ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 11 settembre 2019

Non vi è epoca più imbecille

La doppia imbecillità del nuovo puritano


Quanto sia imbecille lo spirito di quest’epoca, e quanto lo siano coloro che lo adottano, lo si diagnostica facilmente auscultando il petto di questi nostri tempi moderni: senza troppa fatica si sentirà battere la fibrillante contraddizione tra la proclamazione di tutte le libertà e la contemporanea costruzione di tutte le prigioni. Mai come oggi ci si trova davanti a imbecilli che illustrano, per esempio, la normalità dell’uccisione di un bambino nella pancia di sua madre e, allo stesso tempo, proclamano peccato mortale la caccia all’orso che attacca le greggi. 

La colorazione di tale imbecillità percorre tutto l’arcobaleno in tutte le possibili sfumature e arriva sino all’estremo originario di una chiesa che dogmatizza l’estinzione del peccato e delle fiamme dell’inferno e, insieme, getta l’anatema su chi non adora il dio Ambiente e non piange sui roghi dell’Amazzonia. Insomma, non vi è epoca più imbecille di quella che si illude di essere libera da ogni vincolo perché, in realtà, non ve n’è una più prigioniera dell’infezione puritana e della cultura del piagnisteo che ne deriva.
Sembrerebbe una contraddizione, e invece bisogna constatare che per la seminagione del morbo puritano non viene impiegata l’ossessione per il peccato, ma il suo esatto contrario, l’ossessione di esserne esentati. Così, alla fine, l’imbecille società puritana risulta un agglomerato di peccatori governati da “peccatesenti”: fenomeno che ha del grottesco quanto un esercito comandato da militesenti. Non di rado, quando si semina l’errore si raccoglie il suo contrario: che non è la verità, ma soltanto un errore di segno opposto.
Ecco perché oggi l’uomo ha perso il senso del peccato, ma solo del proprio: i peccati degli altri si vedono sempre benissimo. Il succo della psicologia puritana, che ormai si è impadronita anche delle genti di tradizione cristiana, sta tutta in questo umanissimo paradosso, nel dimenticarsi che purtroppo il peccato, come leone ruggente, è accovacciato alla porta di ciascuno di noi, nessuno escluso.
A dispetto di tale constatazione, gli uomini, più si sentono moderni e più sono convinti che peccare sia solo il contravvenire a un sistema di regole arbitrarie scritte da qualcuno che, in fondo non ne ha autorità. Chi pecca, dunque, si libera da una camicia di forza cucitagli addosso contro natura. Se le cose stanno così, è chiaro che il peccato non fa più paura a nessuno, e anzi, non esiste. Salvo, ovviamente, il peccato degli altri, l’ingiustizia che mi ferisce, la parola che mi offende, l’azione che mi tradisce.
Eppure, basterebbe essere stati un minimo diligenti al biennio del liceo, quando ancora si studiavano i Promessi Sposi. Impossibile, allora, che anche il prof più agnostico saltasse il capitolo XXI dei Promessi Sposi, quello della conversione dell’Innominato. Il quale, a un certo punto, “si trovò ingolfato nell’esame di tutta la sua vita (…) di sangue in sangue, di scelleratezza in scelleratezza: ognuna ricompariva all’animo consapevole e nuovo, separata dai sentimenti che l’avevan fatta volere e commettere”. E improvvisamente scopre, con orrore, che quelle scelleratezze “eran tutte sue, eran lui”.
Il peccato non è dunque la violazione di una norma scritta dall’arbitrio di qualche moralista, ma è un male che l’uomo compie contro Dio e contro la propria natura. Il male corrode la stessa natura di chi lo compie, al punto che l’abitudine a conviverci ne intacca l’essere. L’Innominato era diventato le canagliate compiute per una vita. Se uno ruba, diviene ladro, se uno uccide diviene assassino.
Ma la nostra essenza non può mai identificarsi totalmente con ciò che fa: ed è questa la ragione per cui l’Innominato può trasformarsi nel più famoso convertito della letteratura italiana. Peccato, pentimento e perdono riassumono il ciclo morale della tradizione cristiana. Per quanto grave sia la colpa commessa, nessuna anima è esclusa dalla possibilità del perdono, a patto che voglia riconoscere il male fatto.
Questa struttura logica e morale porta con sé alcuni presupposti necessari. Innanzitutto, il riconoscimento della oggettività del male, l’esistenza di azioni che sono intrinsecamente malvagie perché contrarie alla legge di Dio e alla natura dell’uomo, ancorché rese desiderabili dalla concupiscenza. Poi, il riconoscimento di averle compiute e il dispiacere profondo per quanto fatto, affiancato dalla sincera volontà di non ricadere nell’errore. L’ammissione della impossibilità di togliersi da soli questa colpa, affidandosi al mistero del sacramento, che è anche occasione per un giudizio oggettivo “altro” rispetto al proprio personale punto di vista. Infine, l’accettazione di una penitenza e l’impegno a rimediare quando ciò è possibile.
Naturalmente, lo schema peccato-pentimento-perdono è uno dei bersagli preferiti del pensiero moderno e della chiesa che ci va a letto assieme. L’uno e l’altra si beano dei sarcasmi beffardi sulla disinvoltura morale del cristiano che poi, tanto, si confessa. Ma laddove sono state battute strade diverse si è giunti solo al puritanesimo, che è disperazione di perfetti destinati all’inevitabile imperfezione.
Fuori dal realismo cristiano, sorgono due opposti errori. Da una parte il moralismo dei relativisti che negano qualunque verità morale e procedono all’eliminazione integrale del nemico. Dall’altra, il relativismo degli antimoralisti, che cantano l’apologia del peccato. Entrambi affetti dalla stessa quota della stessa imbecillità, che diviene sublime quando riesce a tenere insieme i due estremi. Giusto per fare un esempio, quando si negano le fiamme dell’inferno e, allo stesso tempo, si dogmatizzano quelle dell’Amazzonia.
Alessandro Gnocchi Settembre 10, 2019

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.