Riprendo alcuni brani dalle pagine del teologo Cornelio Fabro che parlano del celibato sacerdotale proposte in un articolo pubblicato due anni fa su Vigilae Alexandrinae . Sono molto interessanti proprio in questi giorni visto che al Sinodo dell’Amazzonia si parla molto del sacerdozio uxorato.

Scrive Vigiliae Alexandrinae:
Ciò che spinse il padre stimmatino Cornelio Fabro, uno dei teologi italiani più rinomati e al contempo fedeli alla Tradizione nel secolo XX, a divenire uno dei massimi esperti internazionali di Søren Kierkegaard e ad apprendere la lingua danese per poterlo leggere e conoscere fin nelle sfumature del suo pensiero, fu probabilmente la convinzione che il grande filosofo danese avesse più di ogni altro suo contemporaneo compreso che la perfetta trascendenza di Dio creatore, trinitario e personale, doveva considerarsi il vero discrimine tra il Cristianesimo e i sistemi romantici, soprattutto quello di Hegel, che predicavano del nome di “dio” il soggetto trascendentale, di volta in volta l’io dell’uomo o lo stato sovrano. 
Proprio Hegel, seguendo e sviluppando il pensiero politico di Lutero all’interno dell’idealismo, aveva posto nel grembo dello stato – ossia della “realtà dell’idea etica” con cui “Dio fa ingresso nella storia” – famiglia e matrimonio come istituzioni contemporaneamente superate e conservate dallo stato stesso. In questo modo, insieme alla religione e alla Chiesa, matrimonio e famiglia erano consegnati alla storia e all’immanenza assoluta dello stato in cui esse trovavano la propria costante dimensione trascendentale, il proprio “dio” e creatore. 
Per queste ragioni il  matrimonio dei pastori – e non solo il loro – non poteva che apparire a Kierkegaard altro se non un  ulteriore vincolo nell’asservimento del clero a una prospettiva esclusivamente mondana nella quale ogni predicazione e sacramento erano destinati a divenire segni dell’etica statale. 
In questo preciso contesto il celibato del clero apparve a Kierkegaard non soltanto elemento fondamentale della perfetta imitazione di Cristo, ma anche principio di rottura e di rifiuto della chiesa di stato e di ogni trascendentalismo e immanentismo teologico. Il perfetto amore e servizio sacerdotale reso a Dio porta necessariamente al celibato, e ciò avviene soltanto se Dio è trascendente e trinitario, soltanto se è il Dio cristiano. Di qui uno dei percorsi fondamentali dell’orientamento oggettivo del pensiero di Søren Kierkegaard al Cattolicesimo romano testimoniato da tanti passaggi della sua opera ricordati puntualmente da Cornelio Fabro.
I motivi dell’invettiva del Socrate di Copenhagen contro Lutero possono apparire a un primo sguardo meno evidenti. In realtà se di considera che Lutero, eliminando dal proprio sistema la Chiesa cattolica e il Papato, emancipa l’uomo da ogni autorità universale per assegnargli subito dopo il decisore statale soggettivamente unmittelbar zu Gott (si veda i nostri precedenti interventi qui qui) sotto il cui dominio è posta la chiesa nazionale, la secolarizzazione del clero, il matrimonio come strumento di questa secolarizzazione, la famiglia e la vita famigliare, si comprende la continuità dei due fronti: Lutero ed Hegel. Ritornare al Cristianesimo significa – oltre a prendere congedo da Hegel e dal suo Stato etico, di cui Kierkegaard fu più radicale contraddittore di Nietzsche, Bauer, Stirner, Marx e di tutta la congrega filosofica che seppe abbattere lo Stato ma non uscire dalla prigione dell’io trascendentale – risalire alle fonti antiche e medioevali della Fede per qui trovare il senso della trascendenza di Dio e della perfetta imitazione di Cristo nelle opere dei Padri e dei grandi Dottori della Chiesa. Qui ci sono gli esempi di Sant’Antonio Abate e di San Benedetto, di Sant’Agostino e di San Tommaso e qui il celibato appare nuovamente la forma perfetta di dedizione a Dio.
La ricostruzione del pensiero di Lutero tramite i Diari di Kierkegaard intrapresa da Fabro è senz’altro attualizzante. “Qui conviene – egli scrive nel saggio che qui proponiamo – allegare la testimonianza dello scrittore religioso più tormentato e profondo del secolo scorso, Søren Kierkegaard, il quale, specialmente nei Diari  della maturità, ha fatto la diagnosi più cruda e realista della decadenza religiosa del cristianesimo nel mondo moderno”. E attualissimo appare oggi il pensiero di Kierkegaard restituitoci dal teologo italiano perché dall’idea di celibato, del celibato di Cristo e poi di ogni suo imitatore sacerdotale, discendono, come immagini successive di una medesima verità, l’impeccabilità del Corpo Mistico, la Verginità di Maria e di Giuseppe, il matrimonio cristiano, la castità matrimoniale, la castità come autentica condizione di libertà di ogni cristiano, il senso e il bene del celibato di ogni uomo o donna non sposati. 
Mentre lo stato sembra avere compiuto la propria storia, l’individuo è minacciato da una più terribile immanenza e da un più spesso e impenetrabile oblio di Dio, da un oblio che si impone nel nome di un “cristianesimo secondario” (Amerio) e di una “cristianità” (Kierkegaard) in cui matrimonio, famiglia e procreazione sono costituiti dalla mera fattibilità soggettiva resa possibile dalla tecnica. Le promesse di questo nuovo mondo sono caratterizzate da un confort più grande di quello che potevano garantire il principe luterano o lo stato etico di Hegel in cambio dell’abbandono della Fede in Cristo. La “Cristianità”, che si traduce in molte parti del rassicurante magistero ordinario dell’attuale Pontefice, ossia di un perfetto figlio del suo tempo, e non soltanto nel capitolo VIII di Amoris Laetitia, è oggi più radicalmente opposta al “Cristianesimo” (Kierkegaard) nel quale celibato, verginità, matrimonio e castità cristiana continuano a essere riposti come l’immagine stessa del nostro Divino Salvatore. Se si guarda in fondo a queste cose, ci si accorge con sgomento che ne va della libertà della Chiesa e della salvezza dell’anima cristiana.
Chiesetta in montagna

Søren Kierkegaard e l’eccellenza del celibato

Qui conviene allegare la testimonianza dello scrittore religioso più tormentato e profondo del secolo scorso, Søren Kierkegaard, il quale, specialmente nei Diari  della maturità, ha fatto la diagnosi più cruda e realista della decadenza religiosa del cristianesimo nel mondo moderno (1) A suo avviso il pastore, nel protestantesimo con moglie e figli, è il primo responsabile della degenerazione del cristianesimo, perché da una parte si trova legato al governo da cui dipende per la prebenda (Levebröd) e dall’altra parte è solidale con la «cristianità stabilita» che si è adagiata al mondo, ingolfata negli interessi di questa vita: perciò il pastore non è colui che si trova allo sbaraglio, in alto mare (n. 1903) (2), nell’impegno assoluto per l’Assoluto.
Essere e fare il pastore è diventato allora nel protestantesimo una semplice sistemazione economica (Naeringsvej) per vivere nel cantuccio di un presbiterio al sicuro dai rischi della vita. Perciò i pastori sono incapaci della vera religiosità (n. 893); vivono come una élite, isolati dal popolo (n. 1519), ed escludono i poveretti dalle consolazioni del cristianesimo (n. 1971); non sono più i padri spirituali delle anime (n. 2055), ma predicano «oggettivamente» il cristianesimo (n. 2849), vivendo per proprio conto nell’eudemonismo (n. 2931), ingolfati nelle faccende di famiglia e nelle cose del mondo. Questa è la più grande distanza possibile dal cristianesimo (n. 2686). Nell’ultima polemica scatenata nel 1855 contro Mynster, che era il capo e simbolo della cristianità stabilita, Kierkegaard tacciò i pastori di «cannibali» (n. 3312), «animali» (n. 3316)…, che impediscono agli altri di entrare nel Regno dei cieli (n. 3173).
A suo avviso, il pastore nel protestantesimo è uno «spostato», l’esistenza del pastore è dal punto di vista cristiano una cosa fuori posto: «Questo non lo intendo soltanto nel senso che tutta la sua vita non si può dire davvero una imitazione di Cristo. No, io ho di mira specialmente il fatto che egli è un impiegato governativo. Quale controsenso allora il predicare un regno che “non è di questo mondo” e che a nessun costo vuole essere di questo mondo?! (Gv. 18, 26). E il fatto che egli sia impiegato governativo è causa di una confusione così fondamentale e influisce così profondamente» (n. 3296). E nel testo seguente il pastore è indicato come «il più infelice di tutti gli esseri», malgrado l’opinione comune in contrario: «Spesso si sente dire che essere pastore, specialmente pastore di campagna, deve essere la più piacevole delle esistenze. D’altra parte si sente spesso questo grido: che i pastori sono gli uomini più irreligiosi, ipocriti, ecc.: dunque, allora, i più infelici. Il mio parere è che quello che noi intendiamo per pastore è il più infelice di tutti gli esseri. Perché, che cosa è un pastore? Un pastore è un uomo, completamente alla stregua di tutti noi bravi uomini (ma neanche di più), il quale ora, per essersi obbligato con giuramento a un ideale così alto come è il nuovo Testamento, mette tutta la sua vita nella autocontraddizione più penosa; egli porta cioè per tutta la vita una coscienza gravata, non di qualcosa di passato ma di una realtà presente e continua, dalla quale neppure la morte lo può liberare e che egli poi alla morte prende con sé per la resa dei conti» (n. 3297). Poco prima infatti aveva accusato i pastori di essere i responsabili del quietismo pratico e della rinuncia alla imitazione di Cristo nella cristianità, «…dove tutti sono cristiani, dove esistono mille pastori giurati dai quali, al massimo per tre quarti d’ora la domenica, i fedeli imparano che il cristianesimo è rinuncia alle cose terrene» (n. 3295).
Di qui procede anche il giudizio drastico di Kierkegaard su Lutero e sul suo matrimonio, che alle volte egli blandamente interpreta come una protesta contro le esagerazioni dell’ascesi monastica e che perciò approva come «atto di risveglio» e come gesto simbolico di sfida all’ordine stabilito (n. 2601), ma poi e più spesso lo accusa come responsabile della confusione in cui la Riforma ha precipitato l’uomo. Lutero infatti ha ridotto il cristianesimo a eudemonismo, rifiutando l’imitazione di Cristo e combattendo il concetto di verginità (n. 2914), e così ha riportato il cristianesimo al giudaismo (n. 3102). Lutero neppure capisce quello che poteva essere il significato del suo gesto: «Invece di questo, Lutero si mette a capo di tutto quel brulicame di uomini prolifici, di questi stalloni i quali, fidandosi di Lutero, credono che faccia parte del vero cristianesimo lo sposarsi» (n. 2932).
Non sorprende allora che alla fine il giudizio di Kierkegaard su Lutero e sulla «svolta antropologica» da lui prodotta nel protestantesimo, diventi nettamente negativo e quello sul cattolicesimo invece nettamente positivo. Egli infatti fa l’elogio del clero celibe e del cattolicesimo, che esige dai suoi preti il celibato come garanzia dell’autenticità della loro missione e della trascendenza e libertà del cristianesimo. Il celibato infatti costituisce l’ideale nella vita dello spirito ed è necessario nei punti critici per la storia del genere umano (n. 1105), specialmente quando si tratta di far riaccettare il cristianesimo (n. 1534). Quando il non sposarsi sarà inteso in senso giusto, la religione avrà sempre bisogno di uomini celibi, specialmente ai nostri tempi, e questo spinge Kierkegaard ad auspicare nientemeno il ristabilimento degli antichi Ordini religiosi «…per avere ancora dei preti, ossia uomini che attendano unicamente alla predicazione» (n. 1638). E a questo punto, poiché a Kierkegaard non faceva certamente difetto la logica, egli si appella direttamente al cattolicesimo, il quale «…vide giustamente che conveniva che il clero appartenesse il meno possibile a questo mondo. Per questo favorì il celibato, la povertà, l’ascesi, ecc. Questo è perfettamente giusto, fatto apposta per levare al medio [cioè l’intermediario fra l’uomo e Dio] l’egoismo». Ed ecco allora, conclude, perché «… noi protestanti abbiamo un clero completamente mondanizzato: funzionari, persone di rango, uomini con moglie e bambini, schiavi come mai nessun altro di tutte le chiacchiere della mondanità» (n. 3084). Di qui anche il grido di risveglio: «Indietro al chiostro, da cui evase Lutero!» (nn. 2885, 2917), e il riconoscimento che «il chiostro era assai meglio della cristianità attuale» (n. 2819) e che il cattolicesimo ha sempre qualche cristiano «in carattere» (n. 2867).
Ecco perché Kierkegaard denunzia alla fine che il mondo ha vinto in Lutero in quanto si è assunto il programma di «rendere la vita più facile» e di «togliere i pesi» (n. 1737). Che cosa ha fatto in sostanza il protestantesimo, abolendo il chiostro, se non buttarsi in braccio alla mondanità e alla politica (nn. 1596, 2948)? Mentre i cattolici pregano la Vergine madre di Dio (n. 93), il protestantesimo non ha forse messo sul trono la donna terrena (n. 2889)? E non ha abolito la canonizzazione cattolica degli asceti e dei martiri per canonizzare i titolari della corporazione dei filistei (n. 2367)? In sostanza, il protestantesimo ha ribassato sull’esigenza cristiana e non mostra più che il cristianesimo è l’assoluto (n. 2973) e il «paradosso» che dà scandalo (n. 2975): perciò il protestantesimo, è eudemonismo dal principio alla fine eliminando l’ascesi, il celibato, il martirio (n. 2932). E si è giunti al punto, osserva amaramente Kierkegaard con uno stile degno di san Pier Damiani, che nel protestantesimo la religiosità si identifica con la propagazione della specie, con il matrimonio (n. 3186). Lutero pretendeva che era impossibile vivere casti fuori del matrimonio ma perché? perché gli uomini erano diventati così dissoluti e sensuali. Ma la Riforma diventa allora una cosa curiosa, specialmente quando si deve strombazzare ai quattro venti il gran progresso cristiano che si dice essa sia. Essa invece si rivela sempre più una concessione fatta alla libidine o alla sensualità. Non stupisce allora che nel protestantesimo si sia giunti al punto di considerare l’uomo celibe come un oggetto di ridicolo, alla stregua di uno stivale spaiato, cioè qualcosa che sbaglia la sua destinazione quando non è abbinato a un altro (n. 3226). Ecco perché la dottrina di Lutero non è la dottrina di Cristo: Lutero ha alterato il cristianesimo alterando la dottrina del martirio e combattendo la verginità (n. 2914).
Tutto questo significa per Kierkegaard che il celibato dà il criterio assoluto, quando sia ‑ come deve essere secondo l’ascetica cristiana ‑ proposito di purificazione dello spirito da ogni aderenza al mondo, segno della trascendenza esistenziale del cristianesimo (n. 3227). E nota in margine: «Tutti quelli che in verità hanno insegnato gli ideali, hanno anche elogiato il celibato. Sposarsi è rendere il proprio rapporto all’ideale così difficile, che ordinariamente equivale all’abbandono dell’ideale» (n. 3241). E i testi si potrebbero ancora moltiplicare facilmente. Essi costituiscono un esempio unico e singolare forse in tutto il cristianesimo dell’Ottocento, in un’epoca in cui nella stessa Germania cattolica fermentavano aspri movimenti contro il celibato (3).
Certamente a questo approfondimento singolare e beatificante della capacità elevante del celibato molto contribuì il suo rapporto con Regina, ma soprattutto le sue letture della letteratura cristiana antica e dei Padri sia apostolici sia posteriori, in particolare sant’Agostino, le cui opere figurano nella sua biblioteca. Un ampio testo del 1854-1855, che porta il titolo Celibato, svolge il pensiero che «Dio vuole il celibato, perché vuole essere amato», così che «ogni volta che si attua il celibato per amore di Dio, ci si conforma al pensiero di Dio». E conclude: «Mi viene quasi da rabbrividire quando penso a quanto avanti mi sono trovato su questa via, e come in modo quasi miracoloso sono stato fermato e spinto indietro allo stato celibe: come anche, comprendendo me stesso, ma comprendendomi come un’eccezione, ho saputo nascondere il mio segreto per i contemporanei, finché ora dopo tanto cammino vedo come la Provvidenza ancora mi ha assistito e vuole ottenere da tutto questo qualche risultato concreto. Infinita maestà, anche se Tu non fossi amore, anche se Tu fossi fredda nella tua infinita maestosità, io però non potrei fare a meno di amarti, ho bisogno di qualcosa di maestoso per amare. Quello di cui altri si sono lamentati, cioè di non aver trovato l’amore in questo mondo, sentendo perciò il bisogno di amare Te, perché Tu sei l’amore (ciò che io concedo in pieno), vorrei proclamarlo anche nei riguardi del maestoso. C’era e c’è nell’anima mia un bisogno della maestà, di una maestà che mai mi sentirò stanco o tediato di adorare» (n. 3189). Quindi «…il cristianesimo tiene fermo per il celibato, e io non farò come Lutero (me ne guarderò bene!), non dirò come lui che sembra che Paolo non vada d’accordo con Cristo. Non dirò: Cristo sia messo in disparte; è Paolo l’uomo che ci vuole!» (n. 3193). Anche questa sua crescente e fiammante apologia del celibato rivela la sua tendenza cattolicizzante (4), come oggi i ritorni di fiamma e le aperte condiscendenze al sacerdozio uxorato che serpeggiano nella Chiesa rivelano l’allentamento crescente e preoccupante della tensione esistenziale per la donazione infinita dell’anima nel suo impeto di ascesa al suo Dio.
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(1) Le citazioni rimandano ai numeri di S. Kierkegaard, Diario, cur. C.Fabro, Bur, Milano.

(2) In questa diagnosi pessimistica del clero danese concordava, benché avesse rifiutato di riconoscere in pubblico il buon diritto della critica di Kierkegaard, lo stesso vescovo Mynster, come ora si può rilevare dagli Atti delle sue visite pastorali, recentemente pubblicati: J.P. Mynsters Visitatsbörger 1835-1853, a cura di B. Kornerup, Copenhagen 1937, due volumi. Cfr. a questo proposito il nostro studio: L’attività oratoria dottrinale e pastorale di un vescovo luterano dell’Ottocento: J.P. Mynster, in corso di pubblicazione [Sarebbe comparso in “Ricerche di storia sociale e religiosa”, giugno-luglio 1973].
(3) Contro di essi insorse il grande spirito di J.A. Möhler, ben conosciuto da Kierkegaard.
(4) S. Geismar, Sören Kierkegaard. Seine Lebensentwicklung und seine Persönlichkeit, Gütersloh, Gottinga 1929, pp. 585 s., sembra collegare questa difesa del celibato alla lettura di Schopenhauer. In realtà le due posizioni hanno fondamenti profondamente diversi: nell’ateo e anticristiano èSchopenhauer il pessimismo, in Kierkegaard è l’elevatezza dell’ideale cristiano secondo l’esempio di Cristo e dei Santi a esigere il celibato. Inoltre si può osservare che Kierkegaard si accosta a Schopenhauer soltanto nell’ultimo scorcio della vita, tra il 1854 e il 1855.
Fonte: Cornelio Fabro, L’avventura della teologia progressista, Milano 1974, Rusconi, pp. 265-271.
Di Sabino Paciolla