Padre Pio, monaco crocifisso (romanzo celeste)
Ci siamo persi lungo le vie del mondo, abbiamo incrostato di fango le nostre parole, abbiamo oscurato i nostri simboli e ora non siamo più in grado di intendere la lingua di Dio. Senza più testa e senza più cuore, non siamo capaci guardare negli occhi i veri santi, perle tra le perle del linguaggio divino. Per questo i cristiani secolarizzati ricostruiscono mutevolmente vite canoniche per sé irreformabili, le profanano a propria immagine e somiglianza, con capriccio, senza intelligenza e senza amore. Anche quando ritiene di essere religioso, l’uomo di oggi ha dimenticato quanto rammentava Hugo Ball nel suo aureo Cristianesimo Bizantino, che “La lingua di Dio non ha bisogno dell’accettazione umana. Semina i suoi segni e aspetta. Per lei tutto ciò che è umano è solo un’occasione. La legge del suo operare è: dire sempre la stessa cosa”.
Così, appena pochi decenni dopo la sua morte, padre Pio non è già più comprensibile ai figli del suo stesso ordine, che si sono concessi al linguaggio degli uomini. “Cacciateli via”, aveva inveito il padre dalla sua Tebaide pugliese contro i giovani frati che chiedevano di scrivere le nuove Costituzioni cappuccine secondo un codice spirituale invertebrato e gradito al mondo. I suoi stessi contemporanei non capivano la durezza del suo linguaggio perché non comprendevano più la durezza della sua fede. Se si prende a misura la vita religiosa di oggi, non c’è cappuccino meno cappuccino di padre Pio. Il suo calco spirituale si trova nell’Egitto del III e del IV Secolo, codificato da Sant’Atanasio nell’esemplare Vita di Antonio. “Veramente Dio l’aveva dato all’Egitto come medico” scrive il vescovo di Alessandria d’Egitto del fondatore del monachesimo. “Chi andò da lui nel dolore e non tornò nella gioia? Chi andò da lui piangendo i suoi morti e non depose subito il lutto? Chi andò da lui nella collera e non si convertì a sentimenti di amore? Chi, afflitto per la sua povertà, venne a trovare Antonio e ascoltandolo e vedendolo non disprezzò la ricchezza e trovò conforto nella sua povertà? Quale monaco scoraggiato andò da lui e non divenne più saldo? Quale giovane salì alla montagna e, veduto Antonio, non sentì subito inaridirsi i piaceri e non amò la temperanza? Quando mai andò da lui qualcuno tormentato dal demonio e non ne fu liberato? E chi andò da lui tormentato dai pensieri e non trovò la pace della mente”.
Nel monaco del Gargano erano evidenti gli stessi segni che gli antichi cristiani riconoscevano e testimoniavano nei Padri nascosti tra le montagne scheletriche di Scete, di Nitria, di Tebaide. “Mani che, levate, sprigionano fiamme, che bisogna abbassare in fretta nell’orazione per non esserne travolti via, nell’estasi” dice Cristina Campo nell’introduzione ai Detti e fatti dei Padri del deserto che curò per l’editore Rusconi. “Corpi su cui un’aquila di fuoco cala a piombo durante la Sinassi, un lenzuolo di fuoco si posa durante la vestizione. Risplendente, minacciosa autonomia di una cocolla, di un cordiglio, di un salterio così inzuppati della vita di un santo da ustionare il nemico come ferro incandescente, strappandogli alte grida”.
I Padri erano arrivati al punto in cui l’io era semplicemente svanito. Non c’era più psiche a cui appendere una qualunque psicologia. Silenzio, silenzio.
Eppure, quel silenzio e quel nascondimento furono fecondi come mai accadde alla loquela e al palesamento. Così che, nella sua introduzione ai Detti, Cristina Campo disegna una sacra genealogia generata dai lombi spirituali di Antonio il Grande, popolata da nomi di un altro mondo come Evagrio, Ilarione, Pastor, Alonio Sisoe, Poemen, Paisio. Tutte gemme sbocciate su rami che crescendo hanno trovato linfa e fatto luce più nell’oriente che nell’occidente cristiano. La vita religiosa russa, in particolare, che è essenzialmente monastica, se ne è costantemente alimentata riconoscendo le sue guide negli starcy, gli eredi dei Padri. Anche in quelle terre la teoria dei nomi è lunga e inestinta con nomi come Teodosio di Pečersk, Sergio di Radonež, Stefano di Perm, Paisij Veličkovskij, arrivando ai giorni nostri attraverso Serafino di Sarov. Uomini di Dio, dice don Divo Barsotti in Mistici russi in cui “la parola è ritornata pura come cristallo; non nasconde, non altera nulla, rivela un’anima che è diventata tutta luce, tutta semplicità, tutta purezza, tutto amore”.
Prodigioso come i suoi padri antichi nella dura fermezza della fede, nella grandezza della carità, nella generosità della sofferenza, nell’efficacia della conversione, nell’amorevole lettura dei cuori, nell’irrevocabile offerta di sé, il frate sannita può essere compreso, amato e, per quanto possibile, imitato solo restituendolo alla longeva famiglia che risale per i suoi rami sacri fino al padre Antonio passando lungo tutta la santa pianta cristiana.
Nella IX delle sue Conferenze ai monaci, San Giovanni Cassiano fa dire al beato Isacco: “Tutta la finalità del monaco e la perfezione del suo cuore tendono alla continua e ininterrotta perseveranza della preghiera e, in più, per quanto è concesso alla debolezza dell’uomo, all’immobile tranquillità della mente e a una perseverante purezza, per effetto della quale noi andiamo in cerca instancabilmente ed esercitiamo continuamente non soltanto la fatica del corpo, ma anche la contrizione dello spirito”.
Quando gli chiedevano quale fosse il suo ideale di perfezione, padre Pio rispondeva abitualmente: “Voglio essere solo un frate che prega”. Chiunque lo incontrasse aveva la sensazione che vivesse costantemente in un altro mondo dal quale guardava le cose della terra. Parlava direttamente con Dio senza che alcunché di temporale gli facesse velo. Era la concreta evidenza che “La preghiera è una conversazione dell’intelletto con Dio”, come dice Evagrio Pontico nel trattato Sulla preghiera aggiungendo subito dopo che il vero orante si rivolge al Signore “senza alcun intermediario”.
In certe lettere ai suoi padri spirituali, il giovane frate è così didascalico nella descrizione del suo stato di orazione da poter essere comparato con quanto scrive in Vasi d’argillapadre Gabriel Bunge, uno dei maggiori studiosi di Evagrio.
“La maniera ordinaria della mia orazione è questa” dice il monaco sannita. “Non appena mi pongo a pregare, subito sento che l’anima incomincia a raccogliersi in una pace e tranquillità da non potersi esprimersi colle parole. I sensi restano sospesi, ad eccezione dell’udito (…). Da qui capirete che poche sono le volte che riesco a discorrere coll’intelletto”. E poi, in un’altra lettera: “Tosto, mio Dio, che entro in orazione, la mia mente resta in un vuoto perfetto e nessuna traccia più in essa si trova di ciò che pur avevo tanto a cuore”.
Ma questo silenzio adorante, dice padre Bunge, non è tuttavia il punto ultimo della preghiera. “Poiché se lo Spirito Santo introduce ulteriormente l’uomo nella luce della Santissima Trinità, allora sgorga in lui, alla fine, una sorgente di un misterioso colloquio, che né di notte né di giorno si esaurisce più. Questa meravigliosa esperienza viene descritta da Evagrio con le seguenti parole: ‘Colui che prega in spirito di verità rende onore al creatore non più a partire dalle creature, ma loda Dio con inni a partire da Dio stesso’. È questo, finalmente, quel ‘colloquio con Dio senza alcun intermediario’ di cui si parlava sopra. Infatti le creature, per quanto possano essere eminenti, sono pur sempre qualcosa che fa da intermediario tra noi e Dio”.
Padre Pio se ne rende perfettamente conto quando scrive: “Sentite che fenomeno curioso si va svolgendo in me da un pezzo in qua e che del resto non mi dà poco pensiero. Nell’orazione mi accade di dimenticarmi di pregare per chi a me si raccomanda (non per tutti però) ovvero per chi avrei intenzione di pregare”.
Ed è ancora padre Bunge a illustrare questo stato della preghiera: “L’orante, che attraverso la preghiera ‘vera’ e ‘spirituale’ è diventato un ‘teologo’ nel senso proprio della parola, loda, dunque, al più alto grado della preghiera, il Padre senza alcun intermediario – né da parte di una creatura né da parte di una rappresentazione mentale o contemplazione – immediatamente, per mezzo dello Spirito e del Figlio! Egli è diventato un teologo perché ora non parla più su Dio per sentito dire, ma testimonia della Santissima Trinità in base a un’intima coscienza”.
E conferma il “teologo” di Pietrelcina: “Appena mi metto a pregare tosto mi sento il cuore come invaso da una fiamma di un vivo amore. Questa fiamma non ha nulla a che vedere con qualsiasi fiamma di questo basso mondo. È una fiamma delicata ed assai dolce che strugge e non dà pena alcuna. Essa è sì dolce e sì deliziosa che lo spirito ne prova tale compiacenza, e ne rimane sazio in tal guisa da non perderne il desiderio. E, oh Dio!, cosa al sommo meravigliosa per me e che forse non arriverò mai a comprendere se non nella celeste patria”.
Un abbandono frutto della predilezione, per parte del Signore, e della preghiera, per parte dell’uomo. Perché, qui sulla terra, nasce tutto dalla vera orazione, che Hugo Ball ha ritratto con finezza rarissima concludendo in Cristianesimo bizantino il capitolo su San Giovanni Climaco: “La preghiera è l’aristocrazia della povertà. In essa si tocca tutto ciò che è esclusivo nel cielo e nella terra. Solo colui che qui è emarginato là è benvenuto e solo colui che qui è imprigionato là si libera. Nessun intelletto penetra con uno scopo o un tornaconto in questo luogo santo. La meditazione può infiammare, ma solo la preghiera illumina. Essere assorti nel proprio cuore è già molto. Ma cosa ben diversa è che ‘lo spirito visiti il cuore come un principe vescovo e intanto offra ostie a Cristo, suo ospite’. Allora più nessuna immagine tocca i sensi. Una ‘pia tirannia di Dio’ prende possesso dell’anima. La preghiera e il pensiero della morte si fondono. Lo scioglimento del dubbio, la rivelazione certa di ciò che era incerto è per Giovanni il segno che siamo stati esauditi”.
Il rustico monaco della Tebaide garganica viene esaudito al punto da incarnare con celeste perfezione la figura del “monaco crocifisso” che si trova in certe icone e in certi affreschi dei monasteri del cristianesimo orientale. Una figura anonima avvolta nel saio, inchiodata sulla croce, torturata dagli stessi strumenti di morte che torturarono Cristo e un titolo tremendo e doloroso fino al sublime: “La vita del vero monaco”. Dionisio da Furnà, monaco e iconografo athonita del XVIII Secolo, nella sua Ermeneutica della pittura spiega come si debba comporre tale immagine. Una pagina da meditazione.
Disegna un monaco crocifisso su una croce, vestito con una tunica e un copricapo da monaco, a piedi nudi e con i piedi inchiodati al poggiapiedi della croce: i suoi occhi sono chiusi e la bocca serrata. Appena sopra la sua testa è questa iscrizione: “Poni, Signore, una custodia alla mia bocca e una porta fortificata intorno alle mie labbra”.Nelle sue mani tiene candele accese e accanto alle candele c’è questa iscrizione: “Lasciate che la vostra luce risplenda davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli”.
Sul petto ha una tavoletta a forma di sgabello, che dice: “Crea in me, o Dio, un cuore puro e uno spirito retto rinnova nelle mie viscere”. Sul suo stomaco c’è un altro rotolo, come un titolo, con queste parole: “Non essere sviato, o monaco, da una pancia piena”. Più in basso sul suo corpo c’è un altro rotolo che dice: “Mortifica le tue membra che sono sulla terra”. Più in basso ancora, sotto le ginocchia, c’è un altro rotolo che dice: “Prepara i tuoi piedi sulla via del Vangelo della pace”.
Sopra, sul braccio superiore della croce, fai un titolo inchiodato con questa iscrizione: “Dio non voglia che io mi vanti, se non della Croce del mio Signore”. Sui tre bracci della croce fai dei sigilli e su quello di destra scrivi: “Chi persevererà sino alla fine sarà salvato”. Su quello di sinistra: “Chi non rinuncia a tutto non è in grado di essere un discepolo di Cristo”. Sul sigillo sopra il poggiapiedi della croce: “Stretta e angusta è la via che conduce alla vita”.
Sul lato destro della vernice dipingi una caverna buia con un grande drago arrotolato in essa e scrivi: “L’inferno che tutto divora”. Sopra la bocca del drago è un giovane nudo con gli occhi bendati da un panno, che tiene in mano un arco e punta al monaco. Sul suo arco è un rotolo che dice: “Il creatore della lussuria”. Scrivi questa iscrizione sopra di lui:”L’amore della prostituzione”. Sopra la grotta metti molti serpenti e scrivi: “Le preoccupazioni”. Vicino all’Ade metti un diavolo che tira la croce con una corda e dice: “La carne è debole e non può resistere”. All’estremità destra della pedana metti una lancia con una croce e una bandiera e scrivi su di essa: “Io posso ogni cosa in Cristo che mi dà la forza”.
A sinistra della croce fai una torre con una porta, dalla quale esce un uomo seduto su un cavallo bianco, che indossa un cappello di pelliccia e abiti intessuti d’oro e bordati di pelliccia. Nella mano destra tiene una coppa piena di vino e nella sinistra una lancia alla cui estremità è una spugna; un rotolo avvolto intorno alla lancia dice: “Prendi diletto nei piaceri del mondo”. Egli li mostra al monaco. Scrivi questa iscrizione sopra di lui: “Il mondo vanaglorioso”. Sotto di lui metti una tomba, da cui esce la morte con una grande falce sulla spalla e una clessidra in mano e guarda il monaco. Al di sopra, la scritta: “La morte e la tomba”.
Sotto le mani del monaco su entrambi i lati metti due angeli che reggono cartigli; scrivi sulla pergamena di quello di destra: “Il Signore mi ha mandato ad aiutarti”. E su quello di sinistra: “Fa il bene e non temere”.
Sopra la croce rappresenta il cielo con Cristo che tiene sul petto i Vangeli aperti alle parole: “Chiunque vuole seguirmi rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Nella mano destra tiene una corona regale, e nella sinistra una corona di fiori. Sotto di lui, ai lati ci sono due angeli che guardano il monaco e lo mostrano a Cristo e tengono tra loro una lunga pergamena con queste parole: “Lotta per poter ricevere la corona della giustizia e il Signore ti darà una corona di pietre preziose.
Quindi scrivi questo titolo: “La vita del vero monaco”.
Alessandro Gnocchi Settembre 13, 2019
«Maria è l’unica sorgente che ha fatto sgorgare padre Pio e Fatima – si legge in “Padre Pio nella sua interiorità”, scritto da don Negrisolo, don Castello e Padre Manelli –. Due momenti di un’unica azione soprannaturale gestita da Maria, che ha il fine di stabilire il Trionfo del suo Cuore Immacolato, perché si realizzi il Regno di Cristo. È il fine per cui lavorò padre Pio, gloria vivente di Maria, in riparazione degli eventi futuri». Si potrebbe dire, in modo programmatico e aforistico, come fa Socci nel suo “Il segreto di padre Pio”, che «Fatima e padre Pio insieme sono la grande risposta del cielo all’origine del secolo del male».
Se AD 2017 è stato l’anno di Fatima con l’anniversario centenario delle apparizioni della Bianca Signora alla Cova da Iria, AD 2018 è l’anno di padre Pio, la cui memoria è ripresentata da ben due anniversari: il centesimo dell’impressione delle stimmate e il cinquantesimo della morte.
I tre anniversari concatenati, uno dopo l’altro, incentrati sull’evento-Fatima e l’evento-padre Pio, sembra siano l’occasione di cui Dio si serva per ricordare a tutti la grandissima attualità di questi due “segni” nel quadro dei problemi del mondo e della Chiesa odierni; da Fatima e da padre Pio parte un messaggio unico e consimile. Quale?
Una “corrente satanica”
Il sacerdote padovano don Attilio Negrisolo, figlio spirituale di san Pio da Pietrelcina dal 1946, in una sua catechesi sul Santo del Gargano, sosteneva che i secoli peggiori della storia dell’umanità sono tre: il II, il XV ed il XIX. Ma, oltre questi, ve n’è stato uno pessimo: il XX. «Oggigiorno – affermava – in modo particolare, vi è davvero una “corrente satanica”, che sconvolge tutto!».
Una lettura teologica della parabola storica dell’umanità, tuttavia, permette di notare come il declino del mondo prenda le mosse da un momento ben preciso. Nel memorabile Discorso agli uomini di Azione Cattolica nel XXX della loro unione del 12 ottobre 1952, il Venerabile papa Pio XII seppe tratteggiare il piano diabolico steso a tavolino e portato avanti dalle forze nemiche di Dio e della Chiesa, cogliendo l’essenza velenosa del processo rivoluzionario, che dura ormai da secoli.
Quell’attacco coordinato di forze avverse alla Fede cristiana e alla Chiesa cattolica a cui fa riferimento Pio XII ha, infatti, i suoi prodromi già nel XV-XVI sec. nel fenomeno dell’umanesimo del Rinascimento, che preparò il terreno a Lutero (prima rivoluzione), lavorò a piene mani nel XIX secolo dopo la tragica esperienza della rivoluzione anticristiana in Francia (seconda rivoluzione), per poi inalberarsi, violento, durante il XX secolo con il comunismo prima (terza rivoluzione) e poi con il Sessantotto, esito volgare di tutto il processo (quarta rivoluzione) che porta alle estreme conseguenze i principi velenosi e autodistruttivi che la Rivoluzione ha sviluppato nell’arco di sei secoli. Noi ci troviamo, attualmente, nel post-Sessantotto, che comporta tutto quello sfacelo e distruzione radicale, tale da non risparmiare alcun valore.
La Rivoluzione rinnega Dio
In questo senso, la Rivoluzione si presenta come la categoria filosofico-teologica che proclama – prima in modo sotterraneo e poi palese – il rinnegamento orgoglioso da parte dell’uomo del progetto di Dio sull’umanità, rimuovendo gradualmente i fondamenti su cui Dio aveva costruito l’economia della Salvezza e con cui ha rivelato Se stesso e la sua Misericordia all’uomo.
Il vantaggio che si ricava, così, dalla lettura dell’evento Fatima-padre Pio come un unico magistrale intervento della Provvidenza che vive di due fasi è quello di scorgere, in filigrana, un medesimo “programma” che accomuna e collega gli eventi, il messaggio e le profezie di Cova da Iria con la figura e l’opera del Santo stimmatizzato del Gargano. Sia l’uno che l’altro, a livello cronologico, cominciano la loro “missione” nel momento in cui la Rivoluzione assume il volto empio, ateo e blasfemo del Comunismo: le apparizioni della Bianca Signora alla Cova da Iria, infatti, iniziarono nel maggio del 1917 ed ebbero termine nel successivo ottobre, quando il Comunismo era appena sorto in Russia; san Pio da Pietrelcina, invece, cominciava la sua missione di “corredentore” e di “vittima espiatrice” ad un anno esatto da quegli eventi ossia con l’impressione delle stimmate visibili, il 20 settembre 1918.
Sarebbe già possibile da qui affermare che l’intervento “controrivoluzionario” di Dio nel XX secolo non solo non è mancato, ma è stato altresì proporzionato alla violenza con cui Satana, manovrando gli agenti della Controrivoluzione, si preparava a sferrare il suo crudele attacco alla Chiesa e al mondo.
Una profonda devozione per Fatima
Il Santo frate cappuccino nutriva una profonda devozione per il mistero di Fatima. Una delle ragioni principali era di certo quel messaggio corredentivo proposto dalla Vergine e incarnato dai tre veggenti, che trasmisero, con la loro vita ancor più che con le loro parole, l’urgente appello da Lei consegnato al mondo cento anni fa. Questa carità sacrificale è il più fruttuoso amore per i poveri del mondo, perché non ubriaca nell’illusione di salvarli dai mali sociali e dai disagi economici – ricordava il Signore: «I poveri li avrete sempre con voi» (Gv 12, 8) – ma, per mistero soprannaturale, realizza una “vicaria spirituale” tramite la preghiera e la sofferenza, per cui i veri amanti di Dio e delle anime liberano tanti loro fratelli dal peccato e dalle fiamme dell’inferno.
«Volete offrirvi a Dio per sopportare tutte le sofferenze che Egli vorrà mandarvi, in atto di riparazione per i peccati con cui Egli è offeso, e di supplica per la conversione dei peccatori?»(Memorie di Suor Lucia, I, 162)»: questa medesima richiesta, in modo sorprendente, il Signore l’avrebbe rivolta al santo frate di Pietrelcina.
Nel suo Il segreto di padre Pio, Antonio Socci faceva questa significava riflessione:
«La cosa veramente sconvolgente, indicibile, è la sofferenza vicaria, l’esistenza di vittime che silenziosamente, da tutti ignorate, si caricano di sofferenze per pagare colpe altrui, espiano per tutti, liberando anche tante anime del Purgatorio».
«Nei dolori diletto Dio»
Fu così per padre Pio. Egli scrisse:
«Gesù mi dice che nell’amore è Lui che diletta me; nei dolori invece sono io che diletto Lui. Ora, desiderare la salute sarebbe andare in cerca di gioie per me e non cercare di sollevare Gesù. Sì, io amo la croce, la croce sola; l’amo, perché la vedo sempre alle spalle di Gesù. Oramai Gesù vede benissimo che tutta la mia vita, tutto il mio cuore è votato a Lui ed alle sue pene»[Epistolario I. Corrispondenza con i direttori spirituali (1910-1922)].
La missione dello stigmatizzato del Gargano fu quella di rinnovare e riattualizzare la passione di Nostro Signore Gesù Cristo. Quel frate era davvero un alter Christus Crucifixus e da questo fatto fondamentale si spiegano tutte le altre cose straordinarie che avvenivano in lui e attraverso di lui: prodigi, miracoli, profezie, locuzioni, bilocazioni, ecc.
L’impegnativa missione affidata dal Cielo al frate di Pietrelcina comportava sofferenze fisiche e spirituali inaudite. Egli, con il trascorrere del tempo, comprendeva sempre più a fondo il significato di quelle sofferenze, che lo avevano segnato fin da piccolo.
Le piaghe dell’anima gli procuravano dolori ancora più profondi delle ferite del corpo: «prima dei chiodi alle mani ed ai piedi, l’anima era già crocifissa», ricordava a suoi direttori.
La “croce” che, come un “cireneo”, portava per espiare le colpe del popolo di Dio, si componeva di dolore corporale con le malattie e le stimmate; ma concerneva anche un’estenuante “flagellazione dell’anima” con le vessazioni diaboliche, le incomprensioni, le persecuzioni da lui tutte pazientemente sopportate ed offerte. I segni della passione, nel corpo del venerato padre Pio riattualizzano, come in una sorta di sacro memoriale, le sofferenze e la morte redentrice del Salvatore. Non avvenimenti dovuti al caso o ad una serie di circostanze più o meno fortuite, esse sono al contrario il sigillo di tutta la missione di Cristo.
La duplice dimensione della Croce
L’opera santificatrice e salvatrice del “cireneo del Gargano” si dispiega fondamentalmente nella duplice dimensione della Croce: quella verticale, nell’impegno di ascesi, di assimilazione a Cristo e di ricerca di Dio Padre, vissuta accettando le stimmate, la reclusione in convento e il peso del mistero sacerdotale; quella orizzontale, nell’impegno a salvare gli altri, a offrirsi vittima per i poveri peccatori, consapevole che la salvezza e la santificazione della anime sempre si paga e sempre si pagherà con la “moneta del dolore”.
Il mistero della sofferenza nella vita di padre Pio va letto essenzialmente in prospettiva cristologica e soteriologica, in quell’orizzonte cioè che disvela un autentico valore nella sofferenza, in quanto carica della “capacità redentiva”; ma è Cristo Crocifisso e Risorto cha ha dato alla sofferenza umana questa potenzialità radicale, dandole altresì un senso, un volto, un significato. Il patimento, dopo l’Incarnazione redentrice di Gesù Cristo, non sarà mai più segno dell’abbandono di Dio, bensì della partecipazione e comunione al grande mistero della redenzione da Lui attuata.
Vocazione alla sofferenza vicaria
Il primo volume dell’Epistolario del Padre attesta con chiarezza questa sua vocazione alla sofferenza vicaria mentre egli andava progressivamente disponendosi all’accettazione del volere divino.
In una lettera del 29 luglio 1910 si legge:
«parmi di racconsolarmi ed incoraggiarmi a sempre più correre nella via della croce. Soffro è vero, ma intanto non mi dolgo perché Gesù così vuole».
Degno di nota è anche uno scritto indirizzato al suo direttore spirituale, padre Agostino da San Marco in Lamis, in data 20 settembre 1912:
«Egli [Cristo, ndr] si sceglie delle anime e tra queste, contro ogni mio demerito, ha scelto anche la mia per essere aiutato nel grande negozio dell’umana salvezza. E quanto più queste anime soffrono senza verun conforto tanto più si alleggeriscono i dolori del buon Gesù».
È, in effetti, la “testimonianza autoconfessata” della chiamata del Signore, a lui rivolta, alla sofferenza vicaria.
Si legge in un’altra lettera del 27 agosto del 1918, scritta da padre Benedetto da San Marco in Lamis (a quel tempo direttore spirituale del giovane padre Pio) al sacerdote cappuccino, nel tentativo di offrire una spiegazione teologica della mistica grazia della trasverberazione del cuore, di cui padre Pio era da poco stato insignito:
«Tutto quello che avviene in voi è effetto di amore, è prova, è vocazione a “corredimere”, e quindi è fonte di gloria Il fatto della ferita compie la passione vostra come compì quella dell’amato sulla croce».
Il Bene trionferà
Questa immedesimazione al Cristo Crocifisso, così, ben più che semplice imitazione di Gesù, è piuttosto principio efficace di collaborazione attiva alla Redenzione, flusso vivo del Sangue di Cristo. Sarà mons. Piero Galeone a svelare quello che sembra uno dei più grandi misteri mai registrati dall’agiografia cristiana, che sortisce effetti meravigliosi in questi ultimi tempi e di cui la nostra generazione è testimone.
Ne parla sempre Antonio Socci nel suo Il segreto di Padre Pio:
«Mons. Piero Galeone ha rivelato un segreto che lascia senza parole: “Padre Pio mi rivelò di aver chiesto a Gesù e di aver ottenuto non solo di essere vittima perfetta, ma anche vittima perenne, cioè di continuare a rimanere vittima nei suoi figli, allo scopo di prolungare la sua missione di “corredentore” con Cristo sino alla fine del mondo. Egli mi ha detto e confermato di aver avuto dal Signore la missione di essere vittima e padre di vittime sino all’ultimo giorno”».
Le conseguenze di una simile rivelazione non possono che essere grandiose. C’è speranza. Il Bene trionferà.
Perché, come la Bianca Signora aveva promesso a Fatima:
«Infine il mio Cuore Immacolato trionferà».
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Questo testo di fra Pietro M. Pedalino è stato tratto dal periodico Radici Cristiane. È possibile acquistare la rivista anche on line o sottoscrivere un abbonamento, cliccando www.radicicristiane.it
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