ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 29 luglio 2019

Una strada senza partenza e senza arrivo

Il “tradimento” dei Pastori e la fedeltà del Popolo di Dio

I recenti licenziamenti attuati all’Istituto Giovanni Paolo II ha colpito molti. Un lettore, sotto pseudonimo, mi ha inviato l’articolo che volentieri pubblico. Lo propongo come spunto di riflessione per tutti.
 
di Fabio Vessillifero (*) 
Il cambiamento di prospettiva introdotto da Paglia riguardo l’Istituto Giovanni Paolo II per gli studi sul matrimonio e la famiglia è emblematico e drammatico. Secondo questa nuova visione, la Chiesa deve “guardare, con intelletto d’amore e con saggio realismo, alla realtà della famiglia, oggi, in tutta la sua complessità, nelle sue luci e nelle sue ombre”.

Alcuni pastori ci dicono che la comunità dei credenti è chiamata ad aprirsi a stili di vita diversi anche se in contraddizione con la prospettiva cristiana della famiglia eterosessuale, monogamica fondata sulla stabilità della coppia.
Dovremmo superare, quindi, la nostra ristretta visone confessionale per accettare un mondo sempre più socialmente variopinto e antitetico, dove famiglie gay e famiglie musulmane a carattere poligamico convivono pacificamente…
A leggere certi documenti ecclesiali sembrerebbe che il progetto evangelico non abbia come fine quello di trasformare i cuori e le menti dei popoli per elevarli ad una prospettiva soprannaturale ma quello di promuovere una società relativista, dove tolleranza, dialogo e rispetto sono gli unici valori non negoziabili.
Peccato che il Fondatore del cristianesimo si sia espresso in tutt’altro modo. Né tollerante né inclusivo… ma pietra d’inciampo delle pretese inaudite: «Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14.6)  e ancora: «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato». (Mc 16,16).
Cristo è in realtà il maestro che propone una morale alta ed esigente:  «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno (Lc 13,24).
Come interpretare allora quello che a molti appare un “rinnegamento” o un abbandono della linea di Giovanni Paolo II da parte del nuovo corso?
Ritorna alla mente, con grande suggestione, la situazione descritta da Dostoevskij nel romanzo I fratelli Karamazov. La profezia sembra avverarsi sotto i nostri occhi.  
Il vecchio inquisitore rimprovera a Gesù di essere tornato sulla terra a rovinare i suoi piani e a mettere in pericolo il suo progetto di pacifica convivenza  tra gli uomini. L’ideale evangelico di libertà – sostiene l’Inquisitore – è troppo duro per la maggior parte degli uomini (non per lui, cui Dio aveva dato le forze necessarie per seguirlo), condannati pertanto da esso alla inevitabile dannazione e dunque all’infelicità. Proprio questa considerazione lo spinse ad abbandonare l’ideale evangelico e a prendere parte al progetto di concedere almeno la felicità terrena ad un’umanità comunque incapace di raggiungere quella eterna. Questo progetto prevede la trasformazione dell’ideale evangelico in una morale più accessibile all’uomo, fatta di gesti esteriori alla portata di tutti. In questo modo, anche i deboli crederanno di poter raggiungere la felicità eterna, sottometteranno la loro libertà ai precetti della Chiesa e ne riceveranno in cambio una felice speranza nell’aldilà. Ecco allora tutta la terra schiava, illusa ma felice. Questo il progetto dell’Inquisizione: portare in terra la felicità a tutti, dato che quella celeste è al di fuori della portata di molti. Di più l’uomo non può pretendere.
Alla base dell’atteggiamento del vecchio Inquisitore vi è la sostanziale perdita della fede. Egli pensa alla maniera di Lutero che Dio non ci sostiene nel nostro cammino di fede con la sua grazia. Al massimo ci può predestinare immeritatamente alla vita eterna pur lasciandoci completamente ancora nella melma dei nostri peccati.
Se le cose stanno così, potremmo chiederci allora quale senso abbia l’immolazione della croce… perché mai il Figlio di Dio abbia voluto incarnarsi e soffrire?
Eppure il messaggio del Nuovo Testamento è chiaro: grazie al sacrificio di Cristo noi possiamo accedere al Padre e ricevere il dono dello Spirito e così praticare la vita nuova del Vangelo, superiore alle nostre povere forze umane.
E la testimonianza dei santi che dal giorno di Pentecoste hanno costellato a miriadi la storia dell’umanità ci conferma che la Grazia può veramente cambiare i cuori ed elevarli alla vita di Dio.
Se noi osserviamo attentamente, senza paraocchi ideologici, anche la radicale trasformazione del mondo operata dal messaggio cristiano non possiamo che rimanere profondamente basiti. Benedetto Croce, un filosofo ben lontano dal vivere la proposta evangelica, onestamente osservava:
«E le rivoluzioni e le scoperte che seguirono nei tempi moderni, in quanto non furono particolari e limitate al modo delle loro, ma investirono tutto l’uomo, l’anima stessa dell’uomo, non si possono pensare senza la rivoluzione cristiana… perché l’impulso originario fu e perdura il suo… la rivoluzione cristiana operò nel centro dell’anima, nella coscienza morale, e conferendo risalto all’intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fino allora era mancata all’umanità».
Parlando in termini generali, e prescindendo da casi personali e particolari, si ha come l’impressione  che i pastori non vogliano o non se la sentano più di credere nella forza dello Spirito Santo. Ma non è Cristo, il Figlio di Dio, venuto nel mondo per richiamare l’uomo al fondo di tutte le questioni?
Tutti i problemi infatti che l’uomo è chiamato dalla prova della vita a risolvere si complicano invece di sciogliersi se non sono compresi alla luce del mistero di Cristo.
Non dimentichiamo che il compito della comunità cristiana è proprio quello di realizzare il più possibile la soluzione degli umani problemi in base al richiamo di Gesù.
La concezione della vita umana in Gesù Cristo è quindi essenzialmente una tensione, una lotta (“non sono venuto a portare pace, ma una spada” Mt 10,34); è un camminare; è una ricerca – ricerca della propria completezza, cioè del proprio vero “se stesso”  (L. Giussani).
E noi, fedeli laici, “traditi” e confusi, come possiamo allora progredire nel nostro cammino di fede?
Mai come in questo momento di prova siamo chiamati a restare uniti nella fede, nella dottrina e nella disciplina della Chiesa, ben sapendo che il nostro Signore e Maestro ha già vinto il mondo (Gv 16,33).
Con le parole dell’Apostolo prediletto dobbiamo con forza riaffermare: «tutto quello che è nato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede» (1 Gv 2,14).
E se con Paolo possiamo ben constatare che «siamo oppressi, ma non schiacciati; sconvolti ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non distrutti», siamo comunque lieti di portare «sempre in noi la morte di Gesù, perché si manifesti in noi anche la sua vita» (2 Cor 4,8-10).
In questo momento di Passione della Chiesa, Corpo Mistico di Cristo, quindi, non dobbiamo fuggire come gli Apostoli ma restare a vegliare con coraggio e determinazione ai piedi della croce.
Il Concilio Vaticano II ha sottolineato profeticamente con forza la vocazione alla santità per tutti i discepoli di Cristo e mai come oggi il laicato è chiamato a far fronte alla crisi di fede che attanaglia le gerarchie con grande senso di responsabilità.
In questo senso, ecco allora una proposta di possibili linee di guida e azione:
  1. Non dobbiamo lasciarci sopraffare dalla tentazione dello scoraggiamento ma vivere il tempo presente come prova dolorosa ma necessaria dalla quale la fede della Chiesa uscirà purificata e rafforzata.
  2. Mantenere la consapevolezza che il supremo Pastore delle pecore non abbandona il suo gregge e, siccome la promessa del Signore non può venir meno, restare saldi nella dottrina della Chiesa, soprattutto per quanto riguarda quegli aspetti della teologia morale oggi subdolamente messi in discussione.
  3. In particolare bisogna osservare che la teologia morale di papa Giovanni Paolo II mantiene intatta la sua attualità e validità perché in continuità con tutto il precedente Magistero della Chiesa (cf. ad es. “Casti connubii” di Pio XI e Humanae vitae di Paolo VI). A nessun Pastore della Chiesa e a nessun fedele è lecito distaccarsi dagli insegnamenti della Tradizione Apostolica e del Magistero della Chiesa anche riguardo al tema della famiglia e della vita. Un Pastore che mette in crisi le coscienze su questi temi proponendo e propagando insegnamenti erronei, perde credibilità e referenzialità.
  4. Siccome la verità va sempre annunciata e non ci può essere carità verso il prossimo se non nella verità, sarebbe utile dar vita un sito internet dove pastori e teologi veramente cattolici e competenti, possano riproporre ai fedeli l’autentico e genuino insegnamento della Chiesa sui punti oggi controversi. In questo modo il popolo di Dio potrà avere un riferimento sicuro per orientarsi in questo grave momento di confusione e di prova.
Maria, aiuto dei cristiani, prega per noi!
(*) Fabio Vessillifero è uno pseudonimo di una persona realmente esistente

La rivoluzione all’Istituto GP II / Appello per la revoca dei licenziamenti

Cari amici di Duc in altum, la situazione che si è venuta a creare all’Istituto Giovanni Paolo II per il matrimonio e la famiglia, come abbiamo già osservato in un articolo di qualche giorno fa, è di una gravità senza precedenti. Ormai si tratta di una vera e propria epurazione, che ha fatto vittime illustri come il noto filosofo Stanislaw Grygiel, la bioeticista Maria Luisa Di Pietro, la mariologa suor Vittorina Marini.  Di forte portata simbolica è il licenziamento del professor Grygiel, docente emerito di antropologia filosofica e amico di Giovanni Paolo II fin dai tempi di Cracovia, chiamato a Roma alla fine degli anni Settanta proprio da papa Wojtyła.
Stando così le cose, e visto che l’intento non è semplicemente quello di aggiornare gli insegnamenti ma di rompere totalmente con il passato, ci si chiede, come ha scritto Riccardo Cascioli,  che senso abbia mantenere nella “ragione sociale” dell’istituto il nome del santo papa polacco.
Una situazione, quella dell’istituto, sulla quale interviene il professor Furio Pesci, dell’Università la Sapienza di Roma, con un appello che volentieri vi propongo.
A.M.V.
***
Il Pontificio istituto Giovanni Paolo II per gli sudi su matrimonio e famiglia è stato soppresso nel 2017 con il motu proprio Summa familiae cura di papa Francesco con la motivazione che fosse necessario un adeguamento alla crescente complessità delle problematiche oggetto dell’attività scientifica e didattica dell’Istituto. Al suo posto, con lo stesso provvedimento che ne dichiarava la cessazione, è stato dunque eretto un nuovo istituto teologico pontificio, formalmente intitolato anch’esso a san Giovanni Paolo II, ma con una denominazione diversa, nella quale agli “studi” sul matrimonio e la famiglia sono subentrate le “scienze del matrimonio e della famiglia”.
L’istituto originario era stato fondato nel 1982 da Giovanni Paolo II e per quasi quarant’anni ha svolto un’eccellente attività scientifica e di formazione, caratterizzata da una forte collaborazione tra specialisti di discipline diverse (teologia, filosofia, scienze umane e biomediche) e coinvolgendo da tutto il mondo studiosi provenienti anche da altre università e centri di ricerca.
Dopo due anni di proroga delle attività, in attesa degli ulteriori atti necessari all’attivazione concreta del nuovo istituto, il 13 luglio scorso sono stati promulgati i nuovi statuti, con annesso l’ordinamento degli studi, e la notizia è stata resa pubblica cinque giorni dopo.
Il nuovo testo assegna al gran cancelliere nominato da papa Francesco, l’arcivescovo Vincenzo Paglia, prerogative e poteri molto forti, superiori a quelli di qualsiasi altro omologo nel sistema universitario pontificio.
Per effetto di questi cambiamenti, appena dieci giorni dopo l’approvazione degli statuti, il 23 luglio, sono stati allontanati due docenti, i professori Livio Melina e José Noriega Bastos, che hanno insegnato per molti anni nell’Istituto Giovanni Paolo II (il primo ne è stato anche il preside per dieci anni) e che hanno sempre svolto un’attività scientifica di primo piano nelle loro rispettive discipline. Poi, nei giorni successivi, a molti docenti, e addirittura al personale amministrativo, è stata inviata una comunicazione con la quale li si è informati della cessazione dalle loro funzioni.
La lista degli estromessi si è, di conseguenza, allungata, includendo altri nomi di spicco, da Stanislaw Grygiel, filosofo amico fin dalla giovinezza di Karol Wojtyla e suo consigliere (emerito, ma tuttora titolare della Cattedra Wojtyla) a Maria Luisa Di Pietro, studiosa di bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, già estromessa ad opera da monsignor Paglia dalla Pontificia accademia per la vita, ed ora anche dall’Istituto Giovanni Paolo II. L’elenco dei docenti estromessi, dei non confermati e di quelli a cui sono state sostanzialmente ridotte le funzioni è lungo e conta altri studiosi di vaglia, tra cui Przemislaw Kwiatkowski e Vittorina Marini.
La situazione è molto grave: licenziare i propri docenti non è un buon inizio per un istituto universitario, specialmente se innovativo e ambizioso come quello voluto da papa Francesco. Sono convinto che le motivazioni esposte dal preside, monsignor Pierangelo Sequeri, ed anche da don Giovanni Cesare Pagazzi, appena assunto tra i docenti del nuovo istituto, per giustificarne la fondazione e l’assetto, siano serviti solo a spostare l’attenzione da quello che è l’aspetto centrale e più inquietante: la soppressione di un intero istituto di ricerca e l’estromissione dei suoi più significativi studiosi, un fatto unico nella storia recente dell’università, che ha precedenti solo nel contesto di regimi assolutistici e totalitari.
Come semplice credente, ritengo che non sia possibile utilizzare la teologia e l’ecclesiologia nuove di papa Francesco per giustificare una serie di licenziamenti ed estromissioni.
Sorprende davvero e sconcerta che tutto ciò avvenga oggi all’interno del sistema universitario pontificio, sotto un pontificato come quello attuale, così dichiaratamente attento all’apertura e al confronto tra posizioni e opinioni diverse; è stata commessa una grave violazione della dignità della ricerca scientifica e del lavoro intellettuale. Sorprende e sconcerta anche la posizione dell’attuale preside, studioso di fama, il quale non avrebbe dovuto permettere che docenti dell’istituto da lui presieduto fossero così repentinamente privati delle funzioni e anche della dignità accademica.
Se per due anni si è sperato che dalla soppressione dell’istituto originario, prorogato nelle sue funzioni ed attività, potesse sorgere comunque qualcosa di positivo, e che, sulla base di una tradizione consolidata, il nuovo continuasse a confrontarsi efficacemente con le problematiche del mondo contemporaneo, i provvedimenti di queste ultime settimane hanno deluso ogni speranza e sollevato grande preoccupazione in tutti coloro che conoscono l’identità e l’opera dell’Istituto Giovanni Paolo II e dei docenti estromessi.
Pur avendo formalmente portato avanti sui nuovi statuti un dibattito interno all’istituto (che, oltre alla sede centrale conta – ma ormai occorre dire contava – undici sezioni in tutto il mondo), quelli presentati alla Congregazione per l’educazione cattolica e da essa approvati non hanno tenuto minimamente conto dei risultati di quel dibattito, che pur aveva condotto all’elaborazione di  un testo valido e condiviso.
I nuovi statuti non sono affatto il risultato di tre anni di riflessione interna al Giovanni Paolo II, come si è sostenuto ultimamente, in occasione della loro presentazione; al contrario, si tratta d’un provvedimento che è stato imposto a tutto il personale e che in questi giorni ha trovato la sua prima applicazione per consentire l’estromissione di alcuni docenti.
La gravità della situazione è data anche dal fatto che non vi sono motivi oggettivi che giustifichino questi provvedimenti; tutti di alto prestigio scientifico, i docenti licenziati e allontanati hanno sempre svolto la loro attività pubblica nella piena osservanza delle forme e delle regole delle istituzioni pontificie, incluso il debito rispetto delle autorità e dei ranghi ecclesiali. E questi provvedimenti possono diventare, oltretutto, un pericoloso precedente, applicabile in futuro ad altri docenti e ad altre istituzioni universitarie ecclesiali.
Quanto è avvenuto al Giovanni Paolo II allontana, di fatto, le università pontificie dalle prassi vigenti ovunque nella comunità accademica e scientifica internazionale. Non è tollerabile una precarietà delle forme istituzionali così radicale da consentire ai superiori gerarchici un potere di vita o di morte sull’attività scientifica di intere istituzioni e dei singoli studiosi, persino dei più accreditati, come è il caso dei colleghi che ho citato, ai quali va tutta la mia solidarietà umana, intellettuale e professionale.
Per questi motivi, chiedo (senza acredine polemica, ma con tutto il vigore che mi è possibile), a quanti ne hanno la competenza, che si revochino i provvedimenti assunti nei confronti dei colleghi menzionati e si salvaguardi in ogni modo lo spazio necessario per la continuazione della loro apprezzata attività, unico punto di partenza positivo per un istituto universitario che intenda essere veramente tale.
Professor Furio Pesci
La Sapienza Università di Roma

Escludere la Teologia morale dalla riflessione su matrimonio, famiglia e vita ha un costo da non sottovalutare

“Alla luce dello sconcertante licenziamento dei docenti dell’Istituto Giovanni Paolo II, oltre alla perdita del loro spessore intellettuale, riferimento indiscusso per chi si occupa di matrimonio, famiglia e vita, c’è da chiedersi su cosa si fonderà la riflessione su questi temi se si mette fuori gioco la Teologia morale. (…)
Il vero dato irragionevole è questo piuttosto: proporre questioni complicate e delicatissime, come tutte quelle che toccano la persona umana, svuotandole di quella verità sull’essere umano da cui dipendono e della disciplina – la Teologia morale – che più di tutte ha l’onorevole mandato di discernere cosa rispetta tale verità chiamando il bene e il male con il loro nome. Una strada senza partenza e senza arrivo, ma con un salato pedaggio da pagare.”
Istituto Giovanni Paolo II
Istituto Giovanni Paolo II
 di Giorgia Brambilla
 Alla luce dello sconcertante licenziamento dei docenti dell’Istituto Giovanni Paolo II, oltre alla perdita del loro spessore intellettuale, riferimento indiscusso per chi si occupa di matrimonio, famiglia e vita, c’è da chiedersi su cosa si fonderà la riflessione su questi temi se si mette fuori gioco la Teologia morale.
Ci sono due ordini di problemi: il primo è di tipo concettuale, il secondo di tipo metodologico. Mentre, il primo vede la frammentazione tra morale, fede, ragione e verità – causa del riduzionismo relativista e del nichilismo di cui è permeato il razionalismo moderno; il secondo consiste nell’annullamento del senso principale di questo tipo di riflessione, cioè dire cosa è giusto e cosa non lo è, sradicando l’albero del bene e del male e gettando così nella confusione più totale le coscienze.
Vediamolo brevemente.
L’esclusione della Teologia dal dibattito pubblico, dalla formazione e dal fondamentale discorso sull’uomo – che va dal matrimonio alla Dottrina sociale passando per la Bioetica – comporta un notevole prezzo da pagare. Sono ancora attuali le parole della Dei Filius: «si è diffusa troppo ampiamente per il mondo quella dottrina del razionalismo o naturalismo che, combattendo con ogni mezzo la religione cristiana in quanto realtà soprannaturale, cerca con ogni sforzo di stabilire il regno di quella che chiamiamo ragione pura o natura (..) Rifiutata ed abbandonata la religione cristiana, negato il vero Dio e il suo Cristo, la mente di molti è precipitata nel baratro del panteismo, del materialismo e dell’ateismo di modo che negando la stessa natura razionale ed ogni norma del giusto e del retto, si sforzano di distruggere i fondamenti della società umana» (nn. 804-805).
Creare piattaforme esclusivamente razionali, basate su di una fiducia socratica secondo cui all’uomo sarebbe sufficiente l’evidenza del bene descritto dalla ragione perché egli vi aderisca direttamente e senza ostacoli e in cui il dato di fede è ritenuto un fattore da escludere per riuscire a raggiungere i “lontani” si rivela un vicolo cieco: oggi è ancora più lampante il fatto che un’etica costruita alla luce della sola ragione sarà in grado soltanto di stabilire dei limiti approssimativi all’oggettivazione dell’altro che però alla fine risulterà inevitabile. L’uomo, infatti, è sempre tentato da una forma di utilitarismo. Del resto, se egli da solo deve garantirsi la sua esistenza, il suo futuro non potrà mai essere completamente disinteressato: l’altro gli apparirà sempre in qualche modo come un mezzo per la sua felicità, un mezzo per sé, per garantirsi la sua esistenza. Arriverà il momento in cui la salita sarà troppo faticosa, il bene troppo arduo, i tempi troppo difficili, i valori troppo liquidi.
Non si può costruire la morale a partire dall’etica, cioè a partire dalla ricerca di soluzioni particolari, senza confrontarsi sulla scelta fondamentale che tutte le sostiene e le motiva. Il problema è che l’epoca moderna ha messo profondamente in dubbio l’idea che dalla fede possa scaturire una qualche conoscenza, contestando, di conseguenza, alla Teologia l’attributo di scienza. Questo pensiero racchiude tutto il riduttivismo moderno della ragione, in base al quale quello che noi conosciamo può essere tale se ha un’universalità, per cui se uno scienziato fa un esperimento e trova la legge del fenomeno fisico, quella legge è vera e ha valore conoscitivo perché chiunque la può riprodurre e può verificare se corrisponde alla realtà o meno. Questo particolare riduzionismo, che prende il nome di “scientismo”, «rifiuta di ammettere come valide forme di conoscenza diverse da quelle che sono proprie delle scienze positive, relegando nei confini della mera immaginazione sia la conoscenza religiosa e teologica, sia il sapere etico ed estetico» (Fides et Ratio n.88). Dunque, tutto ciò che riguarda la domanda di senso, ma anche qualunque riflessione sui valori o sull’essere appartiene all’irrazionale e, come tale, ha solo valore soggettivo e mai oggettivo e quindi conoscitivo. Questo pregiudizio, di ascendenza hedeiggeriana, secondo cui chi crede non pensa, ha compromesso lo stesso pensiero filosofico, ridotto a “metascienza”, incapace di offrire risposte definitive alle domande più radicali, perché privato della missione di ricercare la verità.
Se si vuole fare formazione e dare criteri di comprensione rigorosamente razionali, come nel caso ad esempio delle questioni che riguardano la Bioetica, dall’ambito della procreazione e della famiglia fino a quello del bene comune o del multiculturalismo, non si può chiudere la porta alla Teologia, e nella fattispecie quella morale, la quale intende argomentare razionalmente a partire dalla Rivelazione avanzando la pretesa irrinunciabile di dire la verità sull’uomo e una verità da proporre pubblicamente.
Com’è possibile questo? Per una generazione, ovattata dalla posizione illuminista, l’ottica secondo cui per esercitare validamente il suo compito in ambito morale la ragione deve lasciarsi illuminare dalla fede – che “conosce qualcosa in più” – è un dato evidentemente da riscoprire.
In ambito morale, la ragione ha un ruolo molteplice, in relazione ai molteplici campi di indagine e di giudizio che la riguardano. La fede con la sua offerta di senso intende interagire con la ragione in questo ambito e provocarla come domanda sul senso ultimo della vita umana e sul valore della sua esistenza: l’ulteriorità della fede non costituisce l’abiura della ragione quanto piuttosto il suo compimento. Quando l’occhio osserva gli oggetti attraverso il microscopio non perde la sua importanza né la sua funzione. In altre parole, è così che si dà alla ragione il suo sviluppo più pieno e la fede è un dono che perfecit non destruit naturam. La luce della fede ha, infatti, un duplice compito: in positivo di perficere e reddere ad maiora e, in negativo, di non extinguere et imminuescere il valore della ragione.
La morale – e tutte le riflessioni che nascono da essa – nasce dalla conoscenza del valore della persona, alla luce della visione che Dio ha dell’uomo. Da questo punto di vista, infatti, la morale cristiana è l’opposto del legalismo: per il legalismo le norme morali sono solo espressioni isolate della volontà di un legislatore che le ha promulgate; invece, per il cristiano si tratta di verità sul bene della persona, che hanno la loro radice nell’essere e il loro fondamento nella sapienza creatrice di Dio e nella sua grazia redentrice. Dunque, è solo su questa prospettiva che si può costruire validamente un’ottica personalista, non su di un umanesimo generico ed ateo. La morale scaturisce dalla conoscenza del valore della persona, quale si rivela dall’atteggiamento nei confronti dell’uomo, dalla sua donazione senza limiti in Gesù Cristo. E la vita di una persona ha questo valore inalienabile a partire da un’antropologia teologica cristocentrica, per cui il bene della vita umana può essere precisato nell’articolazione delle sue dimensioni fondamentali, evitando deprezzamenti materialistici o indebite sacralizzazioni. Le offese al matrimonio (divorzio, adulterio, unioni civili, ecc.) e la violazione della vita umana (aborto, eutanasia, fecondazione artificiale, ecc.) derivano in ultima analisi nientemeno che da questo. Per questo abbiamo bisogno del “GPS” della Teologia morale, importante per chi quei fatti vuole capirli e indispensabile per chi su questi temi deve formarsi, per di più nell’ottica poi di aiutare altri a discernere e poi a scegliere. Penso ai vari educatori: sacerdoti, catechisti, operatori pastorali, ecc.
A livello metodologico – il secondo punto della nostra riflessione – la Teologia morale, occupandosi delle questioni riguardanti, tra tutte, la vita umana, la famiglia e il rispetto dovuto loro secondo la virtù della giustizia, riceve dalle varie discipline lo status quaestionis, cioè l’analisi del problema etico, insieme alle conclusioni della riflessione propria della filosofia morale, il che ordinariamente facilita un primo discernimento fra il lecito e l’illecito, il bene e il male. È la Teologia morale che ci spinge a resistere contro l’“ethically correct” come pretesa moderna di creare un piano di morbida tolleranza che si mette a “dialogare” con il male morale, anziché denunciarlo, e spende sofisticamente tante parole quando ne basterebbero due, quelle indicate da Nostro Signore: “Sì” e “No”. Purtroppo, sotto l’egida del “pluralismo” si crede che la morale si dovrebbe accontentare di una “grammatica minima” e di un’antropologia debole atte a ricoprire un ruolo di tipo procedurale, poiché le tematiche in questione si svolgono nell’arena pubblica, in cui si incontrano culture e religioni differenti. In particolare, si ritiene che un concetto di persona elaborato teologicamente, con riferimento alle verità di fede, sarebbe offensivo nel dibattito e comprometterebbe la validità dell’argomentazione razionale. Rispondiamo facilmente, innanzitutto, che questo modo di procedere, concettualmente, non riesce a superare l’orizzonte della soggettività e della convenzione intersoggettiva. Inoltre, sappiamo bene che il paravento del pluralismo è in realtà uno strumento ideologico per escludere a priori la verità fino a considerare la verità stessa come dannosa, compromettendo la ragione fino all’implosione della morale. Proprio perchè il presupposto della Teologia è un atto di fede nella Rivelazione, con ciò essa non rinuncia alla razionalità, nè si esclude dal dialogo. E questo senza necessità di attingere a modalità “globali”.
Il vero dato irragionevole è questo piuttosto: proporre questioni complicate e delicatissime, come tutte quelle che toccano la persona umana, svuotandole di quella verità sull’essere umano da cui dipendono e della disciplina – la Teologia morale – che più di tutte ha l’onorevole mandato di discernere cosa rispetta tale verità chiamando il bene e il male con il loro nome. Una strada senza partenza e senza arrivo, ma con un salato pedaggio da pagare.
SUOR GERTRUDE, A STILUM CURIAE: ABBIAMO DEI BENI, TEMIAMO CHE IL VATICANO CI VOGLIA COMMISSARIARE…

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, Suor Gertrude ci ha scritto una lettera accorata e piena di preoccupazione. Questo perché teme – e come darle torto? – che prima o poi i devastatori della vita religiosa, Braz De Aviz e Fernando Carballo rivolgano la loro funesta attenzione al suo convento. I risultati, sarebbero quelli di cui siamo tutti ben consci, a vedere la fine di tante congregazioni religiose. Leggiamo che cosa ci scrive la buona suora.

ω

Caro dottore Tosatti, qui in convento, in attesa di essere anche noi commissariate, osserviamo con grande attenzione quello che nel frattempo succede ai fratelli e sorelle che stanno già vivendo questo “calvario” imposto a : -chi prega troppo, -chi è troppo devoto alla Madre di Dio, – chi si riconosce nel carisma del suo Fondatore/ Fondatrice, – chi celebra e, nel nostro caso, chi assiste alla Santa Messa Tridentina o di San Pio V.
Il nostro attuale maggior timore, caro dottore, è legato alla percezione, sempre più forte, che si stia decidendo di obbligare i monasteri di monache, come noi, ad essere centralizzati.
Il che significherebbe cancellare la clausura, distruggere la nostra vocazione e interrompere quel “concerto” di preghiere che tiene su il mondo…
Osservando poi ciò che accade in Curia dal punto di vista economico, la preoccupazione che il nostro primo timore possa avvenire presto, sta nell’esproprio dei nostri beni, che da secoli servono a mantenere la preghiera in clausura. Se ci privano di quelli ci privano di libertà.
Ci stiamo infatti preoccupando anche dei Commissariamenti ed espropri, perché senza beni saremo private della libertà di esistere e pregare.
Come esempio vorrei proporre quello dei Francescani dell’Immacolata, che è curioso nella sua dinamica confondente. Si sta cercando infatti di obbligare i Francescani dell’Immacolata ad avere intestazione e controllo delle loro proprietà; al fine di poterle espropriare, però.
I legittimi proprietari delle proprietà dei beni dei frati, che han fatto voto di povertà, sono le Associazioni di Benefattori. Se le Associazioni di Benefattori restano proprietarie, queste NON possono esser espropriate (perché non rispondono a dicasteri vaticani); ma se si trasferisce la proprietà ai Francescani dell’immacolata, il Commissariante (Vaticano) le può espropriare, quando vuole.
Curiosamente, al contrario, da un’altra parte, osserviamo che si vuole obbligare i Cavalieri di Malta ad abbandonare tutte le loro proprietà a favore del loro Ordine (SMOM), che si impegnerà a mantenerli …(ma chi ci crede?)
Siamo suore di clausura e non abbiamo che pochissimi (e solo autorizzati, come nel mio caso) rapporti esterni, per cui “non sappiamo” esattamente ciò che succede, ma, mi creda, lo percepiamo (come dono soprannaturale). Ma ciò che oggi percepiamo, ci preoccupa (non ci angoscia solo perché mettiamo tutto nelle mani di Dio), ci preoccupa vedere una Chiesa che sembra voler esser contro il naturale e contro il soprannaturale. Ho detto “voler essere”, non essere, incidentalmente.
Il contro-natura sembra ormai dominare il mondo e persino parte della Chiesa. Ma se il capo supremo della chiesa, la massima autorità morale al mondo, non conferma più la sua dottrina, sembra disconoscere che ci sia una natura e una contro natura , ciò significa che questa Chiesa rifiuta la Creazione.
Rifiuta conseguentemente il Peccato originale e la Rivelazione.
Fino a quando Dio lo permetterà?
Marco Tosatti
29 Luglio 2019 Pubblicato da  33 Commenti --

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.