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Il 17 luglio 2019 è morto Andrea Calogero Camilleri .Lo scrittore, sceneggiatore, regista, intellettuale ‘impegnato’, era nato a Porto Empedocle (Agrigento) il 6 settembre 1925. Molto conosciuto in Italia e internazionalmente per la serie di romanzi polizieschi con protagonista il commissario Montalbano (cui la trasposizione televisiva ha dato fama ulteriore). In molte delle sue opere (oltre ai polizieschi ne ha scritto tante altre sugli argomenti più disparati) ha utilizzato una lingua da lui creata, il ‘vigatese’ (da Vigata, nome immaginario del paese natio), mista di italiano e siciliano.
Di se stesso ha detto il 12 giugno in un’intervista di Massimo Giannini per Radio Capital: “Ho avuto una vita fortunata, ho fatto sempre quello che volevo, mi sono guadagnato il pane facendo quello che mi piaceva fare. Sono un uomo felice. Felice di avere pronipoti e felice di aver vissuto”.
E anche (in “Segnali di fumo”, Utet, Roma, 2014): “Mi hanno domandato come abbia fatto a essere comunista appena diciassettenne e ancora col fascismo al potere. La domanda era però incompleta, perché prima ancora di chiedermi come avevo fatto a essere, avrebbero dovuto domandarmi come avevo fatto a non essere”.
Su Camilleri scrittore ci viene da concordare con don Dario Edoardo Viganò che l’ha definito “scrittore complesso e sorprendente, capace di innovare sul piano linguistico”.
CAMILLERI INTELLETTUALE ‘IMPEGNATO’: PADRE SPADARO E DON CIOTTI
Per il resto… proponiamo due reazioni catto-fluide illustri, cui faremo seguire una serie di citazioni camillere: alcune confermano l’immagine pubblica del figlio di Porto Empedocle, altre suonano a dir poco sorprendenti…
Il 18 luglio l’ex-giornale cattolico Avvenire ricorda con enfasi particolare Andrea Camilleri: titolo con foto a colori in prima pagina (“Addio Camilleri, poeta della vita”) e doppia pagina (22-23), in cui si dà conto, sotto il titolo “L’Italia della cultura ricorda l’autore popolare e l’intellettuale impegnato” di una serie di esternazioni di figure per un verso o per l’altro ‘impegnate’ nella vita sociale. Poteva mancare tra loro il Turiferario Prezzemolo, padre Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica? “La sua è stata una voce profetica che ha preso posizioni forti, ma che soprattutto ha cercato di comprendere la complessità del momento che stiamo vivendo. Credo che la sua passione civile, che ha combinato con la sua ispirazione letteraria, sia molto importante, forse un modello per tutti noi. Ho parlato con lui e mi ha colpito la sua grande stima per il Papa. Era come se vedesse nella figura di Francesco un’ancora di umanità”. Voce profetica, passione civile, un modello per tutti noi…
Altra esternazione catto-fluida eccellente quella di don Luigi Ciotti, fondatore di Libera: “Ci mancherà moltissimo lui e ci mancherà la sua parola, il suo ragionare pacato e lucido (…)”. Il suo ragionare pacato e lucido…
VIA AL FLORILEGIO DI CITAZIONI ORIGINALI…
E ora… via al florilegio di considerazioni, dichiarazioni, invettive di Camilleri. In parte conformi come detto alla sua immagine pubblica e in altra parte assai sorprendenti…
La notte dello sbarco in Sicilia (da MicroMega 5/99): “Quando, nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1943, le forze alleate iniziano lo sbarco in Sicilia a tirare un sospiro di sollievo sono in tanti: i cittadini che vedono avvicinarsi l’ora della fine degli spaventosi bombardamenti; gli antifascisti che sentono il profumo della libertà; i mafiosi i quali, avendo appoggiato lo sbarco, sanno di poter disporre adesso di uno spazio di manovra che il fascismo aveva allora negato”.
La cellula Pci alla Rai (da MicroMega 1/2018): “L’ambiente era variegato. Discutevo spesso con un carissimo amico, lo è ancora oggi, Carlo C. Lo trovavo ‘guareschiano’. Giovannino Guareschi teneva una rubrica sul settimanale umoristico Candido, che usciva nel secondo dopoguerra e che io compravo. Leggevo le sue vignette satiriche anticomuniste, in cui sbeffeggiava quelli che definiva i ‘comunisti trinariciuti’. Era sempre la stessa illustrazione,‘obbedienza cieca, pronta e assoluta’, accompagnata da un fumetto con una persona che annunciava: ‘Contrordine compagni’. E tutti seguivano le direttive del partito, riportate dal comunicato dell’Unità, anche quando, per via di finti refusi, diventavano assurde e ridicole. A me quelle vignette divertivano moltissimo, anche se molti compagni se la prendevano. Carlo C. era proprio quel tipo di compagno descritto da Guareschi, io invece non ci riuscivo, anche se per i fini del partito forse loro erano più utili di me”.
L’eredità del Sessantotto (da MicroMega 1/2018): “Retrospettivamente non posso che dare un giudizio positivo del Sessantotto. Sebbene la storia non si faccia né con i ‘se’ né con i ‘ma’, il Sessantotto ha fatto indubbiamente da apripista. Molte delle cose che successero dopo furono in qualche modo il frutto di ciò che era avvenuto nel Sessantotto. L’errore è stato quello di aspettarsi dal Sessantotto degli effetti immediati. Invece è stato un fiume carsico, riemerso più volte senza far rumore. Un mutamento lento, che ha consentito aperture straordinarie. (…) Quella che possiamo chiamare l’onda lunga del movimento, un rinnovamento della società a più livelli, è stato l’effetto più duraturo del Sessantotto. D’altra parte, l’alternativa era fare veramente la rivoluzione, fino alle estreme conseguenze, ma non c’erano le condizioni”.
Le donne di Camilleri (da Micromega 5/2018): “Non posso essere contemporaneo al 2018. Io mi sono fermato all’invenzione della bomba atomica, della tv e della minigonna. Mi basta. La minigonna pare una cosa banale: in fondo si tratta di alcuni centimetri di stoffa. Pochi centimetri che però, grazie alla signora Mary Quant, hanno fatto una rivoluzione, che ho, diciamo così, ‘gradevolmente’ vissuto. Ho visto i costumi sessuali cambiare da un giorno all’altro. (…) C’è chi pensa che quando si invecchia lo sguardo nei confronti delle donne cambi, che non le si guardi (o non le si ‘debba’ guardare) più con lo stesso desiderio e interesse. Ma chi l’ha detto? La pace dei sensi è la morte. La cosa che rimpiango più di tutte da quando sono diventato cieco è che non posso più ammirare la bellezza femminile. Le donne sono la meraviglia del mondo”.
San Calogero (da Famiglia Cristiana, 17.7.2019 – intervista di Roberto Zichitella fatta nell’agosto 2018 in occasione dell’uscita di “Ora dimmi di te. Lettera a Matilda”, Bompiani): “ Non mi vanto di non essere credente, ho un rispetto autentico e anche un po’ di invidia per chi ha fede. Però ho una fede superstiziosa in San Calogero. Sono nato il giorno della sua festa, proprio durante la processione di Porto Empedocle, e Calogero è il mio secondo nome. E’ il più amato dai poveri della costa meridionale della Sicilia, anche se ci sono rivalità. San Calogero di Naro fa le grazie per denaro, san Calogero di Canicattì fece una grazia e se ne pentì, invece il mio san Calogero da Marina fa una grazia ogni mattina. E’ il più generoso e io ogni tanto accarezzo la sua statua, che tengo nel mio studio”.
Giovanni Paolo II (dall’Unità, 3.4.2005 – intervista di Saverio Lodato): (papa Wojtyla e il comunismo) “Credo che ne abbia accelerato l’agonia (…) E del comunismo, che resta un fenomeno storico senza precedenti, è stato veramente un degno e fiero avversario. Un avversario vittorioso. (…) Lui ha vinto sul comunismo. E’ stato sconfitto dal proliferare delle guerre. Ciò però non lo ha smosso di un millimetro su quella che era la sua opinione. E la sua sconfitta, in questo caso specifico, è stata la sconfitta di moltissimi uomini nel mondo. (…) Noi oggi vediamo tanti uomini che hanno responsabilità mondiali, mancare spesso ai loro impegni. Questo Papa ha fatto impallidire l’immagine di questi uomini”.
Accoglienza (da laRepubblica, 28.12.2015, intervista di Tano Gullo dal titolo “Sicilia, resisti e fai pagare chi sbaglia”) "Noi non mettiamo in discussione l'accoglienza. Abbiamo dimostrato di saperlo fare meglio degli altri. Per secoli siamo stati terra di passaggio e di scambio. Il problema è che sono troppi. E noi non siamo in grado di gestire queste masse di disperati".
Comunismo sovietico e gulag (da “Questo mondo un po’ sgualcito”, a colloquio con Francesco De Filippo, Infinito Edizioni, 2011): “Più tardi ci sono state le azioni riprovevoli, ma non mi riferisco ai gulag. Voglio precisare che i gulag non furono campi di sterminio; Solgenitsin, tanto per fare un nome, con i nazisti non sarebbe sopravvissuto (…) Queste, chiamiamole così, azioni riprovevoli hanno offuscato ciò che ha rappresentato l’URSS. Per milioni e milioni di persone il riscatto dalla povertà, la dignità del lavoro che l’URSS prometteva, sostituiva di gran lunga l’idea generica di libertà che l’America proponeva senza incidenza sulla realtà economica europea”.
Comunismo cubano e desaparecidos (da “Questo mondo un po’ sgualcito”, a colloquio con Francesco De Filippo, Infinito Edizioni, 2011). “C’è chiaramente una dittatura, ma non ci sono stati desaparecidos (NdR: non è vero), cioè si sa chi era e chi è ancora in galera, con nome e cognome, non ci sono scomparsi perché prelevati di notte dalla polizia o dai paramilitari. Volendo, i parenti possono visitarli. Ci sono state fucilazioni, ma vanno viste le condizioni che hanno portato a questo”.
Comunismo e mancanza di libertà (da “Questo mondo un po’ sgualcito”, a colloquio con Francesco De Filippo, Infinito Edizioni, 2011:“Quello è inevitabile perché tu… non sono cose che vengono fatte perché l’uomo è buono, allora di sua spontanea volontà… tu devi costringere l’uomo a fare alcune cose e quindi alcune libertà personali vengono limitate ma… la domanda che allora io rivolgerei è: dov’è che non vengono limitate le libertà personali nel mondo?”..
Salvini e il Rosario ( intervista di Massimo Giannini per Radio Capital, 12.6 2019): “Sinceramente? Mi dà un senso di vomito. E’ chiaro che tutto questo è strumentale, fa parte della sua volgarità. Papa Francesco, che sa quello che fa, non impugna mai il Rosario, perché sa che offenderebbe i santi, nel momento in cui se ne servisse per fare propaganda”.
Ancora Salvini (intervista di Giuseppe Rolli per Servizio Pubblico, 24.4.2019): “Il fascismo, che in Italia si è manifestato sotto forma di una dittatura, è un virus mutante. Può anche non essere una dittatura, ma essere una mentalità. Non posso trattenermi dal dire che con il governo di oggi abbiamo un esempio lampante di mentalità fascista, quella del ministro Matteo Salvini. Quella è mentalità fascista., una delle forme di fascismo che può anche essere eletta democraticamente. Oggi molti italiani rimpiangono il fascismo e si sono dimenticati in virtù della loro scarsa memoria che già prima del 1938 c’erano stati il bavaglio alla stampa, la censura sui libri da leggere, l’impossibilità di esprimere un parere personale, l’identificazione totale col capo, l’assassinio di Matteotti, la morte di Gramsci, gli esili a Ventotene, gli arresti. L’italiano, e lo dico per i miei fratelli, ha memoria solo per due cose: Sanremo e la formazione di calcio della Juventus del 1930. Per il resto ha una labilità di memoria che fa spavento”.
Conclusione. Scrisse di lui Avvenire: “Poeta della vita”. Dissero di lui padre Antonio Spadaro e don Luigi Ciotti: "Voce profetica, un modello per tutti noi, un ragionare pacato e lucido"… Lette le citazioni (certo solo una minuscola selezione, ma forse già significativa), ai lettori l’ardua sentenza.
ANDREA CALOGERO CAMILLERI: FALCE E MARTELLO…CON SORPRESE – di GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org – 6 agosto 2019
IL CORDOGLIO INVERTITO
di Roberto Pecchioli
Arroganti, rabbiosi, ridicoli: l'agonia del cattocomunismo morente. Alla testa di un esercito scomparso gli orfani di Marx strepitano tuonano come se fossero gli dei dell’Olimpo defenestrati da una scellerata rivolta di schiavi
In questo torrido luglio in cui le notizie arrivano attutite, assopite anch’esse tra afa e temperatura, due intellettuali novantenni hanno lasciato la vita. Luciano De Crescenzo avrebbe compiuto 91 anni tra un mese, Andrea Camilleri viaggiava verso i 94. Uno, De Crescenzo, si era allontanato dai riflettori già da qualche anno, l’altro ha conosciuto la celebrità in vecchiaia grazie ai gialli sul commissario Montalbano divenuti trionfo televisivo, ammalandosi mentre preparava una performance teatrale nei panni del mitico Tiresia, l’indovino cieco della tradizione greca.
Il rispetto per il mistero della morte, unito all’età grave di entrambi, impone parole di circostanza, pronunciate a bassa voce, mezzi toni che contrastano con il rumoroso cordoglio che ha accompagnato la dipartita di entrambi, specialmente quella di Camilleri. Una volta ancora, la fine di un esponente della sinistra è stata accompagnata dalla sopravvalutazione della sua figura e della sua opera. Lo confessiamo: siamo tra i rari italiani a cui non piace il commissario Montalbano, infastiditi dall’ingombrante presenza del suo autore, che per anni ha accompagnato le serie televisive con le auto recensioni, una sorta di esegesi o interpretazione autentica di Montalbano ad uso dei telespettatori. Apparteniamo invece alla schiera degli ammiratori incondizionati di Luciano De Crescenzo, lo straordinario ingegnere, filosofo, scrittore, divulgatore culturale, personaggio televisivo, attore e tanto altro ancora.
L’omaggio a Camilleri ci è parso esagerato, scomposto, animato dalla consueta autoreferenzialità del milieu culturale italiano, rafforzato per l’occasione da ampi settori della politica e delle istituzioni. Il cordoglio, diciamolo senza infingimenti, ha riguardato soprattutto le idee politiche di Camilleri. Iscritto al Partito Comunista fin da giovane, ma non certo discriminato dalla televisione democristiana in cui lavorò per decenni come autore e sceneggiatore, era il perfetto rappresentante dell’intellettuale organico italiano che ha attraversato l’interminabile dopoguerra. Sinistrissimo, nemico giurato di Berlusconi prima, di Salvini ultimamente ( in una delle ultime dichiarazioni pubbliche affermò che il leghista lo faceva vomitare) , ateo, tanto che è stato sepolto nel cimitero acattolico di Roma, negli ultimi anni appariva come una sorta di vate, un grillo parlante vetero comunista, davvero un’imitazione di Tiresia, in grado di discettare come l’oracolo di Delfi sull’universo mondo, favorito nell’impresa dalla voce profonda, dalla cadenza siciliana arrochita per il fumo e da quella presenza scenica forte, indiscutibile, che riempiva lo schermo.
Eppure, al di là della santificazione della sua parte politica, egemone culturalmente nonostante decenni di sconfitte, non ci sembra un grande. Il personaggio che gli ha dato notorietà e quattrini (si può almeno sfiorare l’argomento, parlando di un monumento, un venerato maestro della sinistra?) non è poi granché. La forza di Montalbano non sta nelle trame, che in televisione appaiono lente e lunghe, né nelle fulminee intuizioni di poliziotto. E’ un misto, un’alchimia tra la prodigiosa prestazione di Luca Zingaretti, l’attore che lo ha impersonato fino a diventare lui steso Salvo Montalbano e la rappresentazione di una Sicilia oleografica, inventata, a partire dal linguaggio e dai nomi delle città. Grande è stata la capacità degli sceneggiatori di scegliere scorci straordinari dell’isola, un mix di Ragusa Ibla, Modica, Scicli, Scoglitti e il suo mare, per ricreare e restituire al pubblico la luce accecante e insieme le penombre di una terra senza mezze stagioni.
In più, alcuni personaggi sono apparsi in televisione ben diversi da come il Camilleri scrittore li aveva descritti nei libri: il povero poliziotto Catarella ridotto a macchietta pressoché analfabeta tra strafalcioni e testate nella porta dell’ufficio dell’ammiratissimo Montalbano, il vice commissario Augello ridotto a erotomane belloccio, onesto e un po’ tardo. La genialità dei registi, dello stesso Camilleri, esperto uomo di comunicazione televisiva, è stata trovare maschere di contorno che hanno conquistato il pubblico, come il medico legale magistralmente disegnato dall’attore Marcello Perracchio, anch’egli defunto. Almeno due espressioni sono diventate tormentoni popolari, l’immancabile “Montalbano sono”, e l’intercalare seccato del medico Pasquano, “non mi rompa i cabbasisi”, il nome dialettale di ascendenza araba di certe bacche dai frutti ovoidali. Camilleri è stato l’inventore di una lingua che non c’è, ungrammelot dialettale siciliano molto televisivo, immaginifico, splendidamente padroneggiato da Zingaretti e dagli altri attori. Lo scrittore è stato assai inferiore al Camilleri esperto televisivo. Resta però il fastidio per il retrogusto orientato politicamente di tutti gli episodi, tutto il bene da un lato, ogni male dall’altro, la simpatia mai celata per gli stranieri immigrati, il furore moralistico contro la parte politica avversa, dipinta in un continuum di corruzione, malvagità e depravazione. Un manicheismo che adesso, post mortem, ci appare meno negativo, ma che ha appesantito le dichiarazioni dell’uomo e le prestazioni dello scrittore. L’interessato cordoglio “politico” non ha nascosto il rimpianto per l’uomo di parte, più che per l’artista.
Chi avrebbe meritato gli onori riservati a Camilleri è il suo quasi coetaneo De Crescenzo, sintesi perfetta della migliore intellettualità napoletana, unita al respiro universale e alla leggerezza sorridente dei grandi. La sua biografia è di per sé un romanzo: figlio della borghesia partenopea, scelse di studiare ingegneria anziché l’amata filosofia per seguire una ragazza. Si innamorò dell’intelligenza di un grande matematico (il fascino del pensiero astratto!) e fece un’ottima carriera alla IBM. Poi, attraverso Renzo Arbore, geniale scopritore di talenti, approdò alla televisione, quindi alla letteratura e alla saggistica “alta”. Divulgatore di rara sensibilità, disse di sé: “credo di essere una di quelle scalette con soli tre gradini, che si trovano nelle biblioteche e che consentono di prendere i libri dagli scaffali che stanno più in alto.” Sapeva di non sapere, come Socrate, prendeva la distanze anche da se stesso e riusciva a rendere lieve ogni argomento senza ridurlo a caricatura superficiale. L’amore per la Grecia classica, madre della filosofia, ha reso arte il suo talento di divulgatore capace di coniugare alta cultura, vette del pensiero e levità.
Autore di successo internazionale, ha venduto 18 milioni di copie dei suoi libri, tradotti in diciannove lingue. Esordì con un delizioso romanzo-saggio, poi divenuto film di successo interpretato e diretto da lui stesso, Così parlò Bellavista, la storia, velatamente autobiografica, di un saggio professore napoletano e dei suoi ammirati allievi. Vendette in pochi mesi 600 mila copie in Italia ed è un autentico pezzo di bravura l’apologo di Bellavista sugli uomini d’amore e gli uomini di libertà. La sua passione per l’antichità greca e la filosofia classica lo portò a scrivere saggi di profondo valore, in cui una vasta cultura si unisce alla capacità di spiegare con semplicità, ma mai banalmente, le asperità del pensiero. La sua ricognizione storica del pensiero occidentale, una tetralogia che si ferma a Kant, non dovrebbe mancare nella biblioteca di chi ama la cultura.
Aldo Grasso, il più noto critico televisivo italiano, ha scritto un breve, ma intenso corsivo in ricordo di De Crescenzo, ricordando la sua diffidenza per i grandi ascolti – la tirannia dell’audience, che chiamava odiens, causa dell’abbassamento della qualità di tutti i programmi televisivi. La tv, per andare incontro al gusto delle masse abbassa il proprio gusto fino a farlo coincidere con quello della parte più bassa del pubblico. Distaccato come ogni napoletano colto che si rispetti, De Crescenzo non credeva alla maggioranza, fino a domandarsi con ironia: se la maggioranza è stupida, come fa una nazione a vantarsi di essere democratica?
De Crescenzo e Camilleri. Il cordoglio invertito.
di Roberto Pecchioli
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Camilleri, senza esagerare
Quando muore un personaggio pubblico bisogna rispettare la memoria e difenderlo dai suoi impietosi detrattori ma anche dai suoi esagerati incensatori. Andrea Camilleri era uno scrittore televisivo che vendeva libri, che intrigava con le sue trame e il suo linguaggio fantasiculo; che sapeva gigioneggiare dall’alto dei suoi novant’anni, recitando un ruolo ironico-profetico da oracolo televisivo che parodiava bene Fiorello. E poi, per compiacere la Ditta, Camilleri andava sul sicuro, faceva l’antifascista, seppure molto postumo, ieri antiberlusconiano, oggi antisalviniano ma sempre contro il Duce, a babbo morto. Una polizza per la gloria.
Era uno scrittore bravo, non un Grande Scrittore, come lo presentano. Non entra nella grande letteratura, non esagerate, ma rimane nella bestselleria corrente e nella personaggeria letterario-televisiva. Non rendetelo ridicolo, paragonandolo a Pirandello e Verga, e pure a Sciascia. Via, abbiate senso della misura. Non mettetegli pennacchi e aureole, abbiate rispetto di un morto.
MV, 17 luglio 2019
IL CATTOCOMUNISMO MORENTE
di Francesco Lamendola
Il mondo, negli ultimi cinquant’anni, è stato rivoltato come un guanto, e praticamente nulla di ciò che era vero cinquant’anni fa viene passato per buono oggi. Dall’economia alla finanza, dalla critica letteraria e musicale alla televisione, allo sport, al diritto, alla psicologia, alla medicina, alla biologia, perfino alla geologia (le zolle tettoniche: e chi ne parlava, allora?), nulla è rimasto come prima: le certezze sono state annientate, e nuove verità, o presunte tali, sono emerse dopo ogni crollo. Ma là dove il mutamento è stato più impressionante, è nell’ambito religioso e morale. Quale sacerdote, quale vescovo, quale pontefice avrebbe potuto tollerare di sentir dire, in chiesa, come oggi avviene, da parte di membri del clero, ma anche da parte di personaggi invitati ad hoc, e che rappresentano l’esatta antitesi della fede cattolica come la signora Bonino, cose che allora sarebbero state considerate eresie e autentiche bestemmie? E non è solo una questione di forma e di gusto: no, è una questione di sostanza. Un papa che dice che le Persone della Santissima Trinità sono sempre in discordia fra loro; un papa che afferma che il proselitismo è un’autentica sciocchezza; un papa che dà ragione a Lutero sulla predestinazione, un papa così prima del Concilio, ma, crediamo, anche dopo, e fino a pochissimi anni fa, avrebbe suscitato delle reazioni immediate e così forti, da costringerlo a rettificare le sue parole o a dimettersi. Invece, oggi ciò non suscita una piega. Nell’ambito politico i cambiamenti sono stati quasi altrettanto radicali: i vecchi partiti sono pressoché scomparsi; l’ultimo che resta in piedi, il Pd, erede del vecchio Pci e passato attraverso numerosi restauri, aggiustamenti e maquillage, è avviato a sua volta alla rottamazione, e vende cara la pellaccia proprio perché era, ed è tuttora, il più radicato nelle istituzioni e anche sul territorio, ma in maniera semi-mafiosa, cioè monopolizzando cooperative di consumatori e organizzazioni di volontariato, e militarizzando i propri iscritti, in un modo che nessun altro partito ha mai saputo, potuto o voluto fare. Eppure, anch’esso è giunto agli sgoccioli. Cinquant’anni fa si parlava di utopia al potere, di fantasia nelle strade, di dare l’ultima spallata alla marcia borghesia, di instaurare il comunismo e liberare i lavoratori dallo sfruttamento di classe; oggi questi discorsi fanno sorridere, o forse piangere, ma certo sono percepiti come lontani e inverosimili, quasi quanto quelli che si potevano tenere nel senato dell’antica Roma o magari nell’arengo dei comuni medievali. Ma anche discorsi relativamente più moderati, come quelli che si potevano udire nell’agone politico fino a due decenni fa, apparirebbero oggi surreali: la lotta politica ha completamente cambiato volto e strategie, il vero potere si è definitivamente spostato al di fuori del Parlamento e degli stessi partiti, le modalità con cui ci si affronta per esercitare l’egemonia sono completamente diverse: e chi non l’ha ancora capito è irrimediabilmente tagliato fuori e destinato all’estinzione, così come si estinsero i dinosauri e poi altre specie del Quaternario.
Arroganti, rabbiosi e ridicoli? Alla testa di un esercito scomparso gli orfani di Marx, nonostante la benedizione di Bergoglio, i finanziamenti delle grandi banche; ora che si sentono doppiamente forti del vangelo di Che Guevara e di quello di Gesù Cristo, non capiscono perché gli operai se ne vanno, i lavoratori e gli Italiani gli voltano le spalle.
Gli ultimi a capirlo sono proprio quelli che avevano messo le radici più profonde, i militanti della sinistra e gli attivisti del vecchio Pci, riciclatisi in “moderni” democratici, grazie anche ad una robustissima iniezione di quel mortifero “ricostituente” che è il cattocomunismo. Ora che, orfani di Marx, hanno la benedizione di Bergoglio, Bassetti e Galantino, e hanno anche, il che non guasta, i finanziamenti delle grandi banche e dei grandi imprenditori; ora che si sentono doppiamente forti del vangelo di Che Guevara e di quello di Gesù Cristo, non capiscono perché gli operai se ne vanno, i lavoratori gli voltano le spalle, il loro elettorale si sfarina, e, fra poco, resteranno alla testa di un esercito scomparso, evaporato nelle sabbia come l’armata perduta di Cambise. È una vera ingiustizia, una beffa del destino, un qualcosa d’inspiegabile il fatto che proprio ora, che hanno, o credono di avere tutti gli assi in mano, la gente non li capisce più, non li ascolta, non li segue. La loro reazione è d’incredulità rabbiosa, di sacra indignazione, di furore impotente e sempre più rabbioso: come osa la plebe voltar le spalle a loro, i migliori, i più puliti, i più onesti e lungimiranti? Roba da matti: par di essere tornati ai tempi della Vandea. Vuoi vedere che, per rieducare questo popolo così egoista, così xenofobo, così restio ad accogliere le loro splendide ricette per la salvezza dell’Italia (e del mondo), si troveranno costretti a ricorrere a misure estreme, come i loro bisnonni giacobini, ad esempio bruciare la casa o fucilare alcune migliaia di superstiziosi e oscurantisti popolani? Perché, se una cosa del genere dovesse mai accadere, sia ben chiaro che la colpa non sarebbe loro: loro sono il bene, sono la giustizia sociale più il progresso: come potrebbero dire o fare cose sbagliate? Se il popolino smette di ascoltarli, se smette di votarli, se preferisce votare Lega e Movimento Cinque Stelle, non c’è neanche bisogno di precisare che è il popolino a uscir dal seminato, pertanto è il popolino che merita una severa lezione.
Una manipolazione globale? Ormai è chiaro a tutti che i veri burattinai (i poteri finanziari e bancari) sono contro i lavoratori, contro i risparmiatori e contro gli interessi dei popoli "sovrani": sapranno questi ultimi, magari accompagnati dai "veri cattolici" svegliarsi in tempo?
È significativo non solo di un modo di far politica, ma di una condizione sociologica e, vorremmo dire, di una certa antropologia, osservare le reazioni degli esponenti del Pd al fatto che il popolino si sia permesso di snobbarli, riducendo il suo consenso verso di essi, secondo gli ultimi sondaggi, a un misero 17%, mentre i Cinque Stelle sono attorno al 26% e la leghisti al 33%. Sia quando prendono la parola in parlamento, sia quando rilasciano dichiarazioni alla stampa, i Renzi, i Martina, i Fiano, i Delrio, Marattin, i Romano, le Moretti, non parlano, ma abbaiano e ruggiscono; non analizzano i fatti, ma si lanciano in furiose reprimende; non argomentano, ma insultano e inveiscono con un’acredine, con una rabbia, con un’indignazione che ricordano quelli di Caifa nel sinedrio, quando aveva davanti Gesù Cristo e cercava il pretesto per accusarlo di empietà e sacrilegio. Parlano come se la nascita del governo giallo-verde sia stata uno schiaffo intollerabile alla democrazia e una offesa nei confronti della stesa civiltà umana; si arrabbiano come un cane affamato al quale è stato sottratto l’osso; vomitano contumelie come se loro soltanto avessero governato bene, anzi meravigliosamente, e ora la nostra cara Patria, da loro così eccellentemente servita, fosse caduta nelle mani di un’orda barbarica, di un’accozzaglia di delinquenti. Non è soltanto il furore di chi si è visto sottrarre il proprio elettorato tradizionale dagli ultimi arrivati; non è solo l’amarezza di chi ha perso la presa, l’aggancio pratico e ideale con la gente comune, di cui si riteneva il solo legittimo interprete e difensore; è molto di più: è la furia incontenibile di chi si trova messo alle strette, cioè viene messo di fronte alla propria pochezza, alla propria inettitudine, al vero e proprio tradimento operato ai danni della classe lavoratrice, diventando il partito dei ricchi, delle banche e, a livello internazionale, dei Soros e della Goldman Sachs, e non può sopportarlo, non può ammettere di esser diventato così, e quindi preferirebbe veder l’Italia distrutta, calpestata, ridotta a un cumulo di macerie – dalla BCE, per esempio – pur di assistere alla disfatta di quelli che hanno preso il suo posto. Per la verità, non c’è niente di strano nel loro atteggiamento: sono sempre gli stessi, culturalmente, psicologicamente e antropologicamente, e la perdita del potere li sta facendo tornare alle origini, fa emergere la loro natura profonda. Sono nati così, dal sangue della guerra civile, sfruttando la vittoria di uno straniero che veniva ad occupare l’Italia e che, da vero nemico, qual era, si fingeva amico, attizzando gli odî e le divisioni di casa nostra; sono sempre quelli delle gloriose giornate dell’aprile e del maggio 1945, quando impazzavano, uccidendo, stuprando, picchiando chiunque non piacesse loro, solo perché avevano i mitra in mano e i vincitori avevano concesso loro qualche giorno di follia, per lasciarli sfogare, stile macelleria messicana, come si fa coi ragazzacci violenti, prima di rimetterli in riga, magari a bastonate.
Roba da matti: par di essere tornati ai tempi della Vandea. Vuoi vedere che, per rieducare questo popolo così egoista, così xenofobo, così restio ad accogliere le loro splendide ricette per la salvezza dell’Italia (e del mondo), si troveranno costretti a ricorrere a misure estreme, come i loro bisnonni giacobini, ad esempio bruciare la casa o fucilare alcune migliaia di superstiziosi e oscurantisti popolani?
E tutto questo non vale solo per i politici, ma anche, e a maggior ragione, per i cosiddetti intellettuali. Gli intellettuali di sinistrahanno vissuto e spadroneggiato in regime di monopolio per settant’anni; per settant’anni se la son cantata e suonata da soli, senza contraddittorio; hanno dettato legge, hanno scritto e imposto i libri di testo nelle scuole, perfino le canzoni che le maestre di musica insegnavano ai bambini nelle scuole, Bella ciao in testa. Ahimè, quelli dell’ultima generazione hanno assistito all’oltraggio di una Italia che è diventata, chissà come, populista e razzista e non riescono a darsi pace: i Saviano, i De Luca, gli Evagelisti, i Camilleri, schiumano rabbia e digrignano i denti, sostenuti da testate come Famiglia Cristiana e L’Avvenire, che, se è sempre vero che il mondo è rotondo e non piatto, non dovrebbero stare dalla loro parte, né dire le stesse cose che dicono loro: ma tant’è, oggi accade anche questo miracolo sulla via della Open Society Foundation del grande filantropo internazionale, lo zio George. La loro indignazione e la loro rabbia offrono uno spettacolo più che eloquente di arroganza, ma soprattutto di ridicolaggine: ecco, sono semplicemente ridicoli.Non patetici, ridicoli. È patetico colui che è stato qualcosa e poi è decaduto; ma costoro sono sempre stati piccoli e meschini, eppurestrepitano e tuonano come se fossero gli dei dell’Olimpo, defenestrati da una scellerata rivolta di schiavi. Come nel caso – paradigmatico – del poeta Salvatore Quasimodo. Vale la pena di rievocarlo, perché in esso c’è tutta la psicologia di questi signori.
Arroganti, rabbiosi e ridicoli: l'agonia del cattocomunismo morente. La loro reazione è d’incredulità rabbiosa, di sacra indignazione, di furore impotente e sempre più rabbioso: come osa la plebe voltar le spalle a loro, i migliori, i più puliti, i più onesti e lungimiranti?
Arroganti, rabbiosi e… ridicoli
di Francesco Lamendola
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MORTI CHE SEPPELLISCONO MORTI
di Francesco Lamendola
Leggiamo nel Vangelo di Matteo questo brevissimo ed enigmatico episodio (8, 21-22): E un altro dei discepoli gli disse: «Signore, permettimi di andar prima a seppellire mio padre». Ma Gesù gli rispose: «Seguimi e lascia i morti seppellire i loro morti».Fiumi d’inchiostro sono stati versati su quelle parole di Gesù, cercandovi chissà quali misteriosi e reconditi significati: eterna tentazione dello gnosticismo, anche in salsa cristiana: trovare un livello di “sapienza” nascosto, inaccessibile al volgo ma esperibile dagli illuminati, dagli eletti. Comunque, alla fine, bisogna arrendersi all’evidenza: per Gesù, un bel po’ di persone sono già morte da vive; sono dei cadaveri ambulanti, ovviamente in senso morale e spirituale. Quelle persone sono già morte, e non lo sanno. Se ne vanno in giro con l’aria più normale di questo mondo e pretendono perfino di prendersi cura degli altri, sepoltura dei propri cari compresi: madovrebbero piuttosto seppellire se stessi, se solo si rendessero conto di quel che è diventata la loro vita. Un giudizio severissimo, quasi spietato. Che contrasta con l’immagine edulcorata, un po’ zuccherosa, che una certa cultura cattolica “progressista” pretende di fare del Vangelo e del suo fondatore. Ma Gesù, lo abbiamo detto tante volte, non era un buonista; e quando un giovane adulatore, una volta, gli si rivolse chiamandolo Maestro buono, Egli lo riprese, dicendo: Perché mi dici: buono? Uno solo è buono: il Padre nostro che è nei cieli.
George Soros premia Emma Bonino: la grande italiana per la neochiesa di Bergoglio
Il mondo, dunque, è pieno di morti viventi: gente che crede di essere viva, mentre porta a spasso il proprio cadavere. Succede in politica, nell’economia, nella cultura; oltre che, naturalmente, nella sfera della vita d’ogni giorno delle persone comuni. Sono dei morti viventi quei sedicenti intellettuali, per esempio, i quali continuano a pensare vecchio, a scrivere vecchio, a spacciare per cose vive e attuali le loro idee superate, le loro nostalgie puerili, le loro utopie fallimentari. Questi Camilleri, per esempio, che inondano il mercato librario con le imprese di un commissario siciliano che non s’imbatte mai in un caso di mafia, mai, neanche una volta: e intanto dipinge una Sicilia di maniera, tutta eros, corna, palazzi barocchi e mare blu; e che profitta della sua notorietà per dichiarare che l’immigrazione è una cosa meravigliosa e che chi non è d’accordo è vecchio, non sa vedere il futuro. Scrivono romanzi ed articoli come se fossimo ancora negli anni Sessanta del Novecento: non rassegnati al fatto che la realtà ha sbugiardato le loro illusioni, le loro velleità, insistono a riproporle, cercano di apparire giovani solo perché, avendo il sostegno dei mass-media, hanno accesso ai salotti televisivi e si godono il facile applauso del pubblicato pagato per quello. Stessa tipologia nel mondo dell’impresa: Marchionne che porta via la Fiat, dopo che questa ha usufruito di fiumi di denaro pubblico dallo Stato, e ora punta tutte le sue carte sul taglio del costo del lavoro, delocalizzando gli stabilimenti e sottraendosi al fisco italiano, è l’emblema di questa incapacità di rinnovarsi, di pensare in modo creativo. Nella classe politica la presenza dei morti viventi è ancora più ingombrante. Che siano dei morti viventi, delle persone che non hanno nulla da dire e nulla da dare, lo si vede non appena sono messi alla prova del voto: un esercito di nominati che si squaglia, si dissolve come nebbia al sole, dopo aver ingombrato il campo, cioè il Parlamento e i governi, per anni e anni, paralizzando la società italiana e bloccando qualunque possibilità di autentica ripresa, anche economica. Che fine hanno fatto, alla prova del voto, i Grasso, le Boldrini, i Gentiloni? Spariti, dissolti: tornati nel nulla da cui erano venuti fuori. Ora c’è un morto vivente, Silvio Berlusconi, che si aggrappa con furia rabbiosa al palcoscenico della politica e che, col suo cadavere (politico), continua a ostacolare, a bloccare ogni speranza di ripresa della società, dell’economia, del sistema Italia. Pur di far valere il proprio ego patologico, pur di proteggere strenuamente il suo impero finanziario - cresciuto di sei o sette volte negli ultimi vent’anni, mentre l’Italia ha subito un massacro finanziario che l’ha impoverita come non si era mai visto da che esiste come nazione indipendente – sarebbe disposto a far fallire qualunque tentativo di creare un governo capace di esprimere almeno un poco i veri interessi nazionali del Paese, e non quelli dei banchieri e dei burocrati di Bruxelles (gli stessi che fecero cadere il suo governo nel 2011, ma l’ha già dimenticato e non esita a cercare la loro protezione per mettere i bastoni fra le ruote di Salvini). E con lui l’esercito delle bellone, delle raccomandate, delle igieniste dentali, delle formose laureate a pieni voti che meritano di fare strada, e con le quali ha riempito le aule di Camera e Senato, procurando loro una carriera a spese nostre, di noi contribuenti, per ricompensarle di ciò che ha ricevuto da loro: quando ci libereremo di simili presenze? Sono morte e non lo sanno; portano in giro le loro tette decorative, e non vogliono capire che la loro stagione è finita, è finito il tempo in cui un satrapo comprava tutto e tutti, per metter su governi il cui solo scopo era fare gl’intessi del suo impero finanziario. E così i pennivendoli che hanno celebrato le sue qualità inesistenti e si sono adattati a fare da paggi e da valletti per un quarto di secolo: morti viventi che spariranno nel nulla dal quale son usciti, lasciandosi dietro le spalle un giornalismo umiliato e allo sbando, una pubblica informazione prostituita oltre ogni limite della decenza e del buon gusto.
Lasciate che i morti seppelliscano i morti
di Francesco Lamendola
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QUALE PARADISO DEI COMUNISTI?
Come mostrare la verità a chi non vuol vederla? Va bene esser stati comunisti e creduto nel "Mito di Stalin", ma come è possibile, che fior fiore di uomini di cultura abbiano continuato dopo la denuncia di uno come Soleženitsyn
di Francesco Lamendola
Il viaggiatore che, tornando dal centro di Udine, si avvia verso la stazione ferroviaria, giunto all’altezza di Piazza della Repubblica, quasi di fronte al vasto edifico della scuola elementare Dante Alighieri - la scuola della nostra infanzia - resta colpito da un condominio dall’aspetto un po’ particolare, che spicca di una spanna al di sopra dei soliti caseggiati moderni, dall’aria anonima e intercambiabile; e che infatti è familiarmente chiamato dagli udinesi il Palazzo di vetro per la fuga prospettica delle finestre che formano come una serie di anelli continui lungo tutta la facciata, che gli conferiscono trasparenza, sveltezza ed eleganza. Noi, allora, ovviamente non lo sapevamo, né alcun insegnante ce l’ha mai spiegato, ma quel particolare edificio segna l’inizio, a Udine, nella modernità nell’ambito architettonico, precisamente l’anno 1935. L’ideatore dell’edificio, che è più esattamente noto agli studiosi come Palazzo Piussi Levi, èl’architetto Ermes Midena, di San Daniele del Friuli (1895-1972), il quale ha legato il suo nome anche a diversi altri edifici, tutti caratterizzati da un’impronta originale, come le casette a schiera in via Di Toppo, o il sorprendente palazzo del grande magazzino Il lavoratore, con la facciata tutta in cristallo e acciaio, e la sottostante Galleria Bardelli, o ancora la villa Brunetti Caisutti, in Via Antonio Caccia, quella che noi preferiamo, nella sua funzionale semplicità, col suo piccolo giardino, il basso muretto di recinzione e le superfici coperte da mattonelle smaltate color terra di Siena. Ma il Palazzo di vetro spicca fra le altre opere sia per la posizione centrale, sia per l’originalità dell’impianto costruttivo: essa esprime i concetti chiave del razionalismo architettonico, anche se, contemporaneamente, l’eclettico Midena rendeva omaggio al regime fascista costruendo, in perfetto stile fascista, cioè “romano”, la Casa della G.I.L. femminile e il Collegio dell’Opera Nazionale Balilla, sempre a Udine, nonché la Casa dell’Opera nazionale Balilla a Codroipo; e progettava, a Tarvisio, la Colonia Alpina dell’Opera Nazionale Balilla.
Palazzo Piussi Levi, chiamato dagli udinesi "Palazzo di vetro" opera dell'architetto Midena
Diamo queste ultime notizie perché Midena, a guerra finita, si iscrisse al Partito Comunista, fu eletto e divenne assessore comunale nelle file di quel partito, e fu membro della commissione edilizia; e quando si ammalò di ulcera, cui si aggiunsero poi l’enfisema polmonare e l’asma, andò a curarsi in Unione Sovietica. E ogni volta che, in seguito, passavamo davanti al Palazzo di vetro, ci accadeva di ripensare all’itinerario professionale e umano di questo notevole concittadino – si era stabilito in una delle sue case a schiera in Via Di Toppo, e a Udine si spense il 19 ottobre 1972 – e di metterlo in relazione con quello di altri stimati professionisti e intellettuali, dei quali potremmo fare un lungo elenco, compreso il nostro professore di lettere delle scuole medie, che fu partigiano e tra i fondatori dell’A.N.P.I. di Udine, e che noi abbiamo ricordato con gratitudine in un’altra occasione (cfr. l’articolo: “Cena a Talmassons”, di Rino Domenicali, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia 10/10/17). E quel che vale per la nostra città, Udine, vale per tutte le città e i paesi d’Italia, anzi vale per tutta l’Europa e per tutto il mondo. La domanda insistente, molesta, come una zanzara che non se ne va, che non vuol andarsene, è sempre la stessa: va bene esser stati comunisti fino alla Seconda guerra mondiale; va bene aver creduto nel mito di Stalin prima del XX Congresso del P.C.U.S.; ma come è possibile che fior fiore di scrittori, architetti, registi, critici, filologi, artisti e filosofi, uomini di studio e di pensiero e non uomini del popolo, illetterati e facilmente suggestionabili, abbiano continuato a soggiacere a quel mito anche dopo la denuncia dei suoi crimini del suo lato mostruoso; che anche dopo il formidabile e inoppugnabile atto d’accusa di un gigante come Soleženitsyn abbiano continuato a rifiutarsi di ammettere la realtà del comunismo, la realtà dell’Unione Sovietica, e seguitato a cantare Bandiera Rossa e Bella ciao e a credere fermamente, incrollabilmente, che il verbo di Marx e Lenin avrebbe rifatto il mondo e ne avrebbe costruito uno migliore, più giusto e più umano? E da quella scomodo domanda, subito ne sgorgava una seconda, ancor più radicale, ancora più imbarazzante: che cosa deve succedere, che cosa si deve fare o dire, per mostrare agli uomini la verità delle cose, se essi, accecati da un’ingannevole ideologia, non sono assolutamente disposti ad accettarla?
Stalin nel cuore ad una manifestazione del PCI? Va bene esser stati comunisti e creduto nel "Mito di Stalin", ma come è possibile, che fior fiore di uomini di cultura abbiano continuato anche dopo il formidabile e inoppugnabile atto d’accusa di un gigante come Soleženitsyn e abbiano continuato a rifiutarsi di ammettere la realtà del comunismo, la realtà dell’Unione Sovietica, e seguitato a cantare Bandiera Rossa e Bella ciao!
Questa situazione psicologica è stata ben descritta da un altro friulano, lo scrittore Carlo Sgorlon nel suo romanzo La carrozza di rame, in cui descrive il ritorno a casa di Ettore, un vecchio comunista espatriato in Unione Sovietica durante il fascismo, e tornato a casa solo dopo tre decenni e infiniti patimenti, povero vecchio in un mondo ormai cambiato, il quale cerca di raccontare agli amici, compagni dalla fede incrollabile, quel che gli era accaduto, ma va a sbattere contro un muro d’incredulità preconcetta, perché in Unione Sovietica, secondo loro, le cose non possono essere come lui le descrive, anche se le ha viste coi sui occhi e vissuti sulla propria pelle (da: C. Sgorlon, La carrozza di rame, Milano, Mondadori, 1979, pp.269-271):
In Russia, anziché come un profugo, che aveva combattuto contro il fascismo, l’avevano guardato con mille sospetti e oblique diffidenze, e avevano finito per sbatterlo prima in un campo di concentramento e poi in una miniera d’oro, tra le montagne del Grande Altai. Là sotto faceva sempre un caldo soffocante, quaranta gradi e passa. Come tutti gli altri, veniva buttato di qua e di là come un oggetto. Era diventato una pratica polverosa negli scaffali di qualche archivio di polizia, senza nessun diritto, cancellato dal mondo, senza alcuna speranza, se non quella di lavorare nella miniera fino alla morte. Nessuno aveva mai dato il minimo ascolto alle sue proteste, e presto aveva dovuto smetterle perché ottenevano l’effetto contrario. Ciò che lo aveva tenuto in vita, che l’aveva indurito nella sopportazione, era soltanto la speranza remotissima di riuscire un giorno a tornare, per raccontare la verità.
“Il paradiso sovietico è un inferno” concluse.
“Forse c’è stato qualche errore. Vi hanno scambiato per un altro” disse Teodoro, che sentiva vacillare molte sue convinzioni.
La Russia di Stalin fu il paradiso dei Comunisti Italiani?
“Nessun errore. Fu per pura diffidenza”.
Stalin non era il bonario patriarca del popolo, come centinaia di milioni di comunisti credevamo in tutto il mondo, ma un paranoico che vedeva spie, traditori e minacce al suo potere dappertutto. Ettore su questo punto aveva idee fermissime come il diamante. Aveva lavorato nelle miniere accanto a dissidenti politici, con gente che era stata torturata e perseguitata, e che per un pelo non era finita davanti al plotone d’esecuzione. Aveva parlato con loro quando i sorveglianti non li stavano a sentire, e si era fatto un’idea paurosamente chiara della Russia staliniana.
Adesso sentiva di avere un solo compito, quello di rintracciare i vecchi compagni, gli amici, i ferrovieri in pensione, e raccertare loro come stanno le cose. Nonostante tutto ciò che aveva provato, si sentiva ancora investito di una imperiosa missione, perché spogliarsi di essa voleva dire togliere ogni senso e ogni sapore al rottame della sua esistenza.
Ma i suoi antichi compagni non gli credettero. Lo ritennero un traditore o un pazzo. Ciò che raccontava era tutta un’invenzione, una infame calunnia, una farneticazione da visionario, o peggio il frutto di una macchinazione capitalistica. Misero in dubbio perfino il fatto che fosse stato un Russia. Ettore per convincerli cominciò a parlare in russo e a descrivere tutto ciò che aveva visto in quel Paese. Si trattava del resto soltanto di cose vedute nel viaggio di andata e di ritorno. La Russia per lui era soprattutto una miniera d’oro, tra montagne remotissime di una Siberia spopolata.
I compagni ammisero che sì, forse era stato in Russia, ma non erano del tutto convinti neppure di questo. Nei loro sguardi Ettore sentiva pesare su di sé il ricordo dello stesso sospetto che in Russia l’aveva avvolto per trent’anni, un bozzolo che neppure la scure o la dinamite avrebbero potuto sfondare. Quanto al resto, le considerarono la farneticazione di un pazzo o l’invenzione di un traditore. Cercarono di isolarlo, di farlo tacere. Loro erano arcisicuri che mentisse, ma forse non tutti avevano la stessa fede. Lo intimidirono, lo minacciarono, inventarono arcigni ricatti contro di lui. Ettore non tacque. Niente poteva spaventarlo. Aveva visto il diavolo, nelle miniere d’oro, sapeva che nulla di peggio vi poteva essere, e non aveva paura di niente. Persino la sua vita non valeva per lui più di un fico secco, e contava soltanto la verità da raccontare. Tuttavia la sua testimonianza naufragava contro la roccia solidissima dei compagni, per i quali Stalin e la Russia continuavamo a essere stelle polari in una notte profonda del mondo.
Ettore si affannava. Contava e tornava a contare la sua storia, aggiungeva nuovi particolari, ma andava sempre a cozzare contro un’incredulità di granito. Cominciò a dubitare di poter mai smantellare la fortezza della mistificazione, In fondo li capiva. Lui stesso aveva posseduto quella fede, e non avrebbe creduto a nessuno che gli avesse raccontato le sue esperienze, trent’anni prima, se non fossero incise sulla sua pelle. Chiese di entrare nelle case di molti vecchi compagni, ma nessuno lo volle. Si sentì come l’uomo con la gamba fasciata di fetidi stracci, che svegliava la gente col campanaccio di mucca, nel pieno della notte, gridando che era scoppiata la peste, e che tutti cacciavano come un cane rognoso. Era un fantasma che tornava dall’altro mondo. Il suo primo torto era quello di essere tornato. Il secondo, molto più grave, era quello di tentare di distruggere un mito, e per lui non poteva esservi che la lapidazione o la croce.
Come potrà venire qualcosa di buono da una generazione che non vuol riconoscere i propri errori, che non vuol ammettere la superiorità del principio di realtà su tutte le ideologie di questo mondo?
Come mostrare la verità a chi non vuol vederla?
di Francesco Lamendola
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