tenuto a dire di essere ateo. Questo è un pezzullo senza pretese sulla morte, sulla paura di morire, sul terrore di andarsene da soli.
Nell’autunno del 2002, quando il mio giornale mi mandò a intervistare Villaggio sul set di “Renzo e Lucia”, la morte e il morire per me erano accademia, pretesti buoni per entrare nelle vite degli altri, magari nei loro libri, nei loro film, nelle loro canzoni al riparo di una distanza che per noi si immagina sempre lunga i secoli dei secoli. E invece erano lì, a Dascio, in riva all’alto Lario, e me ne stava parlando un ateo, infilato nei panni del don Abbondio che interpretava per un film ispirato a una rilettura psicoanalitica del Fermo e Lucia.
Non scrissi mai nulla di quella chiacchierata. Ai lettori del mio giornale interessava sapere come Fantozzi si sentisse nei panni del curato manzoniano, se l’Innominato poteva essere una specie di Direttore Megagalattico e quale faccia avesse da quelle parti la contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare. Non erano neanche domande stupide, a pensarci bene, ma i miei lettori esigevano risposte possibilmente spiritose, che non suscitassero pensieri. Nel pezzo che scrissi una volta tornato al giornale riportai appunto quelle domande e quelle risposte, più le canoniche annotazioni che non bisogna bucare quando si va su un set. Il resto lo tenni per me, soprattutto quell’allora mi raccomando, una preghierina anche per me, quando si ricorda che l’ateo Paolo Villaggio mi mise tra le mani al momento di salutarci. Potrei trovare la trascrizione nei miei appunti, l’unica cosa che non butto del mio lavoro, ma non serve perché ricordo tutto benissimo. Soprattutto adesso che mi è chiaro quanto quella distanza dalla morte non sia affatto lunga i secoli dei secoli, anzi. Proprio non c’è.
Mi ha detto che crede in Dio: cosa pensa un cristiano come lei di un prete vigliacco come don Abbondio? Quando le interviste diventano così intime da non interessare più il pubblico appassionato alle risposte spiritose, capita spesso che sia l’intervistato a intervistare l’intervistatore. Era impossibile non parlare di fede al cospetto di Alessandro Manzoni, pur buttato sul lettino dell’analista. Penso che sia la maschera dell’uomo incapace di assumere il proprio destino, per ignavia, come Don Rodrigo. I Promessi sposi sono un grande repertorio di destini e tutto si risolve nella decisione a cui l’uomo è chiamato rispetto al grande disegno della Provvidenza.
Poi si parlò Dostoevskij, incomparabilmente più grande di Manzoni secondo entrambi, più grande di tutti. Io ho paura della malattia, ho paura della morte, ho paura di morire da solo. Forse sono un po’ vigliacco anch’io, per questo mi sono affezionato a don Abbondio. Francamente, non so quanto lui ci credesse più di me… Mi trovo bene in sua compagnia perché non mi chiede niente, neanche uno sforzo, però mi lascia solo perché non mi dice che potrò diventare migliore, mi concede la comodità di non andare fino in fondo.
Ho pensato molte volte a questa sincerità nel dire quello che veramente ci spaventa di noi stessi. Forse non ero pronto per trovarmela davanti così, senza preavviso, dopo una battuta sulla contessa Mazzanti Serbelloni. Mi sono detto che, forse, è più facile affidare un simile timore a un estraneo come il millesimo rompiballe che viene a intervistarti sul set e ne farà ciò che vorrà. Però ho anche considerato che quell’estraneo, almeno per un momento, può essere più intimo di un fratello carnale, magari perché evoca la possibilità di un momento in cui tutto verrà spiegato. Ci ho pensato con una fitta al cuore quando si suicidò Mario Monicelli e l’uomo che in privato mi aveva fatto quella confidenza, in pubblico disse invidio a Mario il coraggio di compiere questo gesto estremo, io non ce l’avrò mai. Non so se questa vigliaccheria fosse la stessa che soprassedeva al tran tran clericale di don Abbondio e nella quale Paolo Villaggio si sentiva così al calduccio. Penso di no. Penso che non si possa vivere soltanto di una vigliaccheria che impedisce persino di farla finita se non si crede in niente. In fondo, il timore di essere vigliacchi non è già un abbozzo di coraggio?
Vede, la gente, il pubblico pensano che io guardi la vita sempre con gli stessi occhi dei miei personaggi, che non possa e non debba cambiare mai. Tutto questo mi tortura, ma, in fondo, mi rassicura perché mi induce a essere fedele a qualcosa, a un modello, anche se non mi rappresenta. Io penso che don Abbondio fosse in una condizione simile, per questo lo comprendo e un po’ lo scuso. Mi guardi, sono vestito come lui, penso come lui… Se lei ha ragione, sono persino ateo come lui, quindi parlo e agisco come lui senza bisogno del copione. Poi, però, bisognerà fare i conti con la morte, lei dice con Dio, io dico con niente… L’unica speranza che ho è quella di rimandarli il più a lungo possibile per fare in modo che la gente continui a vedermi come mi ha sempre visto, senza essere delusa.
Ci pensai con coscienza, poi risposi con una stupidaggine. O meglio, risposi in modo corretto spiegando che l’unico timore che deve accompagnare la morte è quello di non poter andare in Paradiso. Risposi in modo corretto, ma stupidamente perché in certi casi non basta la formula giusta e si dovrebbe capirlo. Ci credevo, ci credo e spero di crederci fino in fondo che la patria di ogni uomo dovrebbe essere il Paradiso, ma non avevo neanche la più lontana idea di cosa vogliano dire la morte e la paura di morire, la strada obbligata per arrivarci.
Forse, non avrei dovuto rispondere. Non basta il catechismo quando il prossimo vuole un po’ del nostro sangue per vedere se è rosso e caldo come il suo, per sapere se esiste almeno la possibilità di trovare qualcuno nella sua stessa condizione mortale, un fratello. È facile parlare della morte altrui, della paura altrui, della solitudine altrui. Invece, si può dire qualcosa soltanto sulla propria, quando non ci si illude più di spostarla in là anche di un solo attimo rispetto a quanto ha stabilito il Signore.
Se penso oggi alla mia morte accettandola come l’unica certezza della mia vita terrena, provo un dolore tremendo all’idea che i miei figli, mia moglie, i miei amici mi possano ricordare come se fossi molto migliore di quanto sia in realtà, di come solo Dio mi conosce. Ho il terrore dell’ultimo, estremo inganno che portiamo nel cuore con il nostro orgoglio. Vorrei che i mei figli, mia moglie, i miei amici mi conoscessero per ciò che sono veramente. Dovrei volerlo, ma non ne ho il coraggio perché ho vergogna del mio peccato e della mia miseria, fatico a dirli a me stesso, figuriamoci alle persone che amo. Così mi nascondo dietro l’immagine che gli altri hanno di me e cerco di somigliarle almeno un po’. Più o meno come Paolo Villaggio diceva di fare con il suo pubblico. L’unica differenza tra me e lui è che io, senza alcun merito, ho trovato Chi mi ha promesso di coprirmi con il manto della sua pietà, basta solo che gli dica sinceramente di sì, come il ladrone buono sulla croce, come il pubblicano nel tempio, due figure del Vangelo che mi sono sempre più care e, spero, almeno un po’ vicine.
Avrei dovuto dire questo a Paolo Villaggio, ma non lo sapevo. Quell’ottobre 2002, l’idea della morte era lontana i secoli dei secoli. Non so che effetto avrebbe prodotto, ma penso che fosse l’unica risposta in grado di mostrargli che esiste la possibilità di togliersi la maschera e liberarsi dalla necessità di apparire come la gente sia convinta che siamo. Invece ho parlato del Paradiso come un imbecille qualsiasi munito di adeguata formuletta, senza rendermi conto che il Paradiso esiste veramente ed è fatto per persone concrete che non ci entrano secondo il giudizio degli uomini, ma secondo quello di Dio.
Nel 2015, l’uomo che fu don Abbondio disse durante un’intervista alla Festa del Cinema: Non credo neppure in Dio e questo Papa argentino così furbo che ha semplificato il linguaggio ha fatto subito una smentita sulla storia del probabile tumore perché anche lui ha paura della morte e come tutti i papi sa che non esiste l’aldilà promesso dai cattolici che non sanno spiegare cos’è. Non mi stupì e sarebbe troppo facile ironizzare sull’impietosa istantanea del papa argentino che non crede all’aldilà, ma tredici anni prima ero io il cattolico che non seppe spiegargli cos’è.
Però gli ho promesso che avrei pregato per lui. Allora mi raccomando, una preghierina anche per me, quando si ricorda. L’ho fatto e continuo a farlo, come faccio sempre per tutti personaggi famosi che muoiono, perché mi sembrano sempre un po’ più soli di noi uomini qualunque. Mi piacerebbe essere come don Fuschini, che non riuscì a far terminare in tempo il saluto a Maria a un suo amico mangiapreti sul letto di morte e allora chiese al Signore di essere clemente con quell’anarchico in arrivo con mezza Ave Maria in mano. Non oso pensare che le mie preghiere abbiano calore abbastanza per essere ascoltate da Dio. Spero solo che il ricordo di quella promessa possa almeno aver lenito un po’ la paura di un uomo che, più di me, aveva chiara l’idea di dover morire. Perché tutto comincia da qui, dalla certezza che la morte non è lontana i secoli dei secoli, amen.
Alessandro Gnocchi
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