In vista del Sindo dell’Amazzonia, il card. Brandmüller, che era già autorevolmente intervenuto, ritorna sulla questione del celibato sacerdotale prendendo spunto da un articolo di Hubert Wolf sul celibato: “Matrimonio e consacrazione non si contraddicono a vicenda”. Affronta la questione secondo la sua competenza, cioè dal punto di vista storico. Dice il card. Brandmüller: “Così i primi discepoli di Gesù, che poi chiamò apostoli (inviati), secondo quanto dice il Vangelo lasciarono casa, fattoria, moglie e figli, padre e madre, per seguire Gesù. (…) L”abbandono di tutto’ per il Vangelo è, in ogni caso, lo stile di vita dei discepoli di Gesù del primo secolo”.  
Dalla Germania Alessandra Carboni Riehn ci ha inviato nella sua traduzione l’articolo che il card. Brandmüller ha scritto per Frankfurter Allgemeine Zeitung.

Card. Walter Brandmüller
 Spirito nella bottiglia: i tempi della fioritura ecclesiastico-culturale sono sempre stati caratterizzati anche dalla fedeltà al celibato. Una risposta alle tesi di Hubert Wolf.
 Proprio in tempo prima dell’inizio del controverso Sinodo amazzonico, convocato per ottobre, appare un articolo di Hubert Wolf sul celibato: “Matrimonio e consacrazione non si contraddicono a vicenda”. Nessuno che osservi attentamente la situazione attuale della Chiesa cattolica crederà seriamente che nel Sinodo di ottobre si debba trattare davvero del destino delle foreste amazzoniche e dei loro abitanti – non sono più che la metà degli abitanti di Città del Messico. “Amazzonia” è solo l’etichetta – lo “spirito nella bottiglia” ha un altro nome: ristrutturazione radicale della chiesa secondo il ben noto programma.
Un punto chiave è il celibato. Quando il celibato cade, dicevano già gli oppositori della Chiesa alla fine dell’Ottocento, allora anche la Chiesa è finita. In questa strategia vanno allineati anche l’articolo e il nuovo libro di Hubert Wolf. Invece di commentare criticamente le singole affermazioni di Wolf, sembra più propositivo fare riferimento ai fatti reali. Bisogna chiarire che il requisito del celibato per i candidati agli ordini maggiori non si basa semplicemente su una legge ecclesiastica che potrebbe essere abrogata o modificata dall’atto legislativo di un papa o di un concilio.
 Gli apostoli hanno abbandonato ogni cosa.
 Anche l’affermazione spesso letta che il celibato non è un dogma non è stringente. In effetti, il celibato non è un insegnamento della Chiesa. Tuttavia, è richiesta la disponibilità del candidato all’ordinazione a far propria, con il sacerdozio, la forma di vita di Cristo e dei suoi apostoli. Proprio per questo motivo il celibato è contenuto genuino della tradizione apostolica. Questo è ciò che gli apostoli “trasmettono attraverso la predicazione orale, l’esempio e l’istruzione, ciò che avevano ricevuto dalla bocca di Cristo, stando con lui e attraverso la sua opera, o ciò che hanno imparato dall’ispirazione dello Spirito Santo”. Questo è ciò che insegna il Concilio Vaticano II. Questa “tradizione” ha lo stesso valore vincolante della Sacra Scrittura: entrambe contengono una rivelazione divina.
Così i primi discepoli di Gesù, che poi chiamò apostoli (inviati), secondo quanto dice il Vangelo lasciarono casa, fattoria, moglie e figli, padre e madre, per seguire Gesù. Sarebbe incomprensibile supporre che gli autori dei Vangeli abbiano disegnato qui un ideale che la loro stessa vita reale avrebbe contraddetto. L'”abbandono di tutto” per il Vangelo è, in ogni caso, lo stile di vita dei discepoli di Gesù del primo secolo. Se vi aggiungiamo l’apostolo Paolo, che stima altamente il celibato per servire la “causa di Gesù”, è chiaro che il celibato corrispondeva – e corrisponde – al servizio del Vangelo.
Nel passaggio al periodo post-apostolico a partire dal 70 d.C. sorsero nelle città numerose comunità cristiane, motivo per cui nelle lettere a Tito e Timoteo già si ordina l’instaurazione di presbiteri – gli anziani – mediante l’imposizione delle mani (consacrazione). Tra le altre cose, al candidato si chiede di essere stato “sposato una sola volta”, il che esclude una persona sposata in un secondo matrimonio.

Tempi di fioritura ecclesiastico-culturale

 Come si giustifica questa restrizione? Si credeva che chi, rimasto vedovo, si fosse risposato una seconda volta, non avrebbe avuto la forza di restare astinente come richiesto al presbitero. Per questo motivo venivano consacrati uomini che avevano figli già grandi. Così, dal momento della consacrazione, proseguiva la vita familiare, ma non la comunione sessuale coniugale.
E’ evidente che si trattava di una pratica vissuta molto prima che fosse formalmente prescritta come legge. Non c’è quindi alcuna traccia di discussioni al riguardo, come invece ci si sarebbe potuti aspettare se fosse stata imposta una nuova legge in modo autoritario. Al contrario, ben presto si cominciò a consacrare solo uomini più giovani non sposati. Una linea diretta collega le parole e l’esempio di Gesù e degli Apostoli attraverso il Corpus Iuris Canonici del Medioevo fino al Codex Iuris Canonici del 1983.
Questo percorso attraverso i secoli ha avuto indubbiamente le sue salite e discese. Ma a posteriori è chiaro che i tempi di fioritura ecclesiastico-culturale sono sempre stati segnati anche dalla fedeltà al celibato – e viceversa. C’è stato, ad esempio, il tempo di Carlo Magno e dei suoi discendenti, i tempi del “Rinascimento carolingio”, poi il fiorire ecclesiastico-culturale tra gli imperatori sassoni, che andrebbero qui menzionati.

L’ideale del celibato

Successivamente il Movimento Francescano, l’Ordine di San Domenico, che si diffuse epidemicamente nelle università allora sorgenti, e prima ancora la fondazione di centinaia di monasteri cistercensi fino in Polonia, testimoniarono la forza di attrazione dell’ideale del celibato per il Regno dei Cieli. Questi furono i potenti impulsi da cui fiorì la cultura dell’alto Medioevo. Questo vasto paesaggio di verità, bontà, bellezza, santità scompare quando i riflettori si rivolgono voyeuristicamente a quegli scandali, naturalmente presenti, che ai nostri giorni hanno lo scopo di screditare l’istituzione, il valore spirituale del celibato sacerdotale.
Qui non si può parlare di scienza storica seria, come non era storia quando si scrivevano solo vite dei santi e canti di eroi. Con quale motivazione Wolf ignora i risultati di autori riconosciuti come Henry Crouzel (1963), Roger Gryson (1970), Christian Cochini (1981/1990), Johannes Bours e Franz Kamphaus (1991), Alfons M. Stickler (1993), Stefan Heid (2003), Klaus Berger (2009) e Andreas Merkt (2015)?
Si può discutere su quale parte della storia si siano alternate luci e ombre – ma, per favore, secondo i requisiti del metodo storico-critico e non sotto l’influenza dell’adrenalina. Ora, però, in questo contesto, si fa sempre riferimento all’esempio delle chiese ortodosse o bizantino-orientali unite a Roma. Lì si richiede il celibato ai vescovi, ma non ai sacerdoti, motivo per cui i diaconi di solito si sposano prima dell’ordinazione sacerdotale.
 Differenze tra vescovi e sacerdoti
 In questa pratica “ambienti riformisti” ritengono di vedere un modello con cui rimediare alla carenza di sacerdoti nell’Occidente latino: una carenza di sacerdoti che, se si confronta il numero di sacerdoti con quello dei cattolici che partecipano alla vita ecclesiale, in realtà non esiste affatto. In realtà non si vogliono più quei sacerdoti ordinati che Martin Lutero definì oltraggiosamente semplici “idoli dell’olio”, essendo tutti i battezzati in quanto tali già papa, vescovo o sacerdote.
Ma anche il regolamento della Chiesa orientale suscita domande. È notevole che il celibato è ancora obbligatorio per i vescovi, mentre il matrimonio è permesso per i sacerdoti, ma in preparazione alla celebrazione eucaristica per un certo numero di giorni è richiesta l’astinenza coniugale. Non si esprime in questo regolamento una tensione tra azione liturgico-sacramentale e sesso coniugale?
Quando, nel corso della soppressione sovietica della Chiesa cattolica di rito orientale in Ucraina e nelle regioni limitrofe nel 1946 a Lviv, per mezzo di uno pseudo-sinodo organizzato dal partito, queste chiese cattoliche furono unite forzatamente alla Chiesa ortodossa russa, i vescovi rimasero fedeli al Papa e alla Chiesa fino al martirio. Centinaia di sacerdoti si trovarono di fronte all’alternativa di rimanere in carica per sfamare le loro famiglie o di sprofondare, fedeli alla Chiesa e al suo giuramento, nella miseria. È facile immaginare quali tormenti di coscienza questi sacerdoti abbiano sofferto. Una scelta da cui il celibato li avrebbe preservati.

Il desiderio di unità

 La pratica orientale descritta fu introdotta per la prima volta dal Concilio di Costantinopoli nel 691. Le disposizioni corrispondenti erano state emanate per volontà imperiale, ma non ottennero mai l’approvazione di Roma. In realtà, si trattò di una rottura con la tradizione apostolica che nessuno dei papi poteva ratificare. Con il consolidamento della frattura tra Oriente e Occidente, si creò anche in questo senso il fatto compiuto.
Quasi mezzo millennio dopo, nel corso della riunificazione delle diocesi precedentemente separate con la Chiesa d’Occidente, si venne a creare una nuova situazione. Se in tali circostanze i papi concessero al clero di continuare nella pratica come fino ad allora, ciò era nell’interesse superiore dell’unità riconquistata. Una situazione simile si è verificata ai nostri giorni, quando nel mondo anglicano è sorto un ampio desiderio di unità con la Catholica, che ha portato al ritorno di intere parrocchie e diocesi alla comunione con Roma. Fu Benedetto XVI che, in considerazione di questa situazione storica, permise all’ex clero anglicano, che ora cercava anche l’ordinazione sacerdotale, di restare nella loro situazione matrimoniale. Da allora in poi, tuttavia, solo i candidati disposti al celibato possono essere ammessi per l’ordinazione. Forse questa sarebbe stata una soluzione promettente anche per l’Oriente.
Negli ultimi centocinquant’anni non c’è stato quasi un Papa che non abbia sottolineato la dignità, la bellezza spirituale e la fecondità di questo modo di seguire Gesù. La vera ragione sta nella natura stessa del sacerdozio. Il sacerdote che celebra il sacrificio di Cristo sull’altare lo fa “in persona Christi” e in virtù del sacramento dell’Ordine che ha ricevuto con l’imposizione delle mani del Vescovo. Chiunque sia così esistenzialmente integrato nell’opera di redenzione di Cristo non dovrebbe vivere anche in “persona Christi”, assumendo la forma di vita del suo Maestro?
Informazioni sull’autore:
Il cardinale Walter Brandmüller, nato ad Ansbach nel 1929, è stato a capo del Pontificio Comitato per le Sienze Storiche dal 1998 al 2009.
Il vero “volto dell’Amazzonia”: una cultura di morte (prima parte)
L’articolo di Kathy Clubb1 è stato pubblicato su The Freedoms Project2 il 25/06/19 con il titolo “The real ‘face of the Amazon’: a culture of death”. Lo pubblichiamo nella traduzione di Marco Manfredini.
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Infanticidio e suicidio fanno parte tradizionalmente della cultura in molte zone della regione amazzonica. Per quale motivo quindi l’Instrumentum Laboris (IL) del Sinodo di ottobre invita la Chiesa Cattolica ad assumere un “volto amazzonico”?
Il Sinodo si focalizzerà su un gruppo di paesi che circondano il bacino amazzonico dell’America Latina: Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Guyana, Guyana Francese, Perù, Venezuela e Suriname. Nell’annunciare il Sinodo, Papa Francesco ha chiamato la chiesa a“trovare nuove vie per evangelizzare quella parte di popolo di Dio, specialmente indigena, spesso dimenticata e senza la prospettiva di un futuro di pace”. Quello che il Papa e i suoi collaboratori dimenticano di menzionare è che, oltre alle sofferenze causate dallo sfruttamento da parte di grandi aziende, sono le comunità stesse causa di questa mancanza di pace. Mentre particolare attenzione è data all’”ecocidio”, non si fa menzione di infanticidio, suicidio o parricidio, i quali fanno parte del tessuto vitale in Amazzonia.
Il Sinodo in arrivo a ottobre è stato causa di preoccupazione già dal suo documento preparatorio pubblicato nel 2018, con i suoi richiami a una “conversione ecologica” e all’ordinazione femminile. Da allora, la suggestione che le ostie potessero essere fatte di yuca anziché di farina di grano (rendendo quindi invalido il sacramento), ha fortunatamente perso credito. Ora che il documento di lavoro (IL) è stato reso noto, molti motivi di preoccupazione rimangono: il focus sull’ecologia integrale e l’eco-teologia, la promozione della teologia indiana (propaggine dell’eretica teologia della liberazione), e il tema ricorrente che la Chiesa avrebbe molto da apprendere dalla spiritualità pagana.
Sono stati scritti molti buoni articoli che evidenziano le minacce del Sinodo verso il celibato ecclesiastico, l’esclusiva ordinazione al sacerdozio di uomini, l’integrità dottrinale, perciò questo articolo si concentrerà sulle pratiche tribali contrarie alla vita in uso nella regione Pan-amazzonica. Secondo i documenti finora conosciuti il moderno colonialismo occidentale è accusato per l’aumento degli aborti, delle violenze famigliari e per l’uso delle droghe nell’area. Non si fa riferimento alla tradizionale accettazione di queste pratiche anti-vita nella cultura amazzonica.
INFANTICIDIO IN AMAZZONIA È difficile stabilire il numero preciso di infanticidi commessi nella regione, visto che molti casi non vengono riportati, e molti sforzi per indagare vengono ostacolati dalla teoria politica per cui qualsiasi intervento esterno è visto come “imperialista”, “colonialista” e “patriarcale”. I relativisti culturali sostengono che le popolazioni indigene debbano essere protette dall’essere perseguite dalla legge per l’attuazione di pratiche quali infanticidio ed eutanasia, e disapprovano qualsiasi tentativo di scoprire quanti bambini e adulti vengono in questo modo uccisi. Costoro affermano che la raccolta di dati “rappresenta in ogni caso un tentativo di incriminare ed esprimere un pregiudizio contro i popoli indigeni”, ed è una nuova forma di colonialismo.
Secondo un articolo del 20183, circa venti gruppi tribali brasiliani su un totale di trecento praticano l’infanticidio, e si stima che circa un centinaio di bambini venga ucciso ogni anno4.
Uno studio sull’infanticidio tra la tribù brasiliana degli Zuruahá getta luce sulla filosofia alla base della pratica5. Osserva che l’infanticidio è stato tollerato storicamente per diverse ragioni: come mezzo per liberare le comunità tribali, che vivevano in condizioni molto dure, del peso di prendersi cura dei membri più deboli o per assicurarsi che le madri fossero in grado di accudire adeguatamente i figli già avuti. Così gemelli, disabili o malati venivano uccisi (e vengono ancora uccisi) dopo la nascita. E se una madre muore durante il parto, anche il neonato spesso viene soppresso.
Anche la superstizione gioca tutt’oggi un ruolo in queste culture dell’America Latina contemporanea. I nati albini vengono considerati malvagi e vengono uccisi una volta scopertane la condizione. Nello studio si fa l’esempio di una famiglia della tribù Kuikúru che ha ucciso tre bambini affetti da albinismo. A un figlio avuto in precedenza, anch’egli affetto dalla malattia, era stato permesso di vivere solo perché i genitori pensavano che avrebbe cambiato colore crescendo.
Anche le norme sociali conducono all’infanticidio: i bambini nati da madri non sposate vengono solitamente uccisi, e viene comunemente accettata l’uccisione di un figlio del sesso non voluto (solitamente femmine, vista la preferenza per i maschi). Un’altra tribù consente l’infanticidio dopo quattro fratelli dello stesso sesso, indipendentemente da quale sia.
Questo testo sulla tribù Yanomámi spiega come giustificano l’infanticidio: “Le donne Yanomámi hanno piena autonomia nel decidere se i propri figli dovevano vivere o no. La madre si ritira nella foresta per dare alla luce il figlio, ma se non lo accoglie tra le braccia dopo la nascita è come se non sia mai venuto al mondo. Quindi si può dedurre che in quella cultura c’è una ‘nascita post-parto’, in altre parole un atto di ‘nascita culturale’: quando la madre non riconosce il neonato, non lo tocca e lo abbandona nella foresta. In questo modo il bambino è come se per la comunità non fosse nato”.
Un altro esempio mostra come queste pratiche si svolgono nella vita reale. L’episodio seguente ha luogo all’interno della tribù Surawaha, dove la famiglia Suzuki esercitava la missione cristiana negli anni ’90. I Surawaha non avevano avuto contatti con il mondo esterno fino agli anni ’70. “Ad un certo punto, durante la permanenza dei Suzuki tra i Surawaha, la tribù decise che due bambini, i quali sembravano avere problemi di crescita, dovessero morire. I genitori, piuttosto di uccidere i due figli, si suicidarono. La tribù allora seppellì vivi i due bambini, secondo la consuetudine (dice Suzuki). Una dei due, una ragazza di nome Hakani, riuscì a sopravvivere al calvario, ma la comunità decise di lasciarla morire di fame. Suo fratello maggiore la tenne in vita per qualche anno, fornendole i suoi avanzi di cibo di contrabbando, arrivando infine a portarla ai piedi dei Suzuki”.
I Suzuki adottarono la ragazza, una mossa che sollevò la questione della tolleranza all’infanticidio del Brasile a livello internazionale. Tolleranza che è alimentata dal supporto di celebrità hollywoodiane, alcune delle quali hanno adottato la causa culturale delle pratiche di morte quasi allo stesso modo in cui hanno adottato la causa dell’aborto legale. Questi relativisti culturali possono contare su accademici, eticisti ed antropologi a supporto delle loro convinzioni. Ad esempio, un antropologo dell’università di Brasilia descrive la giustificazione dell’infanticidio da parte dei nativi in questo modo: “Un bambino indigeno, appena nato, non è una persona. Lui o lei subirà un lungo processo di personalizzazione fino ad acquisire un nome, e con questo lo status di persona. Perciò, i casi molto rari in cui i neonati non vengono inseriti nella vita sociale della comunità non possono essere considerati come morti, in quanto non lo sono. Infanticidi, poi, non saranno mai”.
IL SUICIDIO È “IL PIÙ ALTO TRA TUTTI VALORI” Lo studio sull’infanticidio tra gli Zuruahá menziona anche il suicidio come questione correlata, siccome molti genitori i cui figli sono condannati a morte dalla comunità preferiscono commettere suicidio piuttosto che vedere uccisi i propri figli. Per l’occidentale medio, che non mette in questione la protezione della propria progenie, questa pratica appare estremamente aberrante e irresponsabile. Ma diventa più facile da capire quando viene spiegata la devozione tribale al suicidio:
Il suicidio tra gli Zuruahá presenta caratteristiche storiche e religiose, oltre che crisi e tensioni sociali. Viene visto come una forma di esistenza umana, al punto che solo attraverso la morte è possibile raggiungere la vera esistenza. Gli indiani dicono che l’esistenza acquista senso solo se ha come scopo il suicidio. Le loro linee guida per comprendere la vita indicano che il suicidio è il più alto di tutti i valori. 
La filosofia Zuruahá dice che ci sono solo due strade per condurre al fine l’esistenza umana: la prima tramite il suicidio per avvelenamento, chiamato 
kunaha, che conduce al paradiso chi ha ingerito il veleno […]. I loro riti, canti e preghiere si riferiscono a questo e conducono a questa vera esistenza. La seconda strada porta alla morte per vecchiaia, ma questa è considerata oggi ardua…
Data questa interpretazione della vita umana, attendere di diventare vecchi non è sinonimo di saggezza. Per tale ragione, in questa cultura, i vecchi non godono dello status di uomini saggi e venerabili, come comunemente avviene tra altre comunità indigene. Qua vengono chiamati hosa, una parola che significa “inutili”, “esauriti”. Inoltre, molti di essi hanno alle spalle tentativi di suicidio non riusciti. Al fine di evitare un futuro di dolore e disprezzo in vecchiaia, i bambini iniziano molto presto a vivere considerando la possibilità di suicidarsi. Nei loro giochi, ragazzi e ragazze fingono di morire e si immaginano come sarà il loro funerale. Tutti sanno come usare il timbó, una specie di liana che contiene un veleno mortale, e ne considerano l’utilizzo come un atto di coraggio. Per questa ragione “i genitori vivono nella convinzione che un giorno i loro figli berranno veleno”.
Statistiche raccolte sulle tribù tra il 2003 e il 2005 mostrano che circa un sesto della popolazione ha commesso suicidio in quel periodo (vi sono anche due casi di infanticidio). Questa visione pagana della vecchiaia e della morte, unita all’assenza di una comprensione della vita umana come valore intrinseco, contraddice i numerosi riferimenti nell’IL riguardo alla “saggezza ancestrale”.
CANNIBALISMO Una delle usanze più sconvolgenti trovate in Amazzonia è il cannibalismo rituale. Ciò è ben documentato, essendo praticato dalle tribù Yanomami e Wari’. Secondo il sito di TFP6“Un’usanza primitiva di questo gruppo etnico è il cannibalismo rituale. In un rito funerario sacro e collettivo, cremano il corpo del parente morto e ne mangiano le ceneri delle ossa, mescolandole con la pasta pijiguao, fatta con il frutto di una specie di palma. Credono che l’energia vitale del defunto risieda nelle ossa e venga con questo rituale reintegrato nel gruppo di famiglia. Allo stesso modo, uno Yanomami che uccide un avversario in territorio nemico pratica questa forma di cannibalismo per purificare sé stesso”.
In modo simile, le tribù Wari’ del Brasile mangiavano la carne dei propri vecchi morti e dei propri nemici, fino alla fine del ventesimo secolo. L’endocannibalismo (il cibarsi degli appartenenti alla propria tribù) era visto come un rito funerario, a riprova che il deceduto fosse veramente passato dalla terra. Per gli Wari’ non si trattava di cannibalismo, visto che i membri morti della tribù erano trascesi nell’”altro”. Per contrasto, l’esocannibalismo veniva affrontato con entusiasmo anziché rispetto, come segno di dominazione su una tribù più debole.
È interessante notare come Paul Erlich, autore del libro The Population Bomb e uno dei più grandi sostenitori del controllo della popolazione, ha annunciato nel 2014 che la sovrappopolazione e la scarsità di risorse finiranno per spingere gli esseri umani affamati al cannibalismo. Erlich è stato ospite alla Pontificia Accademia delle Scienze del Vaticano in una conferenza del 2017 sull’estinzione biologica, con grande disappunto dei fedeli cattolici di tutto il mondo.
L’USO DI DROGHE FA PARTE DELLE RELIGIONI TRIBALI In tutto l’IL i mali sociali come la violenza sulle donne e il traffico di droga sono costantemente attribuiti all’industria estrattiva e ai mega progetti. Ma è falso affermare che i progetti moderni sono l’unica causa di tali mali. La violenza contro le donne fa parte della cultura tribale di molte di queste comunità, e l’utilizzo di droghe nei rituali di guarigione spirituale è pratica comune. Di fatto, una nuova industria è sorta attorno alla cultura delle droghe allucinogene, l’ayahuasca7, tanto che stranieri si affollano per provare l’esperienza di alterazione mentale che queste producono. Si sono verificati molti tragici casi in cui turisti, sotto l’influenza dell’ayahuasca, hanno assassinato amici e colleghi8.
Nonostante l’uso diffuso di questi allucinogeni nelle “cure di assistenza sanitario-spiritica”, l’IL suggerisce che:“I rituali e le cerimonie indigene sono essenziali per la salute integrale perché integrano i diversi cicli della vita umana e della natura. Creano armonia ed equilibrio tra gli esseri umani e il cosmo. Proteggono la vita dai mali che possono essere causati sia dagli esseri umani che da altri esseri viventi. Aiutano a curare le malattie che danneggiano l’ambiente, la vita umana e altri esseri viventi” (IL, 87).
Qua c’è un po’ della tradizionale medicina amazzonica ayahuasca, dal sito del “Tempio della Via della Luce”:
L’uso dell’ayahuasca è largamente diffuso e rappresenta la base della pratica di medicina tradizionale per almeno 75 diverse tribù attraverso l’alta e bassa Amazzonia.
Tradizionalmente, l’uso di ayahuasca nelle pratiche di guarigione in Amazzonia è limitata ai guaritori, che la usano come strumento diagnostico per una varietà di compiti che riflettono una serie di valori culturali e psicologici molto diversi da quelli che conosciamo in occidente.
L’ayahuasca non viene presa direttamente dai pazienti, che assistono semplicemente alla cerimonia per ricevere la diagnosi e le successive cure. Identificando la causa della malattia (sfortuna e stregoneria, per esempio), e risolvendo il danno energetico causato dalla gelosia e dall’invidia, i guaritori indigeni riconoscono il potere distruttivo delle emozioni umane negative e il loro impatto non solo sull’individuo ma sulla salute dell’intera comunità.
L’ayahuasca è usata dai guaritori anche per altri scopi: aiutare a prendere decisioni importanti, chiedere consiglio agli spiriti, risolvere conflitti personali, tra famiglie e comunità, esercitare le proprie capacità divinatorie, chiarire misteri, furti e sparizioni, scoprire se abbiamo nemici e sapere se un coniuge è infedele.
L’ayahuasca viene anche usata per prescrivere trattamenti ai pazienti, guidando il guaritore nella somministrazione di 
ikaros[canti rituali di guarigione, ndt] e rimedi vegetali. Ma non è l’unico “spirito vegetale” coinvolto. L’Ayahuasca lavora tramite il guaritore in combinazione con una pletora di altri dottori dello “spirito vegetale” per fornire un trattamento. Essa è solo uno dei nodi all’interno di un sistema molto più ampio di assistenza sanitaria “spiritizzata” in Amazzonia. La guarigione tradizionale amazzonica offre soluzioni a malattie e disturbi che tipicamente non possono essere trattati con la medicina convenzionale.9
Quindi, lungi dall’essere una semplice questione di integrare la tradizionale medicina erboristica nell’assistenza sanitaria contemporanea, diventa ovvio che è impossibile separare gran parte della medicina popolare dell’Amazzonia dai propri rituali pagani e dall’utilizzo della divinazione e della stregoneria. Accoppiata all’uso di allucinogeni, questa diventa una proposta pericolosa, che presenta rischi per la salute fisica e spirituale dei pazienti.
Ma invece di lanciare un avvertimento sui pericoli che si corrono dilettandosi in pratiche occulte, l’IL raccomanda di emulare queste famiglie tribali, dove “[…] si impara a vivere in armonia: tra i popoli, tra le generazioni, con la natura, in dialogo con gli spiriti” (IL, 75).
E nel caso ci sia qualche dubbio sulla natura del potere di cui si servono questi sciamani pagani, il seguente esempio servirà da promemoria. Un missionario olandese ha raccontato la storia di un sacerdote mandato nella regione Amazzonica a predicare il Vangelo. Fu affrontato in diverse occasioni da uno stregone locale, il quale: “Aveva il potere di spostarsi in un modo incomprensibile, lasciando che il buon padre scendesse dal fiume da solo per incontrarlo di nuovo molto più a valle, insultandolo copiosamente nel suo dialetto nativo. Il missionario non aveva alcun dubbio sull’esistenza del demonio e sapeva da quale tipo di malignità stava cercando di convertire gli indiani”.10
1Kathleen Clubb è una donna australiana attiva nel mondo pro-life da sei anni. Coordinatrice in Melbourne di Family Life International, fondatrice dei siti Light up the Darkness e di The Freedom Project, con cui porta avanti le sue battaglie. É stata coinvolta in un contenzioso costituzionale per aver violato la legge del 2015 della Victoria che vieta di protestare in un raggio di 150 metri dalle cliniche abortive, condannata e sanzionata. Ha istruito in home-schooling i suoi ultimi sei figli (su tredici!) e considera la sua famiglia la sua attività pro-life più importante.
7 Da wikipedia: “L’ayahuasca (aya-wasca, letteralmente “liana degli spiriti” o “liana dei morti” in lingua quechua), spesso detta anche, a seconda dei paesi di provenienza: Yage, Hoasca, Daime, Caapi; è un infuso psichedelico a base di diverse piante amazzoniche in grado di indurre un effetto visionario oltre che purgante”.
8 https://www.abc.net.au/news/2018-04-23/canadian-lynched-in-amazon-accused-of-shamans-murder/9688118
Kathy Clubb Luglio 26, 2019