ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 30 luglio 2019

L'ellisse “famiglia-Chiesa”

Rigurgiti
Probabilmente ho capito male, non ho compreso bene quanto si voleva esprimere.
Quando ho letto quanto pubblicato in prima pagina dell’Osservatore Romano dell’altro giorno ho pensato a qualche scherzo, che qualche sito di satira avesse ideato una complicata messa in scena; ma no, è più probabile la mia ipotesi iniziale. Abbiate pazienza, è complicato definire cosa si intenda realmente con frasi del tipo “Il campo di forze e di forme attivato dall’ellisse “famiglia-Chiesa” è l’ontologia cristiana poiché è il modo squisitamente evangelico di vivere i legami“.

In un articolo di risposta a quanti hanno hanno gridato di dolore davanti alla demolizione delle fondamenta dell’Istituto Giovanni Paolo II per la Famiglia, con la defenestrazione di quanto e quanti lo avevano definito finora, l’articolista sembra lanciarsi in una tesi alquanto discutibile. Cioè che non sia Cristo, la Legge divina, ciò che la Chiesa dovrebbe comunicare agli uomini, a indicare cosa sia giusto e sbagliato, ma che siano i comportamenti umani a definire ciò che la Chiesa debba dire.
Cito:
“E ciò perché i legami con persone e cose, di cui la famiglia è risultato e origine, il loro spesso oscuro intreccio sensoriale e affettivo, non sono corollari dell’essere, ma sono l’essere; non sono aggiunte secondarie alla realtà, ma la realtà stessa, la sua forza e la sua forma, la sua energia e la sua possibile giustizia. I legami sono la carne del mondo e la famiglia è la carne dei legami”.
A quanto pare sarebbe necessaria questa carne, perché
“Comprendere il mondo in maniera disincarnata significa scarnificarlo, mortificarlo, costringendolo in una gabbia di concetti, norme, progetti e modelli (anche sociologici) inerti.”
A me è venuto in mente un certo Gesù che diceva
“È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono”
Ma forse il suo era un modello inerte. Di fronte all’adultera avrebbe dovuto dire non “Va e non peccare più”, ma “Interessante questo tuo legame, prendiamolo ad esempio”. Non si sarebbe dovuto permettere di pronunciare frasi tipo “Dall’inizio della creazione Dio li fece maschio e femmina. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto“, perché pone limiti troppo stretti a “l’alfabeto necessario se s’intende parlare al mondo”. Si sarebbe dovuto astenere da gabbie di norme tipo “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio contro di lei; se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio”, perché vorrebbe dire staccarsi “dai legami con persone e cose che costituiscono la trama d’ogni famiglia (anche la più complicata) e della realtà tutta“.
Certo è che se questa fosse la “visuale ecclesiologica” che si vuole promuovere, non sarebbe altro che il rigurgito puzzolente di tutte le ideologie anticristiane degli ultimi secoli, la santificazione dei libertini e della visione comunista del rapporto tra le persone. Sarebbe dimenticarsi il piccolo particolare del peccato. Facciamo il male, e quindi non è vero che ogni legame sia sano; sono spesso malati, bisognosi di redenzione. Vorrebbe dire benedire ciò che è l’opposto di quanto Cristo ha detto.
Mentre la Chiesa ha sempre accolto gli adulteri, i conviventi, gli omosessuali, ma non la menzogna del loro comportamento. Non ha permesso che fosse il peccato a definire ciò che proclama, perché il peccato non è la verità.
E se qualcuno invece lo dicesse, fosse pure sulla prima pagina dell’Osservatore Romano, fosse anche consacrato, allora…
Ma probabilmente ho capito male. Ditemi che ho capito male.
Pubblicato da Berlicche

Un sacerdote legge l’intervista di don Chiodi a Moia. Sbigottito, commenta.

Ricevo e volentieri pubblico.
Don Maurizio Chiodi
Don Maurizio Chiodi
 di Un sacerdote (*)
 Caro Sabino, dopo aver letto su La Nuova Bussola Quotidiana della desolante intervista di Luciano Moia adon Maurizio Chiodi, pubblicata sull’inserto domenicale “Noi famiglia & vita” di Avvenire del 28 luglio 2019, mi è venuta in mente una citazione di un bel testo letto da me tempo fa. La riporto qui sotto, con qualche frase di commento:
«“L’impossibilità di oltraggiare la Natura è il più grande supplizio che sia stato inflitto all’uomo”, sospirava in Nouvelle Justine il celebre Marchese De Sade, colui che ha prestato il suo nome alla sindrome psicosessuale detta appunto “sadismo”, ma è anche stato, al tempo stesso, uno dei più tipici rappresentanti del cosiddetto Illuminismo. Forse è proprio a partire da queste parole che si può, seppure a fatica, intuire l’oscuro segreto, la ragione inconfessabile e forse persino inconscia, che guida alcune scelte dell’uomo moderno; una ragione che, anche quando si maschera di positivistico disincanto, mantiene sempre una sua sfumatura mistica, faustiana, quasi il segno incancellabile di una religiosità rovesciata» (E. Perucchietti – G. Marletta, UNISEX. Cancellare l’dentità sessuale: la nuova arma della manipolazione globale, Arianna Editrice – Nuova edizione aggiornata, 2015, pag. 175).
Ebbene, mi sembra che don Chiodi, e i seguaci della sua linea di morale relativistica, siano riusciti là dove De Sade, con un minimo di sussulto realistico, era costretto a riconoscere il suo ultimo fallimento, data l’impossibilità di oltraggiare – appunto – la Natura. Come superare questo ostacolo apparentemente insormontabile? Semplice, si dice don Chiodi, basta cambiare il concetto di Natura, e il gioco è fatto. Infatti “In merito al desiderio sessuale, all’eros, al rapporto tra emozioni e libertà per Chiodi occorre superare «la tentazione di rispondere semplicemente invocando la ‘natura’ umana, intesa come una sostanza immutabile e conosciuta dalla ragione una volta per sempre, in modo innato e identificabile con l’organismo biologico che diventerebbe il ‘dato naturale’ di base»” (art. citato NBQ).
Non è forse questa, quindi, – mi viene da pensare – una forma di ancor più raffinato sadismo finalmente riuscito? Ma, se questa Natura è stata plasmata dalle mani di un Dio che l’ha generata dal suo cuore paterno, e l’ha redenta nel sangue del suo Figlio incarnato, non è uno stupro stesso di questo Dio che viene esercitato da questa “genia di ribelli”, come li chiama profeticamente Ezechiele?: “Questa parola del Signore mi fu riferita: «Figlio dell’uomo, tu abiti in mezzo a una genìa di ribelli, che hanno occhi per vedere e non vedono, hanno orecchi per udire e non odono, perché sono una genìa di ribelli” Ez 12, 1-2). “Ribelli” alla fede, e quindi sacerdoti di una “religiosità rovesciata”, ma chi “rovescia” la fede e i suoi simboli partecipa all’opera del Nemico. Possiamo forse negare a don Chiodi una cattedra prestigiosa là dove ormai questo Nemico si è insediato?: “ricordiamo che don Chiodi è in predicato per diventare uno dei membri più rappresentativi dell’Istituto Giovanni Paolo II dopo il restyling voluto da mons. Vincenzo Paglia” (art. cit. NBQ).
Perché questa “genia di ribelli” non sperimenti un ultimo esilio il Signore chiede a Ezechiele (12, 3-6) di preparare un bagaglio da deportato, e di prepararsi ad emigrare così da essere un segno per il popolo che si è ribellato. Dobbiamo più che mai anche noi assumere come “sacrificio”, un “sacrificio” che prolunga in noi quello di Cristo (v. Col 1, 24), questa estraniazione della fede, questa emigrazione dalla verità che ormai dilaga sempre più, e di cui chi di dovere si dovrebbe occupare (altro che i migranti di Carola Rackete!). Dentro la massa di fuggiaschi che per vie da loro stessi costruite, e che inevitabilmente si dirigono verso “terre di nessuno”, potremo così testimoniare che esiste una meta sicura, una Via che è Qualcuno. 
(*) Un sacerdote è lo pseudonimo di un sacerdote italiano realmente esistente

La Chiesa – in una visione veramente cattolica – non è come un partito politico o un club in cui si entra o si esce a piacimento

“Il Sinodo per l’Amazzonia avrebbe potuto essere un’occasione per ricordarci [che la Chiesa è] una “istituzione divina” e per ispirare nuovi modi di trasmettere la Buona Novella in una terra che non è stata pienamente evangelizzata.
Invece, l’Amazzonia viene usata come proxy per far progredire ciò che i leader cattolici tedeschi sperano possa far risorgere una chiesa chiaramente morente.”
Così Robert Royal su The Catholic Thing, in questo articoloche vi propongo nella mia traduzione. 
Robert Royal
Robert Royal
Venerdì scorso, il cardinale Gerhard Mueller – già capo della Congregazione per la Dottrina della fede (CDF) – ha pubblicato un secondo commento al Sinodo per l’Amazzonia, che si terrà a Roma questo ottobre. Fa seguito ad una sua precedente critica, entrambe asfaltando la natura radicale di quello che è in gran parte un “paradigma” tedesco, non solo per le foreste pluviali del Sud America, ma per tutta la Chiesa.
Il buon Cardinale inizia osservando un fatto che è stato ampiamente riportato ma non sufficientemente compreso: la Chiesa in Germania ha perso più di 216.000 membri nel 2018, al di sopra di analoghi abbandoni degli anni passati. La risposta a questa crisi non è stata – come è avvenuto in simili periodi di difficoltà nella Chiesa (cioè nella Controriforma) – quella di impegnarsi ancora di più nella predicazione del Vangelo. Invece, la Chiesa tedesca ha scelto di “secolarizzarsi” accettando molte cose del nostro mondo postmoderno, il mondo della post-verità che non hanno mai fatto parte del cattolicesimo.
Il risultato era prevedibile. Molte persone hanno concluso che non avevano realmente bisogno di questa Chiesa tedesca secolarizzata, presumibilmente più attraente, poiché potevano già ottenere la maggior parte di ciò che essa stava proponendo senza preoccuparsi della Messa, della Confessione, della Comunione, della monogamia, dell’abnegazione, della carità, della carità, ecc.
Peggio ancora, molti cattolici tedeschi credono ora che la Chiesa non sia il Corpo Mistico di Cristo, una comunione che persiste nel tempo, scelta da Dio, come aveva scelto in precedenza il popolo ebraico, per compiere la sua “rivelazione di sé”.
In altre parole, la Chiesa – in una visione veramente cattolica – non è come un partito politico o un club in cui si entra o si esce a piacimento quando non si gradiscono le posizioni che ha assunto. La Chiesa è letteralmente una “istituzione divina”, una realtà creata per assicurarci il vero cammino della salvezza.
Il Sinodo per l’Amazzonia avrebbe potuto essere un’occasione per ricordarcelo e per ispirare nuovi modi di trasmettere la Buona Novella in una terra che non è stata pienamente evangelizzata.
Invece, l’Amazzonia viene usata come proxy per far progredire ciò che i leader cattolici tedeschi sperano possa far risorgere una chiesa chiaramente morente. Il cardinale Mueller non è convinto:
Se la Chiesa cercasse di legittimarsi davanti a un mondo scristianizzato in modo laico come lobby naturale-religiosa del movimento ecologico, o cercasse di presentarsi come un’agenzia di soccorso per i migranti donando denaro – perderebbe ancora di più della sua identità di sacramento universale della salvezza in Cristo, e non riceverebbe affatto quel tanto agognato riconoscimento da parte del mainstream verde di sinistra.
L’Instrumentum Laboris (IL – “Documento di lavoro”) per il Sinodo avrebbe potuto chiarire – alla gente dell’Amazzonia così come al mondo intero – che il cattolicesimo crede alle parole di Cristo stesso. “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non attraverso di me”. (Gv 14,6)
Questo è, naturalmente, “offensivo” oggi, come lo è stato quando è stato detto per la prima volta. Ma è il punto principale. Se alcuni teologi tedeschi sono così preoccupati per l’imperialismo culturale e l'”etnocidio” da non poter affermare chiaramente questo punto, possono trovarsi nella linea di lavoro sbagliata.
Perché non è difficile, come hanno fatto i missionari in passato, riconoscere – come passo preliminare verso il compito più grande – che Dio è stato all’opera in tutte le culture prima dell’avvento del Vangelo.
Il giusto rispetto per gli altri e per ciò che hanno a cuore, tuttavia, non è mai stato preso come un motivo per smorzare la pretesa cristiana. Piuttosto, è stato un modo per mostrare come ciò che era buono tra ebrei, greci, romani, ora amazzonici, possa trovare il suo vero compimento.
Si possono trovare alcune parole superficiali in tal senso nello sconclusionato testo dell’IL, ma così annacquato che il tutto sembra per lo più qualcosa che avrebbe potuto essere prodotto da un’agenzia di sviluppo delle Nazioni Unite – non da una Chiesa evangelizzatrice.
Si potrebbe persino pensare che i cristiani devono ora considerare una delle “nazioni” a cui sono stati inviati come se avesse una migliore visione di Dio, della creazione e delle relazioni umane rispetto alla nostra.
Per esempio, gli amazzonici non sono ritratti – come ci si potrebbe solo aspettare – come se fossero in possesso di preziose intuizioni o idee. Invece, “È necessario cogliere ciò che lo Spirito del Signore ha insegnato a questi popoli nel corso dei secoli: la fede nel Dio Padre-Madre Creatore”. Dio Padre-Madre-Creatore? Questo equivale a benedire una “fede” diversa.
E non si ferma nemmeno qui. L’Amazzonia è descritta come “un luogo teologico dove si vive la fede, e anche una fonte particolare della rivelazione di Dio: luoghi epifanici dove si manifesta la riserva di vita e la saggezza per il pianeta, una vita e saggezza che parla di Dio”. Il Vaticano II ha dichiarato – in linea con il costante insegnamento della Chiesa – che non attendiamo ulteriori rivelazioni dalla chiusura del Nuovo Testamento. Quindi questo desiderio di elogiare le popolazioni indigene e l’Amazzonia prevale anche sul Vaticano II?
Nel suo ultimo commento, il cardinale Muller ha parole particolarmente aspre per i vescovi che parlano di rinunciare al “potere”:
La forma di “potere” a cui ora desiderano rinunciare è qualcosa che sarebbe stato meglio non avessero avuto fin dall’inizio; e l’autorità spirituale che hanno ricevuto da Cristo alla loro ordinazione, non possono darla via, dal momento che non è una loro proprietà a cui ora possano proporre di rinunciare.
Egli sta parlando di un mondo sviluppato, una nozione ideologizzata di rapporti di potere piuttosto che del potere e dell’autorità di servire, che è l’idea cristiana.
Molte persone hanno notato i problemi con le proposte dell’IL sull’ordinazione di “viri probati” sposati e sulla distribuzione del potere e dell’autorità alle donne. Ma questa abdicazione del vero potere e della vera autorità pervade davvero l’intero sforzo.
Curiosamente, Nostra Signora di Guadalupe, la donna che ha mostrato un potere innegabile, che è stata il canale di conversione di un intero continente – qualcosa di inedito nella storia cristiana – non viene menzionata. Ma forse non è una sorpresa, perché anche suo Figlio è a mala pena presente.

 Robert Royal è un autore cattolico e presidente del Faith & Reason Institute con sede a Washington, D.C.
Royal ha conseguito la laurea e il MA presso la Brown University e il dottorato di ricerca presso la Catholic University of America. Ha insegnato alla Brown University, al Rhode Island College e alla Catholic University of America. Dal 1980 al 1982 è stato redattore capo della rivista Prospect a Princeton, New Jersey. Dal 1986 al 1999 è stato vicepresidente del Ethics and Public Policy Center, insieme al presidente George Weigel dal 1989 al 1996.
È redattore capo di The Catholic Thing (TCT), una pubblicazione online che ha lanciato con Michael Novak. È anche il decano laureato dell’Università Cattolica a distanza e membro del Consiglio di Amministrazione dell’Istituto cattolico per la famiglia cattolica e i diritti umani.

Postille a ‘Famiglia Cristiana’ sulla morale matrimoniale e sulla creazione.







Ci siamo già occupati altre volte delle risposte di Famiglia Cristiana ai suoi lettori su questioni di fede, liturgia, morale et alia.
Risposte fumose se non contenenti vere e proprie eresie: si pensi alla negazione del fatto che Gesù Cristo istituendo l’Eucaristia non abbia voluto istituire un sacrificio rituale (vedi qui).
Oggi volgiamo proporre alte due risposte a domande dei Lettori, accompagnandole con alcune postille tratte dal magistero pontificio e da autori sicuri.
La prima

Famiglia Cristiana, n° 28, 14 luglio 2019, anno LXXXIX
Pio XII alla stessa domanda risponde in modo molto più chiaro a riguardo dei cosiddetti metodi naturali (che sempre più assumono le forme di contraccezione cattolica) evitando l’edonismo nell’uso del matrimonio, di cui questa risposta sembra leggermente pervasa, e affermando i fini gerarchicamente ordinati del matrimonio.
Si presenta inoltre oggigiorno il grave problema, se ed in quanto l’obbligo della pronta disposizione al servizio della maternità sia conciliabile col sempre più diffuso ricorso ai tempi della sterilità naturale (cosidetti periodi agenesici nella donna), il che sembra una chiara espressione della volontà contraria a quella disposizione. Si attende giustamente da voi che siate ben informate, dal lato medico, di questa nota teoria e dei progressi che in questa materia si possono ancora prevedere, e altresì che i vostri consigli e la vostra assistenza non si appoggino su semplici pubblicazioni popolari, ma siano fondati sulla oggettività scientifica e sull’autorevole giudizio di coscienziosi specialisti in medicina e in biologia. È ufficio non del sacerdote, ma vostro, d’istruire i coniugi, sia in consultazioni private, sia mediante serie pubblicazioni, sull’aspetto biologico e tecnico della teoria, senza però lasciarvi trascinare ad una propaganda né giusta né conveniente. Ma anche in questo campo il vostro apostolato richiede da voi, come donne e come cristiane, di conoscere e di difendere le norme morali, a cui è sottoposta l’applicazione di quella teoria. E qui è competente la Chiesa. Occorre innanzi tutto considerare due ipotesi. Se l’attuazione di quella teoria non vuol significare altro se non che i coniugi possono far uso del loro diritto matrimoniale anche nei giorni di sterilità naturale, non vi è nulla da opporre: con ciò, infatti, essi non impediscono né pregiudicano in alcun modo la consumazione dell’atto naturale e le sue ulteriori naturali conseguenze. Proprio in ciò l’applicazione della teoria, di cui parliamo, si distingue essenzialmente dall’abuso già segnalato, che consiste nella perversione dell’atto stesso. Se invece si va più oltre, permettendo cioè l’atto coniugale esclusivamente in quei giorni, allora la condotta degli sposi deve essere esaminata più attentamente. E qui di nuovo due ipotesi si presentano alla nostra riflessione. Se già nella conclusione del matrimonio almeno uno dei coniugi avesse avuto l’intenzione di restringere ai tempi di sterilità lo stesso diritto matrimoniale, e non soltanto il suo uso, in modo che negli altri giorni l’altro coniuge non avrebbe neppure il diritto di richiedere l’atto, ciò implicherebbe un difetto essenziale del consenso matrimoniale, che porterebbe con sé la invalidità del matrimonio stesso, perché il diritto derivante dal contratto matrimoniale è un diritto permanente, ininterrotto, e non intermittente, di ciascuno dei coniugi di fronte all’altro. Se invece quella limitazione dell’atto ai giorni di naturale sterilità si riferisce non al diritto stesso, ma solo all’uso del diritto, la validità del matrimonio resta fuori discussione; tuttavia la liceità morale di una tale condotta dei coniugi sarebbe da affermare o da negare, secondo che l’intenzione di osservare costantemente quei tempi è basata, oppure no, su motivi morali sufficienti e sicuri. Il solo fatto che i coniugi non offendono la natura dell’atto e sono anche pronti ad accettare ed educare il figlio, che, nonostante le loro precauzioni, venisse alla luce, non basterebbe per sé solo a garantire la rettitudine della intenzione e la moralità ineccepibile dei motivi medesimi. La ragione è perché il matrimonio obbliga ad uno stato di vita, il quale, come conferisce certi diritti, così impone anche il compimento di un’opera positiva, riguardante lo stato stesso. In tal caso si può applicare il principio generale che una prestazione positiva può essere omessa, se gravi motivi, indipendenti dalla buona volontà di coloro che ne sono obbligati, mostrano che quella prestazione è inopportuna, o provano che non si può dal richiedente – in questo caso il genere umano – equamente pretendere. Il contratto matrimoniale, che conferisce agli sposi il diritto di soddisfare l’inclinazione della natura, li costituisce in uno stato di vita, lo stato matrimoniale. Ora ai coniugi, che ne fanno uso con l’atto specifico del loro stato, la natura e il Creatore impongono la funzione di provvedere alla conservazione del genere umano. È questa la prestazione caratteristica, che fa il valore proprio del loro stato, il bonum prolisL’individuo e la società, il popolo e lo Stato, la Chiesa stessa, dipendono per la loro esistenza, nell’ordine da Dio stabilito, dal matrimonio fecondo. Quindi abbracciare lo stato matrimoniale, usare continuamente la facoltà ad esso propria e in esso solo lecita, e, d’altra parte, sottrarsi sempre e deliberatamente, senza un grave motivo, al suo primario dovere, sarebbe un peccare contro il senso stesso della vita coniugale. Da quella prestazione positiva obbligatoria possono esimere, anche per lungo tempo, anzi per l’intera durata del matrimonio, seri motivi, come quelli che si hanno non di rado nella cosiddetta «indicazione» medica, eugenica, economica e sociale. Da ciò consegue che l’osservanza dei tempi infecondi può essere lecita sotto l’aspetto morale; e nelle condizioni menzionate è realmente tale. Se però non vi sono, secondo un giudizio ragionevole ed equo, simili gravi ragioni personali o derivanti dalle circostanze esteriori, la volontà di evitare abitualmente la fecondità della loro unione, pur continuando a soddisfare pienamente la loro sensualità, non può derivare che da un falso apprezzamento della vita e da motivi estranei alle rette norme etiche. Ora però voi insisterete forse osservando che nell’esercizio della ,vostra professione vi trovate talvolta dinanzi a casi assai delicati, in cui, cioè, non si può esigere di correre il rischio della maternità, la quale anzi deve essere assolutamente evitata, ed in cui, d’altra parte, l’osservanza dei periodi agenesici, o non dà sufficiente sicurezza, ovvero deve esser scartata per altri motivi. E allora domandate come si possa ancora parlare di un apostolato al servizio della maternità. Se, a vostro sicuro e sperimentato giudizio, le condizioni richiedono assolutamente un «no», cioè l’esclusione della maternità, sarebbe un errore e un torto d’imporre o di consigliare un «sì». Si tratta qui, invero, di fatti concreti, e quindi di una questione non teologica, ma medica; essa è dunque di vostra competenza. Però in tali casi i coniugi non domandano da voi una risposta medica, necessariamente negativa, ma l’approvazione di una «tecnica» dell’attività coniugale assicurata contro il rischio della maternità. Ed ecco che siete così di nuovo chiamate ad esercitare il vostro apostolato, in quanto non lasciate alcun dubbio che anche in questi casi estremi ogni manovra preventiva e ogni diretto attentato alla vita e allo sviluppo del germe è in coscienza proibito ed escluso, e che una sola via rimane aperta, vale a dire quella dell’astinenza da ogni attuazione completa della facoltà naturale. Qui il vostro apostolato vi obbliga ad avere un giudizio chiaro e sicuro e una calma fermezza. Ma si obietterà che una simile astinenza è impossibile, che un tale eroismo è inattuabile. Questa obiezione voi oggi la sentirete, voi la leggerete dappertutto, anche da parte di chi, per dovere e per competenza, dovrebbe essere in grado di giudicare ben diversamente. E si adduce a prova il seguente argomento: – Niuno è obbligato all’impossibile, e nessun legislatore ragionevole si presume che voglia obbligare con la sua legge anche all’impossibile. Ma per i coniugi l’astinenza a lunga durata è impossibile. Dunque non sono obbligati all’astinenza; la legge divina non può avere questo senso». In tal guisa da premesse parzialmente vere si deduce una conseguenza falsa. Per convincersene basta invertire i termini dell’argomento: – Iddio non obbliga all’impossibile. Ma Iddio obbliga i coniugi all’astinenza se la loro unione non può essere compiuta secondo le norme della natura. Dunque in questi casi l’astinenza è possibile. – Abbiamo a conferma di tale argomento la dottrina del Concilio di Trento, il quale, nel capitolo sulla osservanza, necessaria e possibile, dei comandamenti, insegna, riferendosi a un passo di S. Agostino: «Iddio non comanda cose impossibili, ma mentre comanda, ammonisce, e di fare quel che puoi, e di domandare quel che non puoi, e aiuta affinchè tu possa» (Conc. Trid. Sess. 6 cap. II Denzinger n. 804 – S. August. De natura et gratiacap. 43 n. 50 Migne P. L. vol. 44 col. 271). […] La verità è che il matrimonio, come istituzione naturale, in virtù della volontà del Creatore non ha come fine primario e intimo il perfezionamento personale degli sposi, ma la procreazione e la educazione della nuova vita. Gli altri fini, per quanto anch’essi intesi dalla natura, non si trovano nello stesso grado del primo, e ancor meno gli sono superiori, ma sono ad esso essenzialmente subordinati. […] Questo edonismo anticristiano troppo spesso non si arrossisce di erigerlo a dottrina, inculcando la brama di rendere sempre più intenso il godimento nella preparazione e nella attuazione della unione coniugale; come se nei rapporti matrimoniali tutta la legge morale si riducesse al regolare compimento dell’atto stesso, e come se tutto il resto, in qualunque modo fatto, rimanga giustificato dalla effusione del reciproco affetto, santificato dal sacramento del matrimonio, meritevole di lode e di mercede dinanzi a Dio e alla coscienza. Della dignità dell’uomo e della dignità del cristiano, che mettono un freno agli eccessi della sensualità, non si ha cura. Ebbene, no. La gravità e la santità della legge morale cristiana non ammettono una sfrenata soddisfazione dell’istinto sessuale e di tendere così soltanto al piacere e al godimento; essa non permette all’uomo ragionevole di lasciarsi dominare sino a tal punto, né quanto alla sostanza, nè quanto alle circostanze dell’atto. Si vorrebbe da alcuni addurre che la felicità nel matrimonio è in ragione diretta del reciproco godimento nei rapporti coniugali. No: la felicità nel matrimonio è invece in ragione diretta del vicendevole rispetto fra i coniugi, anche nelle loro intime relazioni; non già, quasi che essi giudichino immorale e rifiutino quel che la natura offre e il Creatore ha donato, ma perché questo rispetto, e la mutua stima che esso ingenera, è uno dei più validi elementi di un amore puro, e per ciò stesso tanto più tenero. Nella vostra attività professionale opponetevi, per quanto vi è possibile, all’impeto di questo raffinato edonismo, vuoto di valori spirituali, e quindi indegno di sposi cristiani. Mostrate come la natura ha dato, è vero, il desiderio istintivo del godimento e lo approva nelle legittime nozze, ma non come fine a sé stesso, bensì insomma per il servizio della vita” (Discorso alle ostetriche, 29 ottobre 1951).
La seconda

Famiglia Cristiana, n° 30, 28 luglio 2019, anno LXXXIX
Qui, oltre al non ben specificato “dinamismo di Dio” collegato all’evoluzione del mondo, non capiamo perché ” Il Teologo” non risponda chiaramente alla signora o signorina Marta almeno sulla creazione dell’uomo. Infatti non è vero che la Chiesa non ci dica nulla in merito e soprattutto ha parlato chiaramente: si veda a riguardo la condanna del poligenismo in Humani generis di Pio XII.
Il padre domenicano Marco Maria Sales (professore all’Angelicum e Maestro del Sacro Palazzo sotto Pio XI), commentando il passo di Genesi: “Il Signore Iddio adunque formò l’uomo di fango della terra, e gli ispirò in faccia un soffio di vita: e l’uomo fu fatto anima vivente” (II, 7) dice: “Se l’uomo divenne animale vivente in virtù del soffio ricevuto da Dio, vuol dire che prima non era tale; dal che si deduce che Dio non infuse già l’anima umana nel corpo di un animale perfezionato, come vorrebbero i seguaci dell’evoluzionismo, ma bensì in un corpo da lui stesso immediatamente formato […] Si deve quindi ritenere che il primo uomo sia quanto all’anima e sia quanto al corpo fu creato immediatamente da Dio” (Vecchio Testamento, Vol. 1, p. 77).
E in conclusione ci piace citare anche il padre Dragone che fu membro della (ancora sana e benemerita) Famiglia Paolina, il quale nel suo Commento al Catechismo di San Pio X spiegando le domande 1 e 66 dice: “Apprendiamo con certezza che Dio creò direttamente Adamo ed Eva, il progenitori del genere umano, del quale Egli è il principio, la via (modello), e il fine ultimo […] Creare significa fare qualcosa dal nulla servendosi di nulla. Solo Dio può creare perché è onnipotente […] Dio creò l’anima di Adamo e di Eva e formò il loro corpo. Degli altri uomini crea direttamente l’anima e il corpo […] Adamo ed Eva furono creati immediatamente da Dio, che modellò il loro corpo modificando la materia preesistente (la terra rossa significata dal nome Adamo, ndr) e creò direttamente la loro anima infondendola nel corpo plasmato dalle sue mani. Perciò la persona dei nostri progenitori non ha avuto origine per evoluzione spontanea da esseri inferiori come dicono gli evoluzionisti“.
Ci auguriamo di aver colmato le lacune di Famiglia Cristiana.

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