ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 31 ottobre 2019

Propter regnum caelorum

Intervento fogliante sul celibato dei sacerdoti

Ieri sul Foglio carrellata di pareri sul celibato sacerdotale. Tra Camillo Langone, la Scaraffia, Gurrado, Valli, Crippa, Borghesi e Marzano ci sono anche io
di Costanza Miriano
Così come il digiuno a pane e acqua non è rinunciare alla bistecca, ma fare spazio alla fame di Dio, il celibato non è negarsi il sesso, ma una apertura maggiore alla fecondità. Alcuni sono chiamati a un rapporto sponsale esclusivo con il Signore, e a quelli di loro che vivono fedelmente la chiamata è dato di diventare davvero capaci di generare vita in un modo inimmaginabile e illimitato, negato a chi ha una famiglia. La fecondità di un sacerdote che abbia risolto la sua affettività nel rapporto con il Signore – di solito punto di arrivo di un lungo cammino – è inesauribile, ed è molto più che una questione di tempo, forze e risorse. E’ una questione di consegna totale di sé a Cristo.
Sulla possibilità prospettata dal Sinodo, non vorrei fare come quando do pareri a caso sul calcio, e vengo regolarmente sloggiata dal divano di casa. Credo sia una questione da canonisti e da teologi, e che non succederà niente di tragico su questo, qualunque cosa accada, perché già ci sono casi di uomini sposati che celebrano in piccole aree, tipo in Calabria, e la Chiesa saprà decidere saggiamente. Quello che invece mi preoccupa, e molto, è che anche nelle nostre chiese apparentemente in regola ci sono sacerdoti che non credono che quello che consacrano sia il vero corpo e il vero sangue di Cristo, non credono al peccato originale, non pensano che l’uomo senza Cristo è cattivo, e ritengono la risurrezione non un fatto vero, storicamente avvenuto, ma semplicemente un simbolo del fatto che gli insegnamenti di Gesù sono validi sempre.
Ecco, non vorrei che la decisione di aprire il sacerdozio agli sposati venisse da questa parte davvero enorme della Chiesa che pensa di non avere bisogno di redenzione: d’altra parte se non si tratta di avere a che fare con il corpo e il sangue di Dio fatto uomo, se si tratta solo di dispensare consigli di buona condotta, allora tutte le persone per bene lo possono fare. Il sacerdote è un accesso al mistero, colui che apre le porte della vita eterna: se questo fosse chiaro, le questioni di diritto canonico mi appassionerebbero di meno. Troppi sacerdoti hanno perso la fede in Cristo crocifisso per i nostri peccati e risorto, e allora, anche se rispettano il celibato, non servono a nulla.
Le origini del celibato sacerdotale
Recensione di: Christian Cochini, S.J., “Origines apostoliques du célibat sacerdotal”, Ed. Lethielleux, Paris 1981, pp. 479.
di Agostino Marchetto
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Rifiorisce oggi la ricerca storica e l’interesse per la grande disciplina ecclesiale. Lo testimonia anche la presente opera del P. Cochini, frutto di molti e pazienti anni di studio tenace. Infatti essa affonda le radici nella sua tesi di dottorato in teologia, presentata, nel 1969, all'Istituto Cattolico di Parigi. L'opera dimostra altresì che pure in materie in cui sembrava detta una parola definitiva (nel nostro caso, dopo la controversia della fine dello scorso secolo fra G. Bickell e F.-X. Funk) non manchino sorprese a quanti affrontano problemi antichi con metodi scientifici moderni. Così, grazie a una dettagliata e lunga investigazione sui primi sette secoli della vita ecclesiale, in Oriente ed in Occidente, l'A. conclude, con fondamento, che la legge del celibato-continenza è una "tradizione non scritta di origine apostolica".
Nella presentazione dell'opera del P. Cochini, il noto Prof. Stickler si associa alla lode del P. Daniélou e di P. de Lubac per raccomandare la presente ricerca. A che si deve tale positivo giudizio, che possiamo far nostro? Valori particolari del libro sono l'uso eccezionalmente efficace della critica interna, la conoscenza storiografica profonda e la moderazione del procedere - associata all'equilibrio e alla chiarezza - che esclude la minima polemica, ma anche il silenzio complice di fronte all'"ideologico" più che allo scientifico. Da rilevare, poi, il metodo applicato alla storia della Chiesa dei primi secoli, il cui sviluppo organico è visto alla luce del pensiero del grande Newman: “Tutta la luce che dimana dai secoli IV e V per interpretare gli abbozzi ancora pallidi, seppur precisi, dei secoli precedenti". La ricerca in parola risulta così un contributo decisivo alla storia delle origini del celibato ecclesiastico e prende avvio dall'affermazione del Conc. Africano (Cartagine) del 390: “ut quod apostoli docuerunt et ipsa servavit antiquitas nos quoque custodiamus”, riferita alla continenza dei chierici "maggiori" sposati.
E veniamo al contenuto del volume. Dopo la bibliografia specifica e l'elenco delle sigle ed abbreviazioni, esso si apre con gli "Approcci storici e metodologici" (pp. 21-158: Parte I). L'A. vi presenta la legislazione del IV secolo in materia, la quale presuppone, peraltro, una tradizione anteriore. L'esame attento dell'anzidetto Conc. Africano e delle decretali “Directa” (a. 385) e “Cum in unum” (a. 386), di papa Siricio, nonché “Dominus inter” (ancora di Siricio o di Innocenzo I), fornisce la piattaforma sicura di partenza cronologica per il nostro studio. Il C. preferisce, cioè, non considerare inizialmente il III can. di Nicea (a. 325), dato che tale punto di appoggio non sarebbe altrettanto chiaro e sicuro a causa del famoso "episodio" relativo al Vescovo Pafnuzio (favorevole al clero libero, in fatto di continenza, secondo lo storico bizantino Socrate).
Nello “status quaestionis” del cap. II (pp. 39-68) l'A. "allestisce una galleria" in cui figurano coloro che, prima di lui, si sono interessati dappresso all'origine del celibato ecclesiastico (di ciascuno egli fa una breve ed opportuna presentazione, una recensione dell'opera, con oculata e spassionata critica, rivelando la tendenza d'interpretazione ed aspetti positivi o negativi). In essa troviamo Bernoldo di Costanza, la Commissione Teologica del Concilio di Trento, G. Callisen, che contesta il Baronio ed il Bellarmino - i quali difesero l'origine apostolica del celibato sacerdotale -, L. Thomassin, N. Alexandre, J. Stiltinck, F. A. Zaccaria, Theiner (i fratelli), H.-C. Lea, A. de Rokovany, G. Bickell, F.-X. Funk, E.-F. Vacandard, H. Leclercq, R. Gryson, G. Denzler, H. Deene, e A. M. Stickler.
Seguono le precisazioni metodologiche (cap. III, pp. 69-88), capaci di fornire piste anche  per altre ricerche. L'A. si sforza, quindi, di farci entrare "concettualmente" nell'atmosfera dei primi sette secoli della vita della Chiesa indivisa, i cui vescovi, sacerdoti e diaconi erano, in gran parte, uomini sposati. Costoro, sicuramente, a cominciare dal IV sec., sono eletti al loro grado qualora scelgano di essere perfettamente continenti dopo l'ordinazione. Tale "legge" - ecco la questione fondamentale del libro - può pretendere ad un'alta antichità (è, cioè, di origine apostolica)? E quali le condizioni per poterla così definire? Il principio decisivo accolto, che germoglia dall'humus della dottrina di S. Agostino, è quello dell'universalità spazio-temporale, a cui si aggiungono quelli dell'esplicitazione progressiva (con il corollario di spiegare le cose oscure per mezzo dei punti chiari) e della interpretazione "comprensiva " (la necessità di tener conto di tutti i dati).
Nel cap. IV, quasi come preambolo, il C. affronta la questione del matrimonio degli Apostoli (pp. 89-108), giungendo a due conclusioni, vale a dire la impossibilità di conoscere con certezza - oltre il caso di Pietro, grazie al testo evangelico - la loro situazione di celibi o maritati (vi è, peraltro, una tradizione orale quasi unanime che riconosce la verginità di Giovanni; la maggioranza dei Padri, infine, ritiene che Paolo non si sposò o, tutt'al più, sarebbe stato vedovo) e il giudizio generale dei Santi Padri che ritengono aver cessato gli Apostoli, se coniugati, la vita maritale e praticato la continenza perfetta.
Il successivo capitolo (pp. l09-158) presenta una numerosa lista di chierici sposati e padri di famiglia che si riferisce ai primi sette secoli. L'inventario, non esaustivo ma sistematico, è frutto, specialmente, della consultazione degli storici ecclesiastici di lingua greca e latina.
Con la II Parte (pp. 159-464) si entra nel vivo della nostra questione con l'analisi di un "dossier patristico di base sul celibato-continenza dei chierici" (lo hanno formato, via via, nel corso di secoli, Callisen, Thomassin, Zaccaria, Theiner (i fratelli), A. de Roskovany e Bickell). “Terminus ad quem” è il Conc. Trullano del 691 che fissa, in modo chiaro e definitivo, la legislazione orientale (bizantina). L'A. divide la ricerca in due sezioni; la prima inizia con Ignazio di Antiochia e giunge al Conc. Cartaginese del 390. Per ogni documento il C. fa un'ottima e concisa presentazione. Con alcuni brevi cenni sulla vita degli A.A. va anche un richiamo alle loro opere, a cui segue il testo d'interesse per il nostro argomento e la relativa esegesi, sostenuta dalla filologia, con metodo comparativo, che tiene presente anche il contesto storico. Non menzioneremo qui, com'è ovvio, tutti i documenti e gli scritti patristici analizzati, ma citeremo solo, per la loro importanza, i Concili di Elvira, di Arles e di Nicea. A proposito di quest' ultimo, risulta decisivo, per  la ricerca in oggetto, un recente studio di F. Winkelmann, dell' Università Martin Luther di Halle, Wittenberg, circa il Vescovo Pafnuzio, definito il "prodotto di un intreccio immaginario agiografico progressivo". Costui, invece, secondo Socrate, avrebbe difeso, a Nicea, gli ordinati, già sposati, dal "giogo" della continenza.
Nella conclusione alla prima sezione del suo dossier, l' A. nota una grande continuità di visione, sia per quanto riguarda il raggruppamento indissociabile dei tre gradi dell'Ordine che in fatto di sanzioni contro gli incontinenti ed ancora nelle motivazioni teologico-scritturistiche poste a fondamento di tale disciplina.
Per l'Oriente il C. osserva, inoltre, che il contenuto del Conc. di Ancira (Ankara), a proposito della continenza sacerdotale, si avvicina soprattutto a quello del relativo canone di Elvira, ma anche alla disciplina propugnata ad Arles. Sempre in Oriente, poi, le testimonianze patristiche (Origene, in Egitto, Eusebio, a Cesarea, il redattore anonimo dei “Canones Ecclesiastici SS. Apostolorum”, Efrem il Siro - a suo modo -, Epifanio di Constantia e Girolamo, da Betlemme) lasciano trasparire non solo usi, ma vere leggi obbliganti i diaconi, i preti e i vescovi, nelle rispettive Chiese, a seguire una disciplina simile a quella vigente in Occidente. Un tale fascio di convergenze inclina, dunque, fortemente a pensare che vi fosse allora unanimità assai larga nel concepire la continenza dei ministri dell'altare come un dovere, la cui infrazione era illecita. Per di più la selezione sacerdotale rispettava ovunque il principio paolino dell’”unius uxoris vir” (legato alla volontà di eliminare candidati poco atti alla castità - “propter continentiam futuram”: Papa Siricio - ). È ancora S. Paolo, poi, a fornire la base dell'osservanza della castità quotidiana sacerdotale per dilatazione, agli ordinati, del suo consiglio agli sposi (I Cor. 7,5). Essi devono vivere, infatti, in un'astinenza ininterrotta perché dediti continuamente alla preghiera (Origene, Efrem, Girolamo, Ambrogio e Siricio). Il celibato-continenza è, quindi, "una tradizione non scritta di origine apostolica" (p. 277) anche perché i legislatori del IV sec. (un tempo di crisi violenta) vogliono arginare un fiume che la minaccia e non certamente introdurre, come alcuni hanno pensato, una regola nuova, sotto la pressione di correnti favorevoli alla verginità.
La sezione B (pp. 283-436) del dossier si riferisce al periodo che va dal 390 alla fine del VII sec. In tre tappe, il C. presenta svariatissime testimonianze (Romani Pontefici, Concili, Padri della Chiesa, anonimi e apocrifi, leggi imperiali, storici) circa il celibato-continenza dei diaconi, presbiteri e vescovi. Egli dilata anche la sua ricerca con brevi cenni (pp. 447-452) alla legislazione sul matrimonio e sulla continenza dei chierici minori. Al termine della lunga analisi, l'A. giunge alla conclusione che la disciplina, nei tre secoli surriferiti, si consolida, nel bacino del Mediterraneo, ad opera di Innocenzo I, Leone Magno e Gregorio il Grande, come pure di Aurelio di Cartagine, Cesario di Arles ed Isidoro di Siviglia. Anche in questo periodo, poi, come in precedenza, la continenza del clero è legata alle origini stesse della Chiesa, alle prescrizioni del Levitico e alle direttive paoline di cui sopra.
Per i Patriarcati Orientali, invece, risulta più difficile trovare una linea di fondo. Infatti, sebbene il Codice Giustinianeo si armonizzi, nell'essenziale, alle tendenze romane e Girolamo si faccia garante della conformità della Chiesa Orientale con il resto dell' Impero - corroborato, localmente, dagli atteggiamenti e dai discorsi di Giovanni Crisostomo e di Sinesio di Cirene - e nonostante l'Egitto di Cirillo accolga e diffonda la “Doctrina Aeddei” e l'ambiente siriano, alla fine del V sec., "riceva" lo ps. rituale apostolico “Testamentum Domini Nostri Jesu Christi” - due opere che veicolano idee, si potrebbe pensare, di origine latina -, altri documenti introducono in questa unità una nota differente. L'esistenza di due "tendenze" nel mondo cristiano si trova, infatti, nella legge teodosiana del 420 e nel V (VI) canone della raccolta apocrifa “Canones Apostolorum”. L'imprecisione di certe testimonianze farà, poi, che il Conc. Trullano (a. 691) "trasformi" la consegna di carità data al clero di “non rinviare le proprie mogli” in un riconoscimento ufficiale del vivere matrimonialmente. Per l'A., tuttavia, i Padri del Conc. Trullano furono i soli ed i primi a leggere con ufficialità nel VI canone "apostolico", di duecento anni anteriore, l'autorizzazione dell'unione coniugale, e ciò in un contesto nel quale i mutamenti politici, le disparità ed i dissensi nel seno della cristianità favoriscono ampiamente le divergenze in numerosi campi.
L'obiettività storica non sembra, dunque, permettere di formulare, con sufficiente certezza, l'ipotesi di una Chiesa d'Oriente in cui, prima del VII sec., la legislazione sulla continenza dei chierici sarebbe stata essenzialmente diversa da quella delle province di lingua latina. Anzi, l'analisi dei documenti offre la visione piuttosto contraria.
L'A. ritorna, poi, al principio paolino (“unius uxoris vir”), posto come regola per la chiamata al sacramento dell'Ordine. Egli analizza vari testi al riguardo. Così Innocenzo I, fedele all'esegesi di Siricio (“propter continentiam futuram”), domanda la continenza perfetta ai monogami ammessi all'Ordinazione. In tal senso legiferano pure i Vescovi, come risulta dai Conc. di Agda e di Marsiglia e, in Africa, dalla  Collezione  di  Cresconio. Ciò è  in armonia con il pensiero del Crisostomo, per il  quale il Vescovo sposato deve vivere con sua moglie "come se non l'avesse". Questa posizione sembra aver incontrato il favore di certi ambienti orientali, a giudicare dal “Testamentum Domini Nostri Jesu Christi”, che curiosamente identifica il Vescovo con un vedovo (“qui fuit unius uxoris vir”), e pure dall'esegesi di S. Girolamo (contro Gioviniano): “Eligatur episcopus, qui unam ducat uxorem... sed qui unam habuerit uxorem”.
Nel “Corpus Iuris Civilis” di Giustiniano, la regola preconizzata nella lettera a Timoteo prende una colorazione rigorista, più per ragioni di Stato (evitare l'alienazione dei beni ecclesiastici) che di ermeneutica. Comunque la porta stretta che conduce all'Episcopato, così inaugurata, resterà in permanenza in Oriente (i monasteri saranno i "seminari" dei Vescovi). Per il clero secolare, il Conc. Trullano si orienta, invece, verso una nuova esegesi dell’”unius uxoris vir” ed una nuova pratica della continenza sessuale (temporanea, per essi, limitata ai giorni di servizio liturgico, sul modello delle leggi veterotestamentarie), nonostante che i Padri conciliari dicano di rifarsi al VI dei “Canones Apostolorum”, apocrifo, di interpretazione ambivalente, e al II canone del sinodo Africano del 390.
Da ciò risulta peraltro evidente che è universale e chiaro il legame fra il servizio dell'altare e la continenza (perpetua o temporanea) richiesta ai Ministri. Se non sempre se ne esplicitano i motivi, spesso ci si rifà all'autorità di leggi divine (Levitico e invito di Paolo all'astinenza sessuale per la preghiera: Innocenzo I, I Conc. di Tours, Isidoro di Siviglia, Codice di Giustiniano, Conc. Trullano). L'accento è pure messo sulla funzione sacerdotale di mediazione (come Mosè) e sul carattere "sacro" e profetico del servizio all'altare. La continenza è considerata, cioè, come condizione invariabile di accesso a Dio e pegno di successo nell'intercessione.
La disciplina così delineata è stata peraltro tenuta in scacco dalle vicissitudini della storia e dall'opposizione di una parte del clero. Essa ha inoltre subìto vari adattamenti. Il più significativo è l'autorizzazione, a partire da Leone I, data in Occidente ai chierici maggiori, di continuare la coabitazione con le loro spose. Questo punto, lasciato anteriormente in ombra, sembra essersi esplicitato per influsso del VI can. pseudo-apostolico, che si diffonde nel V sec. L'amore coniugale non è sacrificato, ma elevato a livello di intimità spirituale, che concilia i diritti dell'affetto e della castità (“ut de carnale fiat spirituale coniugium”: S. Leone). Non mancano comunque gli avvertimenti per i rischi insiti nella coabitazione.
Ma in Oriente pare si sia ammesso meno facilmente la possibilità, per il Vescovo, di coabitare con la propria sposa (v. S. Giovanni Crisostomo, Codice di Giustiniano e Conc. Trullano).
Nella conclusione generale (p p . 465-4 75), il C. condensa ancora una volta i risultati della sua inchiesta, anche come risposta critica all'opinione espressa dall'Audet e da  Schillebeeckx, in due volumi pubblicati nel 1967 ("Mariage et célibat dans le service de  l'Eglise. Histoire et orientation", Paris 1967, e "Autour du célibat du prêtre, étude critique" - trad. francese -, Paris 1967, rispettivamente). Per entrambi il sacerdozio, agli inizi, fu pensato come fondamentalmente indipendente dalle strutture veterotestamentarie, mentre in seguito, a partire dal III secolo, sarebbe rientrato il modello levitico (culturale). L'A. afferma, invece, a questo riguardo, che non esiste soluzione di continuità tra l'Antico Testamento e il Cristianesimo delle origini (basti qui ricordare la convenienza fra il digiuno sessuale - e non altre pratiche di purificazione - e il clima del dialogo con Dio, posto dall'Apostolo in termini in cui è presente la prospettiva veterotestamentaria), così come non vi è fra quest'ultimo e quello dell'età patristica.
La storia del celibato-continenza non è frutto, dunque, di lenta evoluzione causata dall'influsso crescente di un movimento favorevole alla verginità, ma piuttosto una lunga e secolare resistenza della tradizione ("non scritta, di origine apostolica") alle correnti contrarie che si manifestano in vari luoghi ed epoche. L'affermazione dei Padri di Cartagine: "ut quod apostoli docuerunt, et ipsa servavit antiquitas, nos quoque custodiamus", a proposito del celibato-continenza, è quindi fondata.
Settimo Cielo
di Sandro Magister 30 ott
“Trópoi kyríou”, il modo di vivere del Signore
di Marianne Schlosser
Relazione al simposio sulle “Sfide attuali per l’ordine sacro” promosso dal Ratzinger Schülerkreise, Roma, 28 settembre 2019
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“Che danno farebbe la Nuova Alleanza se i ministri della religione vivessero in un matrimonio sacramentale rispettabile proprio come l’hanno fatto nell’Antica Alleanza? Dio ora è diventato più saggio o più santo che nell’Antica Alleanza? Che Cristo sia stato vergine, che sia nato da una vergine sposata con un uomo vergine, che sia stato prefigurato dai profeti vergini Geremia ed Elia, che abbia consigliato la verginità a pochi che l’abbiano afferrata. Da dove, chiedo, è venuto il comandamento (praeceptum), in modo che non rimanesse più solo un consiglio ... Quante volte sono stati trasgrediti i voti, quante volte è stato macchiato il sacro, quante volte sono state terribilmente pervertite le leggi della natura - crimini, atti vergognosi, peccati, ingiustizie, trasgressioni, abomini, da vergognarsi al nominarli o pensarli. ... La realtà indegna grida più forte del mio lamento ... a meno che qualcuno voglia deliberatamente essere sordo!”
Queste sono solo alcune delle obiezioni al celibato che Jean Gerson (1363-1429) dovette affrontare nel XIV secolo, nella sua risposta agli scritti anticelibatari di un nobile francese. Argomenti analoghi si possono trovare nella cosiddetta “tempesta anticelibataria” che nel XIX secolo travolse alcune diocesi della Germania sudoccidentale, dove laici prevalentemente accademici e un numero considerevole di professori dell’Università di Friburgo si rivolsero al Granduca di Baden e al Parlamento dello Stato di Baden per ottenere l’abolizione del celibato per i sacerdoti cattolici. A quel tempo furono create delle associazioni anticelibatarie, alle quali purtroppo si associarono non pochi sacerdoti.
Nell’argomentazione contro la lunga tradizione del celibato sacerdotale, a volte - allora come adesso - si mescolano due direzioni di attacco: da un lato, vengono sollevate obiezioni antropologiche fondamentali, come ad esempio: il celibato porta alla degenerazione dell’esistenza umana (nel XIX secolo, ad esempio, Hirscher); alla fine questi obiezioni - bisogna essere chiari su questo punto - dubitano totalmente o contestano apertamente il significato e la fecondità del consiglio evangelico della “perpetua continentia”. D’altra parte, vengono presentati argomenti specifici contro il celibato sacerdotale, in quanto sembra associato (principalmente) alla tradizione latina: così il rifiuto del cosiddetto “celibato obbligatorio” era ed è tuttora giustificato dal fatto che sia l’ostacolo principale per ottenere candidati più qualificati al sacerdozio.
Non di rado si afferma che il carisma del celibato sia da un lato ben apprezzato, ma, non essendo necessariamente legato al sacerdozio, non può essere richiesto come prerequisito. Già molti anni fa Karl Rahner rispose a questa domanda in tal modo che non si possa negare alla Chiesa il diritto di richiedere questa dote da coloro che vogliono essere i suoi sacerdoti. Joseph Ratzinger (cf. Lettera aperta a R. Egenter, 1977) ha analogamente sottolineato che l’argomentazione in questione si basa su un concetto di carisma non riflettuto: in primo luogo, un carisma è dato alla persona come soggetto libero. Il destinatario stesso può e deve rapportarsi a questo dono: qualcuno può sviluppare e custodire un dono o, anche, chiederlo da Dio; dall’altra parte qualcuno può anche trascurarlo, violentarlo o lasciarlo perire. Ciò vale anche per le persone che hanno la responsabilità di accompagnare e discernere le vocazioni. In secondo luogo, un carisma non è mai un dono spirituale soltanto privato, ma, al contrario, una qualificazione speciale a beneficio della comunità ecclesiale. Questo, aggiungerei, mi sembra che valga soprattutto per il carisma della castità celibe (specialmente se non è legato a una vocazione alla vita consacrata). Se allora la Chiesa rinunciasse all’apprezzamento pubblicamente proclamato della vita celibe dei sacerdoti e la lasciasse alla decisione personale, la vita celibe di un sacerdote diocesano diventerebbe un’espressione della sua pietà personale e privata, che tuttavia avrebbe poco a che fare con il suo ministero ecclesiale. La conseguenza di una tale “esenzione” sarebbe prima o poi - come è convinto J. R. anche a causa degli sviluppi storici - la scomparsa della vita celibe dei sacerdoti.
Argomento:
Di seguito cercherò di delineare la vicinanza interiore / connessione tra il consiglio evangelico della “perpetua continentia propter regnum caelorum” e la vocazione sacerdotale; Il n. 16 della PO parla di una “multimoda convenientia”. Se non si affronta il tema in tal modo, sorgerà da se stessa la domanda su che cosa si perderebbe se si rinunciasse a questa legge incomprensibile, non amata e presumibilmente così spesso infranta.
Certamente, questi sono argomenti di convenienza. La vita celibe dunque si basa sull’ordine della redenzione - e questo ha per conseguenza che la sua giustificazione non possa essere fatta da “rationes necessariae”, ma che essa tragga la sua propria “logica” dalla fede nell’incarnazione, o ancor di più, nella risurrezione corporale di Cristo (“Alla resurrezione non si prende né moglie né marito”: Mt 22,30; Lc 20,35). Anche in questo caso posso citare Rahner (1968, 286): “Ci sono molte ragioni per l’attuale crisi del celibato. [...] Ma se non ci inganniamo da noi stessi, dobbiamo vedere che la causa ultima di questa crisi sta nella crisi di fede generale e complessiva. Viviamo in un’epoca in cui la realtà di Dio e della vita eterna sono difficili da consapevolizzare per l’uomo. Viviamo in un tempo caratterizzato da parole chiave come demitologizzazione, desacralizzazione (!) e dalla tendenza a ridurre tutto il cristianesimo a semplici relazioni interpersonali“.
Suppongo che il termine “continentia permanens” = celibato non sia semplicemente uno stile di vita esteriore, ma un’espressione corporale specifica di “castitas”. Quest’atteggiamento interiore di riverenza che forma le relazioni affettive della persona con gli altri esseri umani, con se stesso e anche con Dio, è una qualità necessaria della caritas, della virtù dell’amore.
La sequela del Buon Pastore, non funzionale ma personale
Nel Nuovo Testamento c’è un solo sacerdote: il Signore, lo Sposo e il Capo della sua Chiesa, che è il suo corpo sacerdotale (1Pt 2,5.9). Chi riceve il sacramento dell’ordinazione sacerdotale è abilitato a “rappresentare” il Signore della Chiesa, a rendere visibile in lei Cristo come controparte permanente della Chiesa - nella parola, nel sacramento, nel servizio gratuito alla salvezza. L’istituzione del sacerdozio sacramentale significa che Cristo vuole rimanere presente non solo come dono di salvezza nella sua Chiesa (eucaristia come sacramento), ma anche come donatore (nella celebrazione dell’eucaristia, soprattutto attraverso l’azione del sacerdote “in persona Christi capitis”). Il sacerdozio della Nuova Alleanza esiste solo in dipendenza dall’unico sommo sacerdote, cioè Cristo.
Allo stesso tempo: chi è stato ordinato sacerdote, secondo il modo di intendere cattolico, non assume semplicemente un ministero o un compito, nel senso di una funzione necessaria per la comunità, ma è chiamato alla sequela speciale di Cristo. Non è semplicemente un “medium” (“mezzo”) o uno “strumento” (anche se i sacramenti sono efficaci “ex opere operato” e non dipendono dal suo potere di fede o di santità), né un “servo che non sa quello che fa il suo padrone”, ma piuttosto un “amico” (Gv 15,15), che viene chiamato a “operare insieme” (cooperator) con Cristo (1 Cor 3,9). Il suo compito è quello di promuovere la vita soprannaturale e di rendere perfetto il sacrificio spirituale dei fedeli (PO 2). Non ha altro da dare se non quello che Cristo dà. Ma questa trasmissione lo sfida come persona (cf. la grande parola in Col 1,24: “do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa”!).
Quindi, come non potrebbe essere conveniente un’assimilazione dello stile di vita del sacerdote anche allo stile di vita di Gesù, cioè i consigli evangelici? Colui per il quale la prima preoccupazione deve essere il regno di Dio (Mt 6,33), eviterà di riempirsi di “occupazioni terrene” o di diventare troppo “accasato” in questo mondo. La disponibilità di un candidato a condurre una vita celibe può certamente essere un criterio per discernere se abbia capito che non diventa sacerdote per se stesso, ma per Cristo che vuole esercitare attraverso di lui la sua cura pastorale, e se si rende conto dell’incondizionalità di questa chiamata.
Non si tratta soltanto di un’imitazione esterna, ma della condivisione della vita, che porta ad una vicinanza speciale. La “continentia” non è un abito da indossare esternamente - come una pelliccia artificiale che può avere dei vantaggi - ma un’espressione dell’appartenenza interiore a Cristo, il Buon Pastore; quest’appartenenza è così totale che il posto della coniuge rimane vuoto.
Chi rinuncia a questo, rinuncia a un bene, - un bene dell’ordine della creazione. Questo può avere buon successo soltanto se la rinuncia per il bene superiore viene affermata - e non semplicemente accettata. Proprio perché il matrimonio non è una questione periferica della vita umana, ma una comunione unica ed esclusiva tra un uomo e una donna che forma e rivendica profondamente le due persone in tutte le dimensioni, si può “convenientemente” intendere che un uomo che è stato assunto con tutta la sua persona alla missione di Cristo, non può appartenere a un’altra persona umana, come un marito a sua moglie. R. Guardini ha affermato alcuni anni fa: la mancata comprensione del significato del celibato è anche una conseguenza della confusione nel campo del matrimonio.
“Tria munera Christi”
Il sacerdozio di ordinazione, come spiega l’introduzione della PO, è istituito per costruire il “santo sacerdozio” del Corpo di Cristo in modo che i fedeli diventino un’offerta a Dio. Questo ministero di santificazione si svolge nella proclamazione della parola (“martyria - munus propheticum”), nella celebrazione dei sacramenti (“leiturgia - munus sacerdotale”) e nella cura integrale per la salvezza degli affidati (“diakonia - munus regendi”).
"Leiturgia"
a) “Minister mysterii”
Il Cristo vivente non è solo il capo, ma anche lo sposo della Chiesa. “La ha amata e ha dato se stesso per lei”, “per renderla santa […] e immacolata” (Ef 5,25-27). Questa dedizione viene celebrata e resa presente soprattutto nell’eucaristia: attraverso essa i fedeli vengono purificati e santificati più profondamente per essere con Cristo un “dono santo per Dio Padre”. Pertanto, i Padri della Chiesa considerano la celebrazione eucaristica come la cena nuziale dell’Agnello, in cui la promessa comunione celeste è già celebrata in modo “velato” del sacramento.
Non è ovvio che colui che in questa liturgia “rappresenta” lo sposo, agisce “in persona Christi capitis” e recita le parole: “Questo è il mio corpo per te”, dovrebbe avere anche lui stesso la sola Chiesa come sua controparte? Per quanto riguarda il sacerdozio del “primo grado”, cioè l’episcopato, questa convenzione non è affatto in discussione (cf. l’anello del vescovo come espressione del suo legame spirituale alla sua Chiesa particolare - “portio sollicitudinis”). Queste considerazioni presuppongono, naturalmente, che i simboli incontrati nelle Scritture e nella liturgia non siano immagini arbitrarie, ma il modo in cui ci viene comunicato il mistero insondabile dell’amore di Cristo. Pertanto, non possono essere semplicemente messi da parte o sostituiti.
b) “Sacerdos et sacrificium”
Cristo è sia sacerdote che sacrificio (“sacerdote, altare (come luogo di incontro di Dio e dell’uomo) e agnello immolato”). Il sacerdozio nella sequela di Cristo include anche - J.R. parla di “espropriazione” - l’“abbandono totale” di se stesso a Dio. Questo è il vero significato di “sacrificio” – “sacri-ficium”: si dà qualcosa a Dio - se stesso in modo che appartenga a lui (Agostino). Ciò include tutti i consigli evangelici, forse in modo particolare riguarda l’obbedienza come atteggiamento di base.
Il celibato è una forma molto concreta, anche nella dimensione della rinuncia percepibile, dell’abbandono di se stesso a Dio: a chi abbandona se stesso, viene dato il desiderio di vivere fecondamente e non privo di senso e infine il desiderio di essere amato personalmente – “per il bene del regno dei cieli”, nella speranza credente che ciò lascerà crescere l’amore (caritas) che contribuisce alla salvezza degli altri, l’amore del Buon Pastore, che dà la vita per i suoi.
In ogni vita umana ci sono “sacrifici” che vengono pretesi e imposti. Ma la vita celibe è un atto di fede generosa. Ciò significa che non solo alla vita effettivamente casta e celibe, ma anche alla promessa viene dato una dignità speciale. Allora qui viene espressa la dimensione del “dono volontario”. La promessa contiene la disposizione di legare se stessi che, con Tommaso d’Aquino, può essere descritto come un atto di adorazione di Dio: l’impegno assunto in pubblico è una testimonianza di fiducia in Dio e nella sua grazia. Un sacerdote a me noto lo ha espresso con queste parole: “Sì, il celibato è un carisma, un dono di Dio per me. Ma è anche il mio dono per Dio”.
“Martyria”, testimonianza
a) Disposizione alla contemplazione
Una volta i sacerdoti chiamavano il loro breviario “la mia sposa”. Questo avrebbe dovuto probabilmente significare che portavano ovunque il libro per la liturgia delle ore (come oggi il cellulare?). Certo: non si tratta del libro come oggetto, ma della familiarità con la Parola di Dio che non solo dovrebbe essere letta, ma pregata. Il mandato di predicare presuppone un rapporto personale con la Parola di Dio (cf. Papa Francesco, “Evangelii gaudium”).
Per questo, comunque, il celibato non è necessario. Tuttavia, va ricordato che realisti come Tommaso d’Aquino (o anche i “terapeuti” descritti da Filone, o persino Mosè Maimonide o Aristotele, però sotto altri auspici) consideravano una certa libertà mentale una disposizione eccellente alla “contemplatio” - cioè l’indivisibilità del cuore che S. Paolo considera collegata al celibato (1Cor 7,32-34). Per “contemplatio”, ovviamente, hanno compreso non solo una riflessione teorica di questa parola, ma il “guardare con lo sguardo dell’amore”. L’anima umana, compresa quella di un maschio, è la sposa della Parola nella sua dimensione contemplativa e ricevente. Al contrario, anche la tradizione spirituale concorda sul fatto che questo rapporto con la Parola di Dio rafforza la virtù della castità.
b) Profezia con la vita
Chiunque proclama la Buona Novella, parla dei beni del mondo che sta venendo ed è testimone della speranza. I beni della vita eterna sono beni reali, ma non così facilmente visibili. “Noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma (“contemplantes”) su quelle invisibili perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne“ (2Cor 4,18). Una vita di celibato volontario è una forte testimonianza della realtà dei beni di cui stiamo parlando, una testimonianza del fatto che siamo immensamente amati - anche ora, in questo mondo pieno di crepuscoli e ombre.
c) La “martyria” include ancora un altro significato: testimonianza contro la resistenza - “confessio”. La resistenza e la contraddizione possono emergere dall’esterno e dall’interno della propria persona. “Confessione” significa qui anche difendere ciò che non si propone da se stesso - si potrebbe dire: la follia della croce. Non a caso il “martirio bianco” della verginità segue immediatamente dopo quello “rosso”, la testimonianza del sangue (cf. LG 42). Entrambi sono vie di sequela della croce. Entrambi però non riguardano principalmente la “tortura”, ma l’unità con Cristo nella testimonianza.
“Diakonia”. la cura delle anime, il servizio del Buon Pastore
La “diakonia” va qui intesa in un senso lato: servire l’obiettivo soprannaturale degli altri esseri umani, con una missione (e quindi una responsabilità) va oltre il dovere di ogni fratello o sorella. Si tratta di servire come Cristo ha servito (alienazione: Fil 2, Gv 13, ecc.), servendo con lo stesso scopo. Il paradigma per questo è la lavanda dei piedi - con le sue implicazioni etiche e sacramentali -, poiché Cristo vuole ancora oggi lavare i piedi dei suoi fedeli tramite il ministero degli apostoli.
Con che cosa il celibato contribuisce a questo? In ogni caso più che una mera disponibilità temporale-spaziale esterna o una disponibilità ad un trasferimento più semplice. Si tratta di una certa qualità della relazione. Lo sguardo di un pastore delle anime dovrebbe riconoscere ciò che è “di Dio” nell’altra persona, l’immagine di Dio, in riverenza verso l’opera che Dio compie.
Fin dai tempi più antichi, questo sguardo per l’altro è stato assegnato soprattutto a coloro che “vivono solitari per Dio”. Chi affronta ogni giorno la propria solitudine con Dio, capirà anche più profondamente ciò di cui ogni persona umana ha bisogno. Per questo la paternità spirituale è stata attribuita a coloro che non conoscono la paternità naturale: monaci (comprese le suore) e sacerdoti. Proprio come la chiamata alla sequela specifica di Cristo non deriva semplicemente dal fatto di avere la propria origine in una famiglia cristiana, ma richiede e presuppone una chiamata speciale (cf. le parole della sequela di Gesù che richiedono un allontanamento dalla propria famiglia naturale), così anche le relazioni umane di una persona con una tale chiamata assumono una colorazione speciale. “Un sacerdote è il padre di tutti i credenti, cioè degli uomini e delle donne. Quindi, se qualcuno che prende questa posizione tra i fedeli, si sposa, è simile a qualcuno che sposa la propria figlia”, scrive un autore siriano dell’VIII secolo.
Sembra scioccante. Ma chiediamoci al contrario: la moglie di un sacerdote potrebbe confessarsi al marito? Come si può sopportare che persone esprimano la loro più profonda miseria metafisica e la loro colpa davanti a Dio al coniuge che conoscono meglio di chiunque altro? Fu Friedrich Nietzsche che affermò - come spesso con lingua tagliente - che la confessione auricolare scomparve nelle comunità della Riforma allorché non ci furono più sacerdoti celibi.
E quindi ci si può forse anche chiedere se la facilità con cui si può immaginare sacerdoti sposati sia legata al significato emarginato - di fatto - del sacramento della riconciliazione.
CONCLUSIONE: Dal mio punto di vista, la separazione del celibato dal ministero sacerdotale cambierebbe la concezione del sacerdozio non solo perifericamente, ma profondamente. In ogni caso, la conseguenza sarebbe una definizione sempre più funzionale, presumibilmente anche un imborghesimento totale. D’altra parte, i grandi movimenti di riforma della storia della Chiesa, che hanno sviluppato una fecondità di lunga durata, si sono affidati alla vita evangelica per il clero.
Tra Croce e Pasqua
“Chi ama la propria vita la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà.” Si capirà la vita celibe soltanto quando s’inizierà a capire questa parola.
La vita cristiana è segnata dalla croce e dalla risurrezione di Cristo - a partire dal battesimo, che si svolge in un simbolo di morte (immersione) per ricevere la nuova vita. I sacramenti mostrano questo mistero, le Beatitudini lo esprimono, e soprattutto i consigli evangelici. Povertà volontaria, castità celibe, rinuncia concreta ai propri progetti – tutti i consigli evangelici hanno questa doppia forma: la nuova vita deriva dalla morte.
I “consigli” ci invitano a rinunciare a beni reali di cui non si dovrebbe rinunciare. Quindi, il “dolore” non è un segno che qualcuno non è chiamato - ma se la gioia non supera il dolore, difficilmente esiste una vocazione. Al contrario, aver ricevuto la vocazione non significa essere sollevati da tutte le sfide.
La dimensione dell’ascesi rimane importante, e la tradizione spirituale è molto realistica su questo punto. Si consiglia di adoperarsi per virtù vicine, compresi gli altri due “consigli”. Perché non solo uno “stomaco sfrenato”, ma anche la vanità e l’interesse per le voci che girano minano la vita celibe. Chi non combatte la sua rabbia, l’impazienza, l’accidia spirituale o il piacere, o addirittura trascura imprudentemente e troppo sicuro di sé i pericoli, rischia il collasso.
La vita secondo i consigli evangelici è allo stesso tempo “un assaggio anticipato” della nuova vita, la fresca brezza del nuovo eone, che dalla Pasqua soffia in un mondo che è caratterizzato dalla sua transitorietà e dalla paura letale di essa.  La vita celibe potrebbe forse essere chiamata la “prole” della speranza (come una virtù teologica), che non è senza “caparra”. La chiamata alla vita celibe è la vocazione che conduce ad una profonda amicizia con Cristo, che a sua volta vuole espandersi sui fratelli e sulle sorelle di Cristo - in un amore generoso e impegnato.
Settimo Cielo
di Sandro Magister 30 ott

Don Morselli: il celibato non è solo un diritto della Chiesa, ma è mistero della sponsalità del Cristo con Essa


Ricordando a tutti voi il nostro ricco dossier sulla questione del celibato, vedi qui, proponiamo ora alla vostra attenzione una breve ma intensa risposta di Don Alfredo Maria Morselli ad un confratello…. seguirà poi una riflessione di mons. Piacenza che cita Benedetto XVI sull’argomento, a chiusura dell’Anno Sacerdotale 2009-2010.

Celibato sacerdotale: Mistero e diritto (di Don Alfredo Maria Morselli)
Ieri ho ricevuto la visita di un caro confratello, e inevitabilmente il tema della conversazione è caduto sul documento finale del Sinodo sull’Amazzonia. Detto sacerdote si è mostrato favorevole alla chiamata al sacerdozio ministeriale di uomini provati: “Non possiamo lasciare tante persone con la Messa una volta all’anno. Altrimenti smettiamo di dire che l’Eucarestia fa la Chiesa
Questa mattina gli ho risposto, e, ritenendo che le sue e le mie argomentazioni abbiano una rilevanza che va oltre una chiacchierata tra amici, pubblico la mia risposta, tolti – naturalmente – tutti i riferimenti particolari.
Carissimo confratello,
Posto che “utinam”, volesse il cielo che in ogni angolo della terra a tutte le ore fosse celebrata una S. Messa, c’è da considerare che l’Eucarestia fa la Chiesa in modo misterioso, in quel modo per cui “l’uomo getta il seme sulla terra… dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa”. (Mc 4:27 CEI74).
Quante mogli di immigranti hanno quasi rinunciato a incontrare lo sposo e la famiglia è rimasta solida; hanno potuto gustare in rari incontri un amore esclusivo, fedele, totale, con sacrificio da entrambe le parti a suggellare detta fedeltà.
La comunità che incontra raramente il Sacerdote-Cristo-Sposo, non di meno gusta il sacerdote tutto e solo per lei e (in lei e per lei) per la Chiesa universale; ritrova concretamente la sponsalità di Gesù.
E detta comunità sa – per tante catechesi che possono fare tranquillamente i buoni laici – che in qualunque parte del mondo venga celebrata una S. Messa, i benefici raggi del sole di questo augustissimo Sacrificio riscaldano soprannaturalmente il più sperduto e dimenticato (dagli uomini ma non da Dio) angolino dell’Amazzonia.
Per questo e per tanti motivi, il celibato non è solo una questione di diritto; c’è un principio giuridico che dice: “da mihi factum dabo tibi ius” [dammi il fatto e ti darò il riconoscimento giuridico]; questo nel diritto civile, e anche nel diritto canonico, quando, ad esempio, vista un’esperienza religiosa che dà frutti, la Chiesa concede degli statuti o approva una regola; nel caso del celibato la legge positiva riveste un mistero; si potrebbe affermare il principio “da mihi mysterium et dabo tibi ius” [dammi il mistero e ti darò la legge]; la Chiesa, guidata dallo Spirito, Mistica Sposa, Mistico Corpo, Mistica Persona, ma nel contempo umanissima e visibilissima “come la Repubblica di Venezia”, ha rivestito, come un guanto riveste la mano, il mistero ineffabile della sponsalità sacerdotale con un tangibilissimo diritto; per questa unione ritengo che il celibato sacerdotale non sia una semplice legge umana su cui il legislatore abbia le stesse identiche facoltà come su tante altre leggi positive.

Contribuiamo al tema, rammentando ai nostri lettori, il confronto A BRACCIO, BELLISSIMO, che Benedetto XVI fece nella Veglia di Chiusura per l’Anno Sacerdotale, ecco a voi la “diretta” di quell’incontro 
Lo slovacco don Darol Miklosko ha sollecitato poi Benedetto XVI a parlare del celibato anche di fronte alle critiche del mondo.
Il Pontefice ha ricordato che il celibato è un’anticipazione della vita nuova, resa possibile dalla grazia e dalla risurrezione di Cristo.
A questo proposito, il Papa ha detto che un grande problema della cristianità, del mondo di oggi, è che non si pensa più al futuro di Dio. Sembra sufficiente solo il presente di questo mondo.
L’uomo aspira ad avere solo questo mondo, a vivere solo in questo mondo. E così chiude le porte alla vera grandezza della sua esistenza.
Il senso del celibato come anticipazione del futuro, ha aggiunto, è proprio aprire queste porte, rendere più grande il mondo, mostrare la realtà del futuro che va vissuto da noi già come presente.
Si tratta quindi di vivere una testimonianza di fede: crediamo realmente che Dio c’è, che Dio c’entra nella nostra vita, che possiamo fondare la nostra vita su Cristo, sulla vita futura.
Riguardo alle critiche del mondo, il Pontefice ha detto che per chi non crede il celibato è un grande scandalo, perché mostra che il Signore va considerato come realtà e vissuto come realtà. Si tratta, ha affermato, di un grande segno della fede, della presenza di Dio nel mondo.
Il celibato è un sì definitivo, un lasciarsi prendere per mano da Dio, un darsi nelle mani del Signore. Si tratta perciò di un atto di fedeltà e di fiducia, così come il matrimonio, che rappresenta la forma naturale dell’essere uomo e donna, il fondamento della cultura cristiana e delle grandi culture del mondo: se esso scompare – ha ammonito il Pontefice – va distrutta la radice della nostra cultura. Perciò il celibato conferma il sì del matrimonio con il suo sì al mondo futuro.
Da qui l’appello di Benedetto XVI a superare gli scandali secondari, provocati da insufficienze e peccati dei sacerdoti, per mostrare al mondo il grande scandalo della fede.

Benedetto XVI
e la “Sacramentum caritatis”


Da una conferenza tenuta ad Ars dal cardinale prefetto della Congregazione per il Clero, pubblichiamo la parte relativa a Papa Ratzinger..

di mons. MAURO PIACENZA – Prefetto della Congregazione per il Clero (2010-2013)

L’ultimo Pontefice, che prendiamo in esame, è quello felicemente regnante, Benedetto XVI, il cui iniziale magistero sul celibato sacerdotale non lascia dubbio alcuno, sia sulla validità perenne della norma disciplinare, sia, soprattutto e antecedentemente, sulla sua fondazione teologica e particolarmente cristologico-eucaristica.
In particolare, il Papa ha dedicato al tema del celibato un intero numero dell’esortazione apostolica postsinodale, Sacramentum caritatis, del 22 febbraio 2007. In esso leggiamo: “I padri sinodali hanno voluto sottolineare che il sacerdozio ministeriale richiede, attraverso l’ordinazione, la piena configurazione a Cristo. Pur nel rispetto della differente prassi e tradizione orientale, è necessario ribadire il senso profondo del celibato sacerdotale, ritenuto giustamente una ricchezza inestimabile, e confermato anche dalla prassi orientale di scegliere i vescovi solo tra coloro che vivono nel celibato e che tiene in grande onore la scelta del celibato operata da numerosi presbiteri. In tale scelta del sacerdote, infatti, trovano peculiare espressione la dedizione che lo conforma a Cristo e l’offerta esclusiva di se stesso per il Regno di Dio.
Il fatto che Cristo stesso, sacerdote in eterno, abbia vissuto la sua missione fino al sacrificio della croce nello stato di verginità costituisce il punto di riferimento sicuro per cogliere il senso della tradizione della Chiesa latina a questo proposito. Pertanto, non è sufficiente comprendere il celibato sacerdotale in termini meramente funzionali. In realtà, esso rappresenta una speciale conformazione allo stile di vita di Cristo stesso. Tale scelta è innanzitutto sponsale; è immedesimazione con il cuore di Cristo Sposo che dà la vita per la Sua Sposa. In unità con la grande tradizione ecclesiale, con il concilio Vaticano II e con i Sommi Pontefici miei predecessori, ribadisco la bellezza e l’importanza di una vita sacerdotale vissuta nel celibato come segno espressivo della dedizione totale ed esclusiva a Cristo, alla Chiesa e al Regno di Dio, e ne confermo quindi l’obbligatorietà per la Tradizione latina.
Il celibato sacerdotale vissuto con maturità, letizia e dedizione è una grandissima benedizione per la Chiesa e per la stessa società” (n. 24). Come è facile notare, l’esortazione apostolica Sacramentum caritatis moltiplica gli inviti affinché il sacerdote viva nell’offerta di se stesso, fino al sacrificio della croce, per una dedizione totale ed esclusiva a Cristo.
Particolarmente rilevante è il legame, che l’esortazione apostolica ribadisce, tra celibato ed Eucaristia; se tale teologia del magistero sarà recepita in modo autentico e realmente applicata nella Chiesa, il futuro del celibato sarà luminoso e fecondo, perché sarà un futuro di libertà e di santità sacerdotale. Potremmo così parlare non solo di “natura sponsale” del celibato, ma della sua “natura eucaristica”, derivante dall’offerta che Cristo fa di se stesso perennemente alla Chiesa, e che si riflette in modo evidente nella vita dei sacerdoti.
Essi sono chiamati a riprodurre, nella loro esistenza, il sacrificio di Cristo, al quale sono stati assimilati in forza dell’ordinazione sacerdotale.
Dalla natura eucaristica del celibato ne derivano tutti i possibili sviluppi teologici, che pongono il sacerdote di fronte al proprio ufficio fondamentale: la celebrazione della santa messa, nella quale le parole: “Questo è il mio Corpo” e “Questo è il mio Sangue” non determinano soltanto l’effetto sacramentale loro proprio, ma, progressivamente e realmente, devono modellare l’oblazione della stessa vita sacerdotale. Il sacerdote celibe è così associato personalmente e pubblicamente a Gesù Cristo. Lo rende realmente presente, divenendo egli stesso vittima, in quella che Benedetto XVI chiama: “La logica eucaristica dell’esistenza cristiana”.
Quanto più si recupererà, nella vita della Chiesa, la centralità dell’Eucaristia, degnamente celebrata e costantemente adorata, tanto più grande sarà la fedeltà al celibato, la comprensione del suo inestimabile valore e, mi si consenta, la fioritura di sante vocazioni al ministero ordinato.
Nel discorso in occasione dell’udienza alla Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi, il 22 dicembre 2006, Benedetto XVI affermava ancora: “Il vero fondamento del celibato può essere racchiuso solo nella frase: “Dominus pars mea – Tu, Signore, sei la mia terra”. Può essere solo teocentrico. Non può significare rimanere privi di amore, ma deve significare il lasciarsi prendere dalla passione per Dio, e imparare poi, grazie ad un più intimo stare con Lui, a servire pure gli uomini. Il celibato deve essere una testimonianza di fede: la fede in Dio diventa concreta in quella forma di vita, che solo a partire da Dio ha un senso. Poggiare la vita su di Lui, rinunciando al matrimonio e alla famiglia, significa che io accolgo e sperimento Dio come realtà e perciò posso portarLo agli uomini”.
Solo l’esperienza dell'”eredità”, che il Signore è per ciascuna esistenza sacerdotale, rende efficace quella testimonianza di fede che è il celibato. Come lo stesso Benedetto XVI ha ribadito nel discorso ai partecipanti alla plenaria della Congregazione per il Clero, il 16 marzo 2009, esso è: “Apostolica vivendi forma (…) partecipazione ad una “vita nuova” spiritualmente intesa, a quel nuovo “stile di vita” che è stato inaugurato dal Signore Gesù ed è stato fatto proprio dagli Apostoli”.
L’Anno sacerdotale recentemente concluso ha visto vari interventi del Santo Padre sul tema del sacerdozio, in particolare nelle catechesi del mercoledì, dedicate ai tria munera, e in quelle in occasione dell’inaugurazione e della chiusura dell’Anno sacerdotale e delle ricorrenze legate a san Giovanni Maria Vianney. Particolarmente rilevante è stato il dialogo del Papa con i sacerdoti, durante la grande veglia di chiusura dell’Anno sacerdotale, quando, interrogato sul significato del celibato e sulle fatiche, che si incontrano per viverlo nella cultura contemporanea, egli ha risposto, partendo dalla centralità della celebrazione eucaristica quotidiana nella vita del sacerdote, che, agendo in Persona Christi, parla nell'”Io” di Cristo, divenendo realizzazione della permanenza nel tempo dell’unicità del Suo sacerdozio, aggiungendo: “Questa unificazione del Suo “Io” con il nostro implica che siamo tirati anche nella Sua realtà di Risorto, andiamo avanti verso la vita piena della risurrezione (…)
In questo senso il celibato è una anticipazione. Trascendiamo questo tempo e andiamo avanti, e così tiriamo noi stessi e il nostro tempo verso il mondo della risurrezione, verso la novità di Cristo, verso la nuova e vera vita”.
È così sancita, dal magistero di Benedetto XVI, la relazione intima tra dimensione eucaristica-fontale e dimensione escatologica anticipata e realizzata del celibato sacerdotale. Superando d’un sol colpo ogni riduzione funzionalistica del ministero, il Papa lo ricolloca nella sua ampia e alta cornice teologica, lo illumina ponendone in evidenza la costitutiva relazione, dunque, con la Chiesa e ne valorizza potentemente tutta la forza missionaria derivante proprio da quel “di più” verso il Regno che il celibato realizza. In quella medesima circostanza, con profetica audacia, Benedetto XVI ha affermato: “Per il mondo agnostico, il mondo in cui Dio non c’entra, il celibato è un grande scandalo, perché mostra proprio che Dio è considerato e vissuto come realtà. Con la vita escatologica del celibato, il mondo futuro di Dio entra nelle realtà del nostro tempo”.
Come potrebbe la Chiesa vivere senza lo scandalo del celibato? Senza uomini disposti ad affermare nel presente, anche e soprattutto attraverso la propria carne, la realtà di Dio? Tali affermazioni hanno avuto compimento e, in certo modo, coronamento nella straordinaria omelia pronunciata a chiusura dell’Anno sacerdotale nella quale il Papa ha pregato perché, come Chiesa, siamo liberati dagli scandali minori, perché appaia il vero scandalo della storia, che è Cristo Signore.

(L’Osservatore Romano – 14-15 febbraio 2011)

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