BREAKING: IL PAPA CHIEDE SCUSA PER IL TUFFO NEL TEVERE DELLE PACHAMAMA. LE VUOLE A SAN PIETRO.
L’agenzia di stampa I-Media ha un’informazione esclusiva: secondo il suo direttore Xavier LN
<Papa Francesco, “in quanto vescovo di Roma” chiede “perdono” a quelli che sono rimasti offesi dalle statuette gettate nel Tevere. Queste erano state esposte “senza idolatria” in una chiesa vicina al Vaticano, ha ricordato>.
Tutto qui, quello che sappiamo per il momento: ma visto tutto ciò che si è scatenato in questi giorni intorno alle Pachamama, e dopo la presa di posizione del cardinale Müller, ci sembra interessante segnalarlo.
L’agenzia Infovaticana ha però un seguito: il Pontefice ha detto che la polizia ha rintracciato le statuette, che saranno nella basilica di San Pietro per la celebrazione della chiusura del Sinodo. È chiaro dunque che le scuse sono rivolte non ai cattolici offesi dalla presenza delle statue, ma a quelli che sono stati feriti dal ratto e dal tuffo nel Tevere. L’ambiguità della frase riportata è risolta. Nel modo peggiore, secondo noi.
Marco Tosatti
25 Ottobre 2019 10 Commenti --
(Juan Antonio Varas, Panamazonsynodwatch.info – 24 ottobre 2019) La sottrazione dalla chiesa romana di Santa Maria in Traspontina di tre statuette di una donna nuda, in avanzato stato di gravidanza, fatta allo scopo di gettarle nelle acque del Tevere ha destato scalpore e le immagini dell’accaduto sono diventate virali sulle reti sociali.
Il clamore non stupisce. Infatti le tre statuette, così come il fiume Tevere, sono cariche di simbolismo e tutto quanto accade sul piano simbolico impressiona le persone, persino nella nostra epoca poco adusa ai simbolismi.
Circa la storia che avvolge il Tevere tanto è stato scritto che non c’è niente da aggiungere. Ma, cosa si sa dei simbolismi dei popoli aborigeni amerindi? Dei loro culti? Dei loro costumi? Della loro storia?
Probabilmente, dopo questo Sinodo sull’Amazzonia si potrebbero approfondire un po’ queste tematiche e leggere ad esempio i tre volumi di uno dei padri della letteratura ispanoamericana, Garcilaso de la Vega, figlio di un principessa inca e di un hidalgo spagnolo, nato nel 1539. Garcilaso conobbe la storia dei suoi antenati di prima mano e persino quella di altri popoli vissuti in territorio peruviano e che dagli inca vennero sottomessi. Ciò sarebbe una necessità imperativa se si volessero seguire fedelmente le indicazioni dei Padri Sinodali, che invitano alla conoscenza della “saggezza ancestrale” dei popoli aborigeni, conoscibile solo attraverso le fonti più antiche, anziché in tanto folklore inventato da antropologi contemporanei. Niente di più utile dunque che leggere “Los Comentarios reales de los Incas”, appunto, dell’ Inca Garcilaso de la Vega”[1].
Qui il titolo “reale” non va riferito alla regalità incaica alla quale Garcilaso apparteneva, bensì al fatto che i suoi scritti narravano il “reale”, cioè il vero, vale a dire quanto egli aveva appreso direttamente dai suoi antenati inca, nella loro lingua quechua. Infatti, Inca Garcilaso osservava che la storia e le tradizioni degli inca si conoscevano solo per via orale e vi era quindi la necessità di porle per iscritto. Fu così che nacque la monumentale compilazione, frutto del lavoro di una vita dedicata a ricordare e registrare quanto aveva ascoltato e vissuto. Dopo oltre cinque secoli, nessuno ha mai osato confutare la veridicità dei fatti narrati.
Ovviamente lo scopo di questo articolo non è riassumere, neanche brevemente, i tre volumi, dei quali soltanto il primo conta 596 pagine. Tuttavia, se ne è voluto far cenno dopo aver letto l’editoriale di Andrea Tornielli su Vatican News (22 ottobre, “Newman e le statuette gettate nel Tevere”), in cui il direttore editoriale del Dicastero per la comunicazione del Vaticano si lamenta della sottrazione e del successivo lancio nel Tevere delle già menzionate statuette.
Ma cosa dice Inca Garcilaso a proposito di questo “simbolo tradizionale”? Tornielli, infatti, assicura che le immagini sottratte sono “un simbolo tradizionale per i popoli indigeni che rappresenta il legame con la nostra ‘madre terra’, definita così da san Francesco d’Assisi nel suo Cantico delle Creature”. Ora, è che chiaro che si tratta di un simbolo, ma le statuette della Pachamama (o Madre Terra) non rappresentano anche degli idoli? E se sono idoli indigeni, perché non dirlo?
Dopo una descrizione delle turpitudini dei culti primitivi degli indios pre-incaici, Inca Garcilaso de la Vega riferisce quanto segue sul culto della Madre Terra da parte degli amerindi: “Alcuni adoravano la terra e la chiamavano Madre, perché dava loro i suoi frutti; ad altri dava l’aria da respirare, perché dicevano che era per l’aria che vivevano gli uomini (…). Quelli della costa, oltre ad un’altra moltitudine di dei che avevano, adoravano il mare chiamandolo Mamacocha, che vuol dire Madre Mare, per significare che ricopriva l’ufficio di madre sostenendoli con la pesca (…). Di modo tale che avevano per divinità non solo i quattro elementi, ognuno per conto suo, ma anche tutti quelli che da essi venivano composti e formati, per quanto turpi o immondi fossero”.
Tali indigeni non si limitavano a dare un culto pacifico alla Pachamama o alla Mamacocha.
“Conforme alla turpitudine e bassezza dei loro dei – racconta ancora Garcilaso – era anche la crudeltà e barbarie dei sacrifici di quella antica idolatria, poiché oltre a cose comuni, come animali e raccolti, sacrificavano uomini e donne di ogni età. (…) In alcune nazioni fu tanto inumana questa crudeltà da superare quella delle belve, giacché non si accontentavano del sacrifico dei nemici catturati, ma volevano anche quello dei loro figli (…). Sacrificavano uomini e donne, ragazzi e bambini, aprendo loro il petto da vivi, per estrarre il cuore e i polmoni, e prima che il sangue si raffreddasse, lo usavano per aspergere gli idoli, che comandavano loro di agire in quel modo. Dopodiché guardavano dentro i cuori e i polmoni per capire gli auspici e per vedere se il sacrificio era stato o meno accetto, e (…) bruciavano in olocausto all’idolo il cuore e i polmoni per poi consumarli, e assaporavano con grandissimo gusto e non meno festosità e compiacimento l’indio sacrificato, anche se si trattasse del proprio figlio”.
Come si può vedere, l’infanticidio viene da lontano.
Davvero si può affermare che tali culti erano gli stessi ai quali si riferiva il Serafico Padre san Francesco?
Una parola “a proposito dell’adozione da parte della Chiesa di elementi pagani” secondo quanto scritto dal Cardinale Newman in “Essay on the Development of Christian Doctrine” e citato nell’editoriale di Andrea Tornielli a difesa delle statuette della Pachamama. Quando sostiene il cardinale appena canonizzato è vero, giacché la Chiesa ha saputo sempre avvalersi delle ricchezze culturali e artistiche dei diversi popoli, per quanto questi potessero essere nell’errore religioso. Gli oggetti elencati da san John Henry Newman sono stati effettivamente adottati dal culto cattolico, dopo essere stati esorcizzarli dagli spiriti maligni con l’acqua purificatrice ed i rituali cattolici. Ma è una adozione fatta con grande saggezza e acuto discernimento cattolico. Così facendo, la Chiesa si mostra aperta a quanto possa sacralizzare ed abbellire il suo culto, dotandolo di significato e di autentico simbolismo al servizio delle verità che professa, senza però mai prestarsi a confusioni e sincretismi.
Infatti, la Chiesa non ha mai adottato gli idoli, men che meno se venivano rappresentati nudi. Altrimenti, le chiese del Mediterraneo dovrebbero essere piene di statue greco-romane invece di altari con immagini di Madonne e santi, dipinti, affreschi e mosaici che tanto hanno contribuito a rafforzare la fede dei popoli.
Gli stessi templi incaici di Cuzco, patrimonio culturale dell’umanità, non furono distrutti e sono il fondamento edile sul quale oggi si innalzano la cattedrale, l’episcopio, il seminario, ecc., come del resto è accaduto per molte chiese di Roma, per la cattedrale di Siracusa, ecc.
Ma oggi si vuol fare l’esatto contrario: sostituire i santi degli altari per erigere squallidi monumenti a idoli impuri.
1. Inca Garcilaso de la Vega, “Comentarios reales de los Incas” prólogo de Aurelio Miró Quesada S. Librería Internacional del Perú, S. A. LIMA- PERÚ.
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